Esistono le “spose bambine” in Italia? E se ci sono, quante sono? La cronaca degli ultimi mesi ha “scoperto” che anche nel nostro paese vivrebbero minorenni straniere costrette al matrimonio combinato. La natura inquietante e sommersa di questi episodi favorisce però un approccio poco razionale dei mezzi di informazione.
Enfatizzano i numeri senza preoccuparsi troppo della loro veridicità: i casi accertati di matrimoni che coinvolgono minorenni nel nostro paese erano 156 al 2007 e non 2 mila, come rilanciato da più parti. «Casi sporadici: la stampa a volte generalizza senza capire il contesto», è il commento degli studiosi.
I giornali, infatti, stanno documentando da qualche mese quelle che sembrano tensioni della convivenza tra obblighi familiari figli di culture lontane e il desiderio delle nuove generazioni di vivere in libertà come i coetanei italiani. Ma la voglia di approfondire a volte si scontra con le imprecisioni. Capita così che anche l'autorevole Corriere della Sera incappi nell'errore e, in una inchiesta di due pagine del 20 gennaio, riporti alcuni dati già pubblicati dal quotidiano La Repubblica quasi un anno fa, attribuendoli però al Centro nazionale.
Facciamo allora chiarezza: gli unici dati ufficiali del Centro nazionale, elaborati da fonte Istat, fotografano il crollo progressivo nel numero di spose minorenni in Italia e sanciscono che, da più di mille casi dell'inizio degli anni Novanta (1562 nel 1993), le nozze che coinvolgono under 18 sono scese a 156 nel 2007. Un numero ben lontano da alcune stime proposte soprattutto in sede internazionale (e rilanciate dai media): per esempio, l'International center for research on women, un centro di ricerca americano con sede a Washington, quantifica in almeno 60 milioni le spose bambine, 2 mila delle quali in Italia. Invece per l'Unfpa, il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, la stima sarebbe leggermente inferiore: circa 50 milioni nel mondo.
«Dovremmo stare attenti a non confondere i piani: una cosa sono i matrimoni, un'altra il desiderio di uno stile di vita occidentale», avvisa Maddalena Colombo, professore associato di Sociologia dei processi culturali alla Cattolica di Milano. «Certi contrasti che si manifestano nelle famiglie immigrate – aggiunge – vanno inseriti nel tentativo di dare continuità a un modello familiare che non è stato scalfito dall'emigrazione». In queste situazioni, obietta la sociologa, «si fa più acuto il conflitto intergenerazionale tra genitori e figli», soprattutto «nelle culture che non sanno interpretare la globalizzazione e per difesa si chiudono in se stesse». Così i figli «si oppongono su tutto ai genitori, che sono visti come modello di una cultura diversa da quella che si sente come propria».
Una ricerca condotta proprio dalla Cattolica sui giovani stranieri (fascia 14-19 anni) non nati ma venuti in Italia svela che loro, anche se il luogo di nascita «conserva un forte valore simbolico, hanno gli stessi valori dei coetanei occidentali: trovare un lavoro, costruirsi una carriera, decidere in autonomia quale famiglia costruire».
«Per quanto i numeri siano forse parziali e il fenomeno rimanga poco studiato - aggiunge Lia Lombardi, docente di Sociologia della medicina all'Università di Milano – non possiamo che evidenziare come la cronaca generalizzi spesso quelli che in verità vanno considerati casi isolati e sporadici». «Non abbiamo nessuna testimonianza diretta che nel nostro Paese si celebrino matrimoni precoci, cioè unioni tra una bambina di 11, 12 o 13 anni con un uomo adulto, che – non dimentichiamolo - possono comportare molti problemi sessuali e di salute alle giovanissime», dice ancora.
«Nei miei lavori spesso ho citato il problema dei matrimoni precoci riferendomi ad altri paese dove questo è ancora permesso o tollerato e inserendolo nel tema più vasto della salute riproduttiva. In Italia, esiste una norma ben precisa che regolamente il matrimonio dei minori, l'articolo 84 del codice civile». Allora, osserva Lia Lombardi, il problema è quello della rappresentazione: «La stampa non si sforza di inquadrare un fatto nel giusto contesto e arriva a dipingere questi episodi come molto frequenti». È un gioco «pericoloso», secondo la sociologa, perché «replica e diffonde i pregiudizi verso le persone migranti», senza contare che «si perpetra un'ulteriore violenza verso minori che spesso si trovano in condizioni di vita difficili». (mf)