di Marleen Gorris
(Olanda, 1995)
Sinossi
Al termine della seconda guerra mondiale Antonia, una ragazza madre, torna con la figlia adolescente Danielle al villaggio delle Fiandre nel quale è nata
, per assistere la madre malata da tempo. Lo stesso giorno l’anziana donna passa serenamente a miglior vita e Antonia riprende possesso della Casa rosa, il cascinale di famiglia, iniziando a coltivare la terra. Al villaggio ritrova molte facce familiari, tra cui Dito Storto, sorta di asceta pessimista seguace di Schopenauer, e Sebastian, un agricoltore vedovo con cinque figli che le chiede di sposarlo. Ma Antonia è una donna indipendente e rifiuta la proposta di Sebastian, permettendo tuttavia all’uomo di frequentare la sua casa. Danielle, appassionata di disegno, decide di iscriversi all’accademia d’arte in città: torna chiedendo alla madre di aiutarla a scegliere un uomo dal quale avere un figlio. Lo trovano grazie a Letta, un’altra ragazza madre: nove mesi dopo, Danielle dà alla luce una bimba, Thérèse, che fin da piccolissima mostra una spiccata intelligenza. Passano gli anni e nascono altri bambini, frutto dell’unione delle coppie formatesi all’ombra della Casa rosa, divenuta il punto di incontro di una piccola comunità libera (Letta, ad esempio, ha sposato il sagrestano del villaggio spogliatosi della tonaca e Deedee, una povera ritardata, ha fatto altrettanto con Willem, lo scemo del villaggio). Thérèse, nel frattempo, è diventata amica di Dito Storto con il quale disserta di filosofia e religione; ancora bambina si iscrive all’università laureandosi brillantemente; infine diviene una compositrice di grande fama. Anche per Thérèse viene il momento dell’amore e della maternità: si unisce a Simon, figlio di Letta e, malgrado il pessimismo di Dito Storto che la scongiura di non mettere al mondo un altro infelice, decide di tenere il bambino. Sarah, questo il nome dato alla piccola, crescerà serena, anche se per la comunità della Casa rosa incomincia un periodo di lutti: muore Letta, dopo aver dato alla luce il dodicesimo figlio, Willem, schiacciato da un trattore, Dito Storto, suicida, coerentemente con le proprie idee. Viene, infine, la volta di Antonia: con grande dignità la donna, ormai anziana, morirà serenamente, confortata dall’affetto della figlia, della nipote e della bisnipote.
Presentazione Critica
Strutture narrative maschili e femminili
L’albero di Antonia è una saga familiare di stampo esclusivamente matriarcale, volutamente fuori dagli schemi, deliberatamente anticonformista: narra la nascita di una stirpe di donne-madri la cui discendenza è, ovviamente, solo femminile, nonché della piccola comunità che si stringe attorno ad esse. Pur non essendo esclusi dalle vicende narrate, gli uomini non costituiscono più il centro gravitazionale della storia, sono ridotti a un ruolo di secondo piano rispetto alle donne, in questo caso uniche e vere protagoniste. La regista olandese Marleen Gorris sembra voler dimostrare, in questo modo, che i germi della cultura alternativa esplosa nel corso degli anni Sessanta con l’affermazione del femminismo e del movimento hippy (cui il film nella parte finale dedica un vago riferimento), erano già presenti in una visione tutta al femminile della vita da sempre ignorata perfino dalle stesse donne. È per questo che L’albero di Antonia è un vero e proprio trionfo del coraggio quotidiano e domestico, della solidarietà e complicità tra donne dal quale sono esclusi, oltre che i protagonisti maschili, anche ogni avvenimento significativo, se non quelli relativi alle nascite e alle morti dei vari membri della comunità. L’assenza di eventi traumatici, di un’evoluzione drammatica delle vicende (che conoscono solo dei brevissimi momenti di tensione tuttavia prontamente risolti), si risolve, così, in una sorta di contemplazione passiva dello scorrere del tempo: più volte, all’avvicendarsi sulla scena delle generazioni, ricorre l’inquadratura in campo lunghissimo del villaggio al tramonto, con la voce narrante di Sarah che ripete la frase “La vita aveva prevalso ancora una volta, le generazioni si susseguivano…”. Anche le strutture narrative tradizionali probabilmente sottostanno a regole che derivano da un substrato antropologico dominato da un tipo di pensiero prettamente maschile e, una concezione del tempo (dunque della narrazione), come quella del film della Gorris lascia per lo meno perplessi. Il film, infatti, non trae giovamento, almeno in quanto a originalità, da questa scelta: L’albero di Antonia è una sorta di manifesto femminista privo, tuttavia, di uno sfondo politico e storico concreto che ne legittimi e motivi l’esistenza. A parte le sequenze iniziali, nelle quali vediamo Antonia e sua figlia essere fatte oggetto delle maldicenze degli abitanti del villaggio, delle volgarità di alcuni uomini e degli strali del parroco che si scaglia con un sermone contro i rapporti extraconiugali, progressivamente il campo d’azione si riduce alla Casa rosa e alla comunità che si raccoglie attorno a essa. All’interno di questo microcosmo il tempo sembra arrestarsi, gli avvenimenti storici che cambiarono definitivamente il volto del mondo (almeno di quello occidentale) sono soltanto un’eco vaga e confusa, lo scorrere degli anni e dei decenni si riduce a una semplice questione di abbigliamento ed acconciature. Le protagoniste assurgono, dunque, allo status di figure archetipiche, assolute e a-temporali, occupando l’intera scena senza, tuttavia, aver fatto nulla di particolarmente eclatante per guadagnarla, mentre invece i comprimari si riducono a una serie di figure da bozzetto a tratti imbarazzanti per ingenuità (Willem, lo scemo del villaggio mite e gentile che sposa – ovviamente – la povera ritardata Deedee, il prete che nelle prediche maledice le donne dedite al peccato e di nascosto corrompe le fedeli, Letta, la donna votata più ad una gravidanza perpetua che alla maternità, in una sorta di inversione della figura cattolica dell’Immacolata, che sposerà, guarda caso, proprio il sagrestano, sono solo alcuni esempi).
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
La grande “ruota della vita” nel microcosmo matrilineare
La maternità come fatto privato, esperienza individuale, momento di intimità della donna con il proprio corpo, dunque fuori dalla concezione borghese della famiglia e, tuttavia, foriera di una nuova idea di famiglia in quanto comunità allargata a un’ideale e armoniosa collettività. Questo il dato essenziale che emerge da L’albero di Antonia che, del resto, combacia alla perfezione con l’assunto unilaterale che sottende la storia narrata: una visione della sessualità e della maternità come momenti assolutamente fini a se stessi, privati da quei significati simbolici (ma anche pratici) dei quali questi due momenti sono stati tradizionalmente investiti dalla società, dalla religione, dalla cultura. Spogliata di quella necessità sociale che di solito le si attribuisce, la maternità torna ad essere da un lato un atto naturale, istintivo, dunque slegato da qualsiasi implicazione ulteriore (non è un caso che Antonia e gli altri siano degli agricoltori, legati dunque alla “madre terra”, e continuino ad esserlo per tutto il film, malgrado le nuove generazioni evolvano verso uno status sociale diverso), dall’altro diviene per la donna momento di consapevolezza, di presa di coscienza del proprio corpo, parallelamente a una rivelazione del sesso come momento di gioiosa scoperta di se stessa e dell’altro. L’impressione, tuttavia, è che questa nuova concezione della vita tutta al femminile sia possibile solo all’interno di un sistema chiuso come quello della comunità che si forma attorno ad Antonia e che porti ad una sorta di immobile contemplazione del tempo che scorre in un eterno ritorno. Le generazioni passano, le capacità di figlie, nipoti e pronipoti sono sempre più strabilianti (Antonia è una semplice contadina, la figlia un’artista, la nipote qualcosa a metà strada tra la scienziata e la compositrice, la pronipote chissà) ma da questo nido nel quale regna assoluta la libertà, nessuno sente il bisogno di partire e, meno che mai, di ribellarsi o fuggire. Alla visione dinamica, lineare del tempo propria di quella che, ormai, potremmo definire “cultura maschile”, se ne sostituisce una ciclica che chiarisce le continue allusioni al tempo che scorre immutato, all’amore e alla vita che trionfano su tutto. La società matrilineare cui dà vita Antonia, mancando totalmente dell’elemento maschile (o, per lo meno, di un elemento maschile davvero autonomo) sembra impedire e reprimere nei propri membri più giovani lo sviluppo di quella componente della personalità (che potremmo definire edipica o appartenente alla sfera del Super-Io) che spinge ciascuno a differenziarsi, in un modo o nell’altro, più o meno violentemente, da coloro che lo hanno allevato, ad affermare se stesso in quanto individuo autonomo rispetto alla comunità nella quale vive, una caratteristica, questa, che paradossalmente ha animato proprio la scelta della sua capostipite, Antonia. La frase “niente muore per sempre, rimane sempre qualcosa da cui nascerà qualcosa di nuovo” è una limpida e coerente dichiarazione di poetica che, tuttavia, ha la capacità paradossale di privare il film di qualsiasi sussulto di vitalità, di prosciugarlo da ogni energia e che fa rimpiangere l’unico tra i personaggi davvero originale, ovvero Dito Storto, il filosofo pessimista seguace di Shopenhauer che, al contrario delle donne che lo circondano, tenta di interrompere l’autosufficienza del ciclo vita-morte con la scelta lucidamente consapevole del suicidio. Fabrizio Colamartino