di François Truffaut
(Francia, 1976)
Sinossi
Siamo negli anni Settanta, a Thiers, un villaggio nel centro della Francia. L’estate è vicina e l’anno scolastico sta per terminare: le storie degli alunni di due classi, una elementare e una media guidate rispettivamente da Jean-François Richet e da Chantal Petit, si intrecciano dando vita a un variegato mosaico di situazioni. Patrick, che vive con il padre handicappato, è invaghito della madre di un suo compagno di scuola: durante le vacanze estive, tuttavia, si innamorerà di Martine, una sua coetanea. Mathieu e Frank rapano maldestramente un loro compagno in cambio del denaro che questi aveva ricevuto dal padre per il barbiere. Il piccolo Gregory, lasciato solo in casa, cade da una finestra ma non riporta neanche un graffio. Sylvie, punita dai genitori per un capriccio, chiede aiuto al vicinato servendosi di un megafono. Julien, un ragazzo povero, viene assegnato alla classe della signorina Petit, ma non studia e commette dei furtarelli. Alla fine, quando si scopre che la madre lo picchia, verrà affidato all’assistenza sociale. L’ultimo giorno di scuola, il signor Richet – che nel frattempo è diventato padre – avrà modo di spiegare ai suoi alunni, proprio partendo dal caso di Julien, quanto sia difficile essere bambini.
Introduzione al Film
Sarebbe facile interpretare questo film di François Truffaut come una sorta di atto di riconciliazione con le realtà della scuola e della famiglia che, nel suo primo lungometraggio – I quattrocento colpi – il regista aveva sottoposto a uno sguardo impietoso che ne denunciava l’ottusità e l’incapacità di comprendere il mondo dell’infanzia. Per Gli anni in tasca, infatti, l’autore decide di allontanarsi da Parigi, scenario di quel suo primo film: da una dimensione urbana che riusciva a comunicare, meglio di qualsiasi altra, la solitudine e lo smarrimento di un adolescente continuamente in fuga, Truffaut passa a quella di un villaggio di provincia che si offre allo sguardo dello spettatore come scenario inedito, eppure immediatamente familiare. Dal dramma di un singolo ragazzino, le cui bravate acquistavano con il progredire della storia il valore di veri e propri atti d’accusa verso il mondo degli adulti, si passa a una commedia corale che riesce a comunicare la gioia di vivere e la spensieratezza dell’infanzia soprattutto attraverso un’articolazione libera e apparentemente disordinata delle tante piccole vicende che compongono il racconto. Il regista sembrerebbe così essersi liberato, almeno apparentemente, dei traumi della propria adolescenza turbolenta e infelice – mirabilmente tradotti nel suo debutto nel lungometraggio e, successivamente, nel Ragazzo selvaggio – per adottare uno sguardo ancora guidato da un’affettuosa complicità, ma, al tempo stesso, più distaccato e sereno. I bambini di Thiers, infatti, non sono mai realmente abbandonati, e anzi rivelano perfino un certo compiacimento quando riescono a mettere in difficoltà gli adulti: quando la piccola Sylvie viene lasciata a casa in punizione, una vera e propria catena di solidarietà si stringe intorno a lei – i vicini provvedono a rifocillarla – e il regista può permettersi di registrare maliziosamente anche un piccolo moto d’orgoglio della bambina che, nonostante tutto, è riuscita ad attirare su di sé l’attenzione degli adulti. Persino un evento potenzialmente tragico, come il volo del piccolo Gregory dall’ultimo piano di un palazzo, si risolve miracolosamente con l’atterraggio del bimbo su una soffice siepe che ne attutisce la caduta. Quella di Truffaut, tuttavia, è una visione solo apparentemente idilliaca e semplicistica: tutti i piccoli protagonisti del film lottano, comunque, per affermare la propria indipendenza dal mondo adulto, e, in quest’universo provinciale, apparentemente ovattato, continuano a essere presenti una serie di elementi che consentono, al di là di una lettura facile e comunque lecita, la possibilità di scorgere temi e problemi cui l’autore sembra, anche in quest’occasione, non voler derogare. Passandole al filtro di un’apparente spensieratezza, il regista fa riemergere una serie di questioni che, se adesso trovano gli adulti – e le istituzioni di cui essi sono i rappresentanti – maggiormente disposti e attenti a comprenderle, restano comunque in primo piano, essendo tutt’altro che risolte. Patrick, orfano di madre, deve assistere il padre immobilizzato su una sedia a rotelle: s’invaghisce della madre di un suo compagno di scuola nella quale cerca, probabilmente, l’affetto materno di cui è stato privato piccolissimo e che, ingenuamente, confonde con l’attrazione per l’altro sesso. Julien, a sua volta, conservando molte delle caratteristiche tanto di Antoine Doinel – il personaggio de I quattrocento colpi – quanto di Victor – il protagonista del Ragazzo selvaggio – rivela come, anche all’interno di questa piccola isola felice, possa esserci spazio per un’ulteriore riflessione sull’infanzia negata. Sarà proprio la vicenda di Julien a dare l’occasione al signor Richet di parlare ai suoi alunni della difficoltà di essere bambini in un mondo le cui regole sono dettate dagli adulti. Attraverso questa moderna figura di insegnante, diametralmente opposta a quella del professore dispotico de I quattrocento colpi, è il regista stesso a “salire in cattedra” per condividere con gli spettatori i propri ricordi di bambino e adolescente, perché, come afferma per bocca di Richet, gli adulti troppo spesso dimenticano di essere stati essi stessi bambini. La gentilezza con cui la macchina da presa, in questa così come in altre sequenze, va a scoprire i volti dei piccoli protagonisti, ci rivela, ancor meglio di tanti discorsi, la capacità del regista di avvicinarsi al mondo dell’infanzia con la grazia e la semplicità di chi ha saputo mantenere con esso un rapporto vivo e autentico. Fabrizio Colamartino