di Antonietta De Lillo
(Italia, 2001)
Sinossi
Napoli. Valerio e Sofia, di undici e dodici anni, sono figli di coppie divorziate. Passano l'estate insieme ai rispettivi padri che hanno diritto di trascorrere con loro parte delle vacanze estive. Incontratisi per caso in un negozio e poi in spiaggia, in breve tempo stringono una salda amicizia. Valerio dovrebbe andare con il padre in Africa, ma il viaggio è continuamente rimandato, Sofia dovrebbe raggiungere la madre a Procida, ma il padre cerca di tenersela qualche giorno in più. In quei pochi giorni vissuti insieme, con l'incertezza di come continuerà l'estate, osservano con un misto di dolore, distacco e ironia gli infantilismi dei loro genitori che si comportano come eterni adolescenti. Il padre di Valerio non ha soldi, promette fantastici viaggi al figlio, ha una relazione passeggera con una donna; il padre di Sofia – se possibile – conduce una vita ancora più disordinata: dopo aver avuto due figli, Armando e Sofia, da due donne diverse, mette incinta una vicina di casa della madre senza voler riconoscere la paternità del nascituro. Tra una gita in barca di notte, una fuga per le vie di Napoli, una giornata passata a Procida, Valerio e Sofia scoprono di bastare a loro stessi e promettono di non lasciarsi più.
Analisi
Famiglie in frantumi
Una Napoli scorbutica, distratta e insolitamente deserta è il teatro del terzo lungometraggio della regista partenopea Antonella De Lillo: è il luogo in cui si incontrano una bambina scura di carnagione, capelli bruni, marcato accento meridionale ed un bambino biondo, occhi chiari e sguardo curioso, atterrato poche ore prima con un aereo proveniente da Stoccolma. Parrebbe il classico incontro tra due personaggi agli antipodi, l'autoctono e il “diverso” che prova ad integrarsi, con chissà quali difficoltà, in una comunità che lo guarda con distacco e diffidenza. Nulla di più errato: Sofia e Valerio sono due personaggi identici, non solo per le esperienze famigliari in comune, ma anche da un punto di vista caratteriale. Entrambi sono timidi, curiosi, disorientati, appassionati. Già da questo primo incontro si comprende che la cifra principale del film è il sovvertimento delle certezze. Ciò che sembra non è, ciò che era non è più. Napoli, capitale del sud, dove dovremmo incontrare famiglie tradizionali, numerose, legate le une alle altre da strettissimi sistemi parentali che saldano e nello stesso tempo soffocano il tessuto sociale, si scopre stranamente priva di nuclei famigliari classici. Sembra di essere a New York o ad Amsterdam: famiglie disunite, genitori separati, doppi o tripli matrimoni, relazioni sentimentali deboli, caos e confusione degli affetti. Antonella De Lillo non è interessata a raccontare una realtà sociale oggettiva, ma arbitrariamente vuole tracciare un affresco della sua generazione, quella dei quarantenni, confusi, incapaci sia di ripetere le scelte dei padri, sia di trovare un proprio equilibrio (psichico, economico, sentimentale) in un mondo che equilibrato non è. Gli uomini sono tutti eterni ragazzi, eterni adolescenti: Giacomo, padre di Valerio, è un fallito nullafacente che accompagna il figlio al mare al mattino per poi scordarsi di riprenderlo alla sera, che non vuole ammettere di non avere i soldi per portarlo in vacanza in Africa o di avere una storia con un'altra donna; Matteo, avvocato, ha avuto due figli da due donne diverse, non ha dialogo con Armando (fratellastro di Sofia), non sopporta la propria madre e non ha il coraggio di riconoscere un terzo figlio avuto da una vicina di casa. Entrambi gli uomini soffrono una situazione famigliare precaria, non sanno come orientarsi tra esigenze dei figli, richieste delle mogli, una vita privata da mandare avanti. Le donne – meglio, le madri – sono assenti, comunicano con gli ex mariti solo con il cellulare e, quando lo fanno di persona, si lasciano andare ad inutili isterismi, pesanti accuse anche in presenza dei figli, intente più a sfogare la propria rabbia e la propria frustrazione che non a pensare al bene dei loro ragazzi.
I bambini ci guardano (e ci ascoltano)
Per descrivere un panorama generazionale così cupo la De Lillo si affida allo sguardo dei più piccoli, in modo da evitare le secche del film-dibattito (peggio i padri adolescenti o le madri furiose e intrusive?), ma anche quelle del film-TV (melodrammi, buoni sentimenti, denunce sociali). La soluzione per evitare modelli anacronistici è inevitabilmente formale: la regista sceglie di girare in digitale, un formato che dà alle immagini l'aspetto sgranato, afoso, umido, tipico di certe giornate estive, ma anche un carattere lieve, dilettantistico, casuale, tipico dei filmini famigliari. Non tutto ciò che è ripreso è funzionale al racconto. La piccola videocamera è posizionata ad altezza di bambino, per dichiarare non solo il punto di vista attraverso il quale vengono descritti gli adulti, ma anche – come insegnava Truffaut – per segnalare la preferenza dell'autrice per Valerio e Sofia. Il frequente ricorso alla soggettiva e al campo/controcampo spesso sottolineato dallo sguardo in macchina, segnalano la centralità dei ragazzi che, guardando e ascoltando, studiano gli adulti, decidono se prenderli a modello o si fanno un'idea del mondo e della vita in altro modo. Le sequenze in cui vengono mostrate decine di bambini che giocano sulle spiagge di Napoli, con le loro smorfie, le loro risate, le piccole avventure quotidiane, ci ricordano che Non è giusto non è un film “sui” bambini e nemmeno un film “con” i bambini, ma è un film “di” bambini. I ragazzini sono i protagonisti della spiaggia, dell'estate, della vita. Di loro è il mondo che gli adulti tanto inconsciamente stanno rovinando e ingarbugliando. Tra Valerio e Sofia, che, come si diceva poc'anzi, sono due personaggi equivalenti, non può sbocciare l'amore (solo alluso in alcuni passaggi), ma un'alleanza. Per difendersi dal dolore delle loro solitarie esistenze, traendo forza l'uno dall'altro, cominciano a guardare ai propri genitori con distacco e ironia. Ciò non determina una loro precoce maturazione: Valerio scappa di casa senza dire nulla al padre, Sofia affida il proprio futuro alla casualità, ad un gioco infantile, alla scommessa di una trota pescata prima dell'arrivo di una nave (per capire se avrebbe rivisto Valerio l'anno successivo). Tuttavia la ragazza, rimproverando l'amico perché non racconta ciò che pensa e desidera al padre, è cosciente del fatto che solo la manifestazione delle proprie idee ai genitori toglie a questi ultimi il potere arbitrario di scegliere cosa è bene o male per loro. A maggior ragione se si pensa che il conflitto generazionale che vivono i due protagonisti non è provocato dal caos famigliare – dal quale si difendono benissimo, come conferma l'assenza di gelosia di Sofia per l'arrivo di un terzo fratellino – ma dall'assenza di moralità e coerenza nel comportamento degli adulti e dalla presenza di un radicato senso di giustizia nei bambini (sottolineato dal titolo del film “Non è giusto”). Se Valerio esprime la propria rabbia simulando con le dita un colpo di pistola verso chi si prende gioco di lui, Sofia preferisce simbolicamente rigettare il pesce appena pescato in mare: in quel semplice gesto c'è la speranza di una libertà da vivere il prima possibile.
Marco Dalla Gassa