di Terence Davies
(Gran Bretagna, 1992)
Sinossi
Liverpool, 1955-56. Bud è l’ultimo dei figli di una famiglia guidata, con mano ferma e spirito compassionevole, da una donna sola vedova da molti anni. Le giornate dell’undicenne Bud trascorrono tra momenti piacevoli e dure lezioni di vita. A scuola gli insegnanti non esitano ad usare il bastone sugli alunni, mentre i compagni di Bud si divertono a prenderlo in giro e a dargli dell’omosessuale; a casa, mentre i fratelli più grandi si godono l’autonomia data dall’età ed escono con i rispettivi fidanzati e fidanzate, Bud occupa il proprio tempo ascoltando canzoni alla radio, osservando la madre impegnata nelle faccende di casa, contemplando dalla finestra la vita che scorre nella strada sottostante. Un giorno, nota un giovane muratore che gli sorride e gli strizza l'occhio. Quel gesto apparentemente insignificante, provoca nel ragazzino uno strano turbamento: lo sogna di notte, lo immagina nei panni di Cristo in croce. Intanto le stagioni passano una dopo l’altra: Bud cerca di passare più tempo possibile al cinema, la sua più grande passione, e partecipa alle feste del quartiere, organizza piccoli spettacoli per i parenti, di notte osserva il cielo frastagliato dalle nuvole.
Presentazione Critica
Citazioni per comprendere
Terence Davies ha spiegato con lucidità le ragioni del suo terzo lavoro autobiografico (i primi due sono stati Terence Davies Trilogy e Voci lontane… sempre presenti): “Ho voluto ritrovare la mia infanzia, a Liverpool tra gli otto e gli undici anni. Sono stati gli anni più belli della mia vita, di incantevole felicità e pienezza. Un vero paradiso, cominciato con la morte di mio padre. Io lo odiavo perché era un uomo brutale, che mi terrorizzava e pestava mia madre davanti a me che così piccolo non potevo difenderla. Il periodo senza mio padre è stato per me meraviglioso, anche se la mia famiglia era povera, priva di tutto, ma c'era questo grande senso di amore e di continua scoperta. Poi però anche il paradiso è finito: in un giorno qualunque dei miei undici anni, quando su un'impalcatura di fronte a casa nostra ho visto un giovane muratore a torso nudo, ho provato un'emozione violenta che mi ha fatto precipitare nell'orrore...”. Poi ha aggiunto: “Non sono affatto contento di essere gay, non provo alcun orgoglio omosessuale. Ritengo una disgrazia essere fuori dalla norma, un peso che ha condizionato tutta la mia vita”. Terence Davies, nel suo cinema così radicalmente autoreferenziale, fa proprie le convinzioni espresse da François Truffaut quando ancora era un critico cinematografico: secondo l’autore de I quattrocento colpi, ogni film doveva essere assolutamente autobiografico, partire dalle esperienze personali per esprimere un’idea di mondo e un’idea di cinema. Con Il lungo giorno finisce Davies lavora in entrambe le direzioni: esplicita gli stati d’animo di quand’era bambino (la gioia di una vita famigliare piena e serena, il turbamento per i primi istinti omosessuali, il conflitto con la religione e il senso di peccato), proponendo una precisa visione della società anglosassone degli anni ’50 (malfamata come le strade del suo quartiere, bigotta come la religione cattolica acriticamente adottata, repressiva come il sistema educativo e scolastico) e manifesta una concezione della settima arte assolutamente originale (messa in scena di stampo teatrale, discrasia tra la colonna visiva e quella sonora, annullamento della progressione narrativa, centralità del fuori campo, occlusione degli spazi, riferimenti all’arte sacra e all’iconografia cristiana, dilatazione del tempo della diegesi).
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Una gioia soffocata dalla consapevolezza del futuro
L’elemento principale di sofferenza per Bud è la scoperta della propria omosessualità. In lui non c’è cognizione del proprio orientamento sessuale (è ancora troppo giovane per questo) ma, ancor più difficile da gestire, un turbinio di sensazioni nuove e traumatizzanti che il senso di colpa derivante dal rigido controllo ecclesiastico non tende a soffocare, ma al contrario a far esplodere. È uno stato d’animo così intenso da palesarsi in una spietata visione, quella del Cristo in croce con il volto del muratore ammirato dalla finestra. Gli incubi di notte, l’acqua che scoscia alla finestra, il fascino per la decadenza del quartiere sono altri segnali di consapevolezza della propria diversità. Se in Bud l’impulso sessuale è ancora confuso, la sensazione di esclusione da esso derivante è già perfettamente nitida: la sperimenta a scuola, quando viene chiamato “finocchio” o viene punito con le bastonate sulle mani, con i suoi coetanei verso i quali si sente inadeguato (si pensi alla scena in cui, dopo una lunga esitazione, rinuncia a rincorrere un amico per invitarlo al cinema), con gli adulti che incontra per strada, a cui chiede “un passaggio” per entrare al cinema, o con gli stessi fratelli e sorelle che, in quanto adulti, lo escludono involontariamente dalla loro vita sociale. L’unico punto di riferimento rassicurante, solido, appagante per il bambino è la madre: si tratta di un figura complessa, onnicomprensiva perché interpreta il ruolo materno e paterno, serenamente presente, silenziosa eppure giusta nelle proprie richieste. Ciò che trasmette e testimonia è un sistema di tradizioni ed un immaginario veicolato soprattutto dalle canzoni trasmesse per radio, elementi che costituiscono la spina dorsale della sua famiglia. Bud è ammaliato, attratto (ma non sessualmente) da quella donna profondamente materna, conquistato dalle canzoni che canta ogni sera e che aprono la sua immaginazione ad un mondo di sogni e sentimenti dal quale i personaggi del film sono esclusi. Le altre due passioni di Bud sono il cinema e la musica. Il cinema è il sogno individuale e privato per eccellenza, lo spazio intimo, il luogo della fuga: non a caso Davies rinuncia a mostrarci Bud al cinema, ma inserisce numerosi dialoghi di film in fuori campo per far comprendere allo spettatore quanta importanza abbia per il protagonista il mondo di celluloide. La musica rappresenta invece la condivisione della tradizione, l’unione famigliare: più di settanta canzoni solcano il racconto, si tratta di brani degli anni ’50, ma di musica sacra o classica. Come già in Voci lontane…sempre presenti, con cui condivide numerosi elementi di carattere tematico e stilistico, il film ci mostra la gente di un quartiere popolare che trova spensieratezza e un briciolo di felicità allorquando si mette in cerchio a cantare. Bud è rapito da un rito comunitario in cui ognuno è accettato per quello che è, mai giudicato se non in modo bonario e innocuo (si veda la coppia di amici della madre di Bud sempre in contrasto ma teneramente innamorati l’uno dell’altro). La musica è anche depositaria della memoria e della nostalgia per una vita che non c’è più, nostalgia che – si badi bene – è provata sia dai personaggi del film, sia dal regista. C’è un velo di tristezza che rende cupe anche le manifestazioni di gioia più autentiche di Bud e della sua famiglia, un senso di imminente corruzione dei costumi (sia in Bud che nella società inglese) che giustifica quel tono di impotente pessimismo che permea tutto il racconto. Marco Dalla Gassa