di Agnès Varda
(Francia, 1991)
Sinossi
Il film vuole essere la ricostruzione biografica dell’infanzia e dell’adolescenza di Jacques Demy, marito dell’autrice del film, Agnes Varda, nonché regista a sua volta. Alle sequenze ricostruite di Demy bambino si alternano le immagini di Demy da vecchio, poco prima che morisse, e spezzoni dei suoi film, scelti perché si rifanno direttamente a episodi avvenuti nella sua infanzia. La vita di Jacques, rappresentata dal 1938 al 1947, è senz’altro felice e piena di avvenimenti. Egli è figlio di gestore di un garage/officina e di una pettinatrice a tempo perso, e ha un fratello minore. La passione per il cinematografo è pressoché istantanea nel piccolo Jacquot. Ama andare agli spettacoli di burattini da ragazzino, e a teatro o al cinema da adolescente. Ma non si accontenta di guardare gli spettacoli, vuole egli stesso creare delle piccole storie. Prima costruisce un teatrino di burattini per i più piccoli, poi disegna un rudimentale cartone animato su una pellicola trovata in una discarica, poi baratta i suoi giochi per comprare una piccola videocamera con cui gira sia film di finzione, sia cartoni animati costruendo le scenografie e movendo fotogramma per fotogramma i personaggi in cartone. Nel frattempo la sua vita procede come quella dei suoi coetanei: va a scuola, gioca e chiacchiera con gli amici, va al cinema con la famiglia, scappa, come tutti, all’arrivo dei tedeschi che occupano Nantes. Nonostante il padre voglia farlo diventare un meccanico, Jacques fa di tutto per coltivare la sua passione. Grazie all’arrivo in città di un regista cinematografico, cui farà vedere un suo filmino, e all’entusiastica reazione di quest’ultimo, il padre si convincerà a mandarlo alla scuola sperimentale di cinema di Parigi. Per Jacques è un sogno che si realizza.
Presentazione Critica
E’ particolarmente complesso parlare di questo film. Sono, infatti, per lo più gli aspetti personali e intimi del rapporto tra Agnes Varda e il marito Jacques Demy a costituire l’ossatura della pellicola: Garage Demy è infatti una specie di album di famiglia. Agnes Varda tributa un elogio incondizionato e pieno d’amore per il marito in fin di vita. Gli dedica delle lunghe carrellate sulle braccia e sul viso, come fossero delle carezze, gli fa raccontare i momenti più sereni dell’infanzia e poi li ricostruisce in studio per rendere il ricordo di questi episodi indelebile ed eterno anche dopo la morte di Demy, che avviene prima che il film approdi nelle sale. Ci troviamo innanzi a una pellicola diversa da qualsiasi film autobiografico e nostalgico (vedi ad es. Amarcord, Nuovo cinema Paradiso, Anni ’40, ecc.) perché, innanzi tutto, è un atto d’amore per un’altra persona, non un tentativo di raccontare se stessi. E’ difficile anche riassumere l’intreccio del film, perché in realtà, pur seguendo un rigoroso filo cronologico, Garage Demy non ha un vero e proprio sviluppo narrativo. Si alternano alle scene ricostruite dell’adolescenza del regista, spezzoni dei suoi film, e poi ancora descrizioni di piccole scene di vita quotidiana di Demy anziano (nell’atto di scrivere, di raccontare una storia al nipote, di passeggiare su una spiaggia). In più, l'avvicendarsi continuo di bianco e nero (nelle scene da piccolo) e colore (nelle soggettive di Jacques; nelle riprese di spettacoli, siano essi burattini, locandine, scenografie di cartone e così via; o ancora nelle citazioni dei film di Demy; nei suoi primi piani da vecchio) danno allo spettatore la sensazione, ancor più forte, di sfogliare un album fotografico, intimo, nostalgico, appassionato, dove il criterio del racconto è la tenerezza, il pudore, il sentimento allo stato puro. Le immagini che scorrono davanti a noi sono soggetti ad una triplicazione del loro valore: ogni inquadratura non solo vale per se stessa, come in un qualsiasi film, non solo vale come richiamo del reale, come in una qualsiasi ‘storia vera’ rappresentata sullo schermo, ma rinvia ad una realtà terza, che è quella dei film del regista Demy. La continua alterazione del colore rende ancora più indissociabili passato e presente, sguardo di Demy, sguardo di Varda e sguardo dello spettatore. "Filmavo le forze vive del bambino che era stato e vedevo l'adulto che perdeva le sue forze". Da queste dichiarazioni di Agnes Varda si può evincere forse l’unico motivo non strettamente personale del film: la vicinanza tra infanzia e vecchiaia. Garage Demy, probabilmente meglio di qualsiasi film che intende sviluppare un discorso universale, ci fa vedere in concreto quale legame indissolubile ci sia tra le diverse età dell’uomo, ancora maggiore se esse sono agli estremi del percorso umano, come la vecchiaia e l’infanzia. Non a caso Demy è rappresentato /ripreso solo da giovane o da anziano – la sua vita da adulto ci è preclusa – e non possiamo non notare una forte similitudine tra le due età: la passione per la pittura (attività cui Jacquot si dedicava prima di fare cinema e dopo aver abbandonato il mestiere di regista), la sua inevitabile solitudine (solo nella spiaggia da vecchio così come era solo nella soffitta dove girava i suoi primi film), l’amore altruistico per la narrazione (da giovane costruisce il teatrino delle marionette per divertire i bambini, gira i cortometraggi per poter deliziare la famiglia; da anziano racconta i suoi ricordi d’infanzia al nipotino oppure allo spettatore stesso), la priorità per la dimensione personale che mette in secondo piano, quasi cancellandoli, gli eventi storici che avvengono intorno al protagonista. Inoltre, l’indissolubile relazione tra le due età passa attraverso la cancellazione dell’immedesimazione in un volto. In altre parole Agnes Varda racconta la vita di suo marito non attraverso l’identificazione con un solo attore – come solitamente avviene nelle biografie cinematografiche – ma ad ogni piccolo passaggio di età cambia l’interprete, a sottolineare la presenza di un unico spirito da rappresentare. I cinque Jacques (i tre ragazzini, l’adulto che vediamo attraverso i suoi film e il vecchio Demy) si fondono in un’unica persona non attraverso la corporalità (i ragazzini sono abbastanza diversi tra loro), ma attraverso un ‘soffio vitale’, quello per l’arte e per il cinema, che è poi l’elemento che la regista vuole rendere eterno. Garage Demy rappresenta un caso quanto mai raro nel panorama cinematografico. La Varda, consapevolmente, indietreggia e riesce a cancellare la propria autorialità assumendo il ruolo, paradossale, di semplice ‘tecnico’. Paradossale perché solo in pochi altri film il ruolo dello stile cinematografico (movimenti di macchina, uso del colore, dialettica tra scene ricostruite e spezzoni dei film di Demy) è così preminente. Ma un atto d’amore permette anche questo: essere un artista e, insieme, cancellare l’artista che è in sé. Marco Dalla Gassa