Continuando con altrettanto rigore la propria opera trentennale nel campo del documentario sociale, Luc e Jean-Pierre Dardenne hanno tracciato di film in film una mappa molto circoscritta ma al tempo stesso estremamente dettagliata di alcuni dei mali peggiori della nostra società: degrado, povertà, disoccupazione, sfruttamento, delinquenza minorile. Problemi apparentemente insospettabili ma probabilmente solo rimossi da una cattiva coscienza europea illusa di averli risolti da tempo, che nei film dei due registi belgi emergono in tutta la loro gravità grazie alle figure di adolescenti e ragazzi costretti a lottare in solitudine (anzi, spesso proprio contro chi dovrebbe tutelarli) per sopravvivere, materialmente ma anche moralmente, in un contesto sociale che sembra non riuscire ad accorgersi di loro. Un’invisibilità sociale che rende impossibile raccontare delle storie, se non altro nel senso classico del termine, ovvero attraverso personaggi in qualche modo esemplari o emblematici e che, allo stesso tempo, rende necessario restituire il massimo di visibilità a delle esistenze marginali attraverso un modo di fare cinema concreto, fisico, corporeo. I ragazzi dei film dei Dardenne vivono tangibilmente questa condizione: il loro territorio è la periferia urbana, gli spazi che attraversano sono strade a scorrimento veloce (dove gli altri sono la massa uniforme e anonima degli automobilisti che sfrecciano indifferenti) o gli argini umidi e inospitali di fiumi e canali, gli ambienti che li accolgono sono roulotte anguste e inospitali, appartamenti fatiscenti e disadorni o luoghi di lavoro anonimi e rumorosi. Isolati dallo spazio circostante da una macchina da presa quasi sempre a spalla, sempre troppo vicina ai loro corpi, i personaggi dei Dardenne diventano protagonisti assoluti di vicende nelle quali lo spettatore viene calato senza che gli siano concessi gli strumenti per poter giudicare, ovvero senza appigli – sociologici, psicologici o, più semplicemente, narrativi ed estetici – attraverso i quali inquadrare i protagonisti all’interno di categorie certe, stereotipi o modelli riconosciuti. Non si tratta, infatti, di ribelli consapevoli della propria diversità che lottano per affermare il proprio diritto a trasgredire le regole, né (o almeno non solo) di disadattati che vivono con rassegnazione la propria condizione di marginalità. Questi adolescenti, svincolati dal contesto sociale (quasi sempre assente o totalmente degradato) ma anche privi di un passato strutturato (il loro orizzonte emotivo è quasi del tutto privo di ricordi, sentimenti, nostalgie o rimpianti), spesso devono farsi carico di ruoli e responsabilità considerate, nell’Occidente progredito e ancor di più nell’Europa mutualistica e assistenziale, esclusivo dominio degli adulti. La disperata tensione fisica che li anima è l’unico elemento strutturante una serie di narrazioni la cui forza risiede in un lavoro di sottrazione degli elementi che solitamente rimarcano la drammaticità degli eventi (recitazione enfatica, impiego delle musiche, uso della macchina da presa e delle luci in funzione espressiva) e nella capacità di cogliere i personaggi nel bel mezzo delle loro esistenze senza nulla aggiungere al freddo dato fenomenico, privandoli di una vera e propria psicologia, ponendoli al centro di situazioni che li obbligano a decisioni drastiche e comunque dolorose. Nell’assenza di strutture sociali, istituzionali, familiari e persino di rapporti amicali stabili, allo stesso modo in cui il cinema dei Dardenne si affida ciecamente alla descrizione minuta di azioni concrete ed elimina quasi totalmente i dialoghi, i giovani personaggi dei loro film non possono fare altro che orientarsi nel mondo a partire dagli oggetti con i quali entrano in relazione. Se il rapporto con l’Altro (genitori, amici, datori di lavoro, insegnanti) è quasi sempre incerto, fallace, spesso impossibile, le relazioni con gli oggetti (prodotti del lavoro, beni di consumo, merci di scambio che siano) sono sempre chiare, dirette, inequivocabili: la protagonista di Rosetta sa distinguere benissimo ciò che è buono (i vestiti rammendati dalla madre da rivendere ad un negozio di articoli usati, le trote che ha pescato nel canale) da ciò che è cattivo (il cibo regalato alla madre dai vicini e che lei definisce “un’elemosina”); la prima cosa che Francis chiede a Olivier (Il figlio) è di insegnargli a misurare gli oggetti con la sua stessa millimetrica precisione; Bruno (L’enfant – Una storia d’amore) sa perfettamente quanto vale la merce rubata che gli portano i suoi giovanissimi complici e, quando si trova alle prese con il figlioletto appena nato, scatta in lui un automatismo che lo porta a “convertirlo” (quasi fosse il frutto di un furto) in denaro. Anche le relazioni affettive, dunque, per acquisire valore vanno quantificate, misurate, sottoposte a una verifica concreta, anche a rischio di distruggerle. Se il caso di L’enfant è estremo ed illuminante (Bruno comprende appieno l’entità del proprio gesto solo quando è costretto a restituire due volte il denaro ricevuto in cambio del neonato), ancora più paradossale è quello di Il figlio nel quale il protagonista sembra voler misurare la propria capacità di perdonare l’assassino del figlio accettandolo come apprendista. In Rosetta, invece, la protagonista è costretta a mettere sullo stesso piano l’amicizia (forse l’amore) di un suo coetaneo e il lavoro, scegliendo quest’ultimo a svantaggio del primo. Del resto, è l’intero sistema di rapporti familiari ad essere sovvertito: in Rosetta siamo di fronte a una ragazza che deve fare da madre alla propria madre; in La promesse Igor viene trattato dal padre alla stregua di un fratello e cerca in Assita, l’immigrata clandestina che decide di aiutare, una figura materna assente; in L’enfant Bruno riuscirà ad assumersi in pieno le proprie responsabilità di fronte al figlioletto e alla compagna solo dopo aver dovuto “far da padre” a un ragazzino suo complice in un furto. È paradossale, infatti, che il rapporto genitore-figlio più classico e normale – almeno all’apparenza – sia proprio quello costruito faticosamente dai personaggi di Il figlio (storia di un uomo che decide, all’insaputa di tutti, di fare da tutore ad ragazzo che gli ha ammazzato il figlioletto anni prima) e che quello in cui compare una famiglia completa in tutte le sue componenti sia proprio L’enfant dove i genitori sono poco più che degli adolescenti. Al di là del valore di pura e semplice registrazione della loro condizione, qual è il senso ideale di queste esistenze chiuse all’immaginazione, al desiderio, alla speranza? Tra le pieghe del “qui ed ora” al quale implacabilmente i due registi belgi legano i propri personaggi, esiste per gli adolescenti dei Dardenne la possibilità di una, sia pur faticosa, costruzione identitaria? Malgrado le loro esistenze sembrino organizzarsi in base a meccanismi istintivi di sopravvivenza emergono dei percorsi di formazione o, più semplicemente, le tracce di un possibile cambiamento e di una speranza che possano proiettarli all’interno di dimensioni simboliche capaci, anche agli occhi dello spettatore, di assumere un respiro se non proprio esemplare almeno emblematico. Tutti i film dei cineasti belga, ad esempio, sembrano accogliere letture in chiave cristologica (la verità cercata nell’essenzialità dei corpi), con i loro giovani personaggi costantemente sottoposti dal destino a delle prove sempre dolorose. Tutti sono, in qualche modo a diretto contatto con il male: Igor deve lottare contro la propria indifferenza, Rosetta contro la tentazione di tradire, Francis – sia pur inconsciamente – con Olivier che a sua volta deve lottare contro il desiderio di vendetta, Bruno contro il proprio cinismo. Tutti, inesorabilmente, cadono e sono costretti a faticosissimi percorsi sacrificali di redenzione e riscatto il cui successo, secondo un’ottica pienamente laica, non è mai dato per scontato. Ma se esiste una vera risposta alla triste condizione dell’Igor di La promesse, costretto a fuggire da un padre ignobile e disonesto, forse questa è da ricercare in Il figlio, ovvero nell’incontro tra Francis ed Olivier, padre putativo esemplare, addirittura stoico nella sfida che ingaggia contro se stesso. Se c’è possibilità di riscatto al tradimento di Rosetta nei confronti dell’amico Riquet, questa risiede nella generosità di Bruno (L’enfant) che decide di accorrere in aiuto del giovanissimo Steve. Un gioco di rimandi interni che, spazzando il campo da ogni tentazione consolatoria e da soluzioni semplicistiche, invita lo spettatore a leggere e rileggere trasversalmente un corpus filmico nella sua totalità, a interrogare le immagini nel loro significato più intimo per individuarne il senso ma anche e soprattutto per riposizionarsi continuamente rispetto ad esse, rimettendo in discussione ogni idea preconcetta di cinema, di realtà, di società. Fabrizio Colamartino