di Francesca Archibugi
(Italia,1993)
Sinossi
Valentina, detta Pippi, ha dodici anni e soffre di epilessia fin dalla nascita. In seguito a una grave crisi, viene ricoverata al Policlinico di Roma nel reparto di neuropsichiatria infantile diretto da Arturo, un giovane medico che tenta di curare i disturbi dei suoi piccoli pazienti con metodi non convenzionali. Nonostante un avvio difficile, dovuto alla diffidenza di Pippi nei confronti della psicoterapia, nonché alle difficoltà oggettive causate dallo stato di semiabbandono del reparto (personale paramedico insufficiente, strutture fatiscenti, scetticismo dei colleghi), Arturo sembra riuscire a vincere le resistenze della ragazzina e a fare luce sulle reali cause di quella che non è una malattia endogena bensì una non meno grave somatizzazione di uno stato di profondo disagio psicologico, causato dal conflitto esistente tra i genitori della piccola. Deluso dalla vita e da tempo incapace di intrattenere normali relazioni sociali, anche Arturo riacquista progressivamente fiducia in se stesso e negli altri proprio grazie allo speciale rapporto che è riuscito a instaurare con Pippi.
Introduzione al Film
Per delineare il personaggio di Arturo, Francesca Archibugi si è ispirata alla vita e agli scritti di Marco Lombardo Radice, neuropsichiatra infantile scomparso prematuramente nel 1989, sperimentatore di terapie innovative nella cura dei disagi psicologici dei minori. La storia emblematica di Pippi serve a mettere in evidenza quanto possa essere complesso per un medico scoprire le cause di un disagio che bambini e adolescenti spesso non riescono a esprimere compiutamente, proprio perché frutto di dinamiche familiari delle quali essi non sono responsabili e al cui interno fungono soltanto da parafulmini. Ritornando proprio sui luoghi dove operò quotidianamente Lombardo Radice – un reparto distaccato del Policlinico di Roma, nel popolare quartiere di San Lorenzo – la Archibugi, ex studentessa di psicologia, ricostruisce con grande sensibilità le strategie e i percorsi terapeutici fuori dagli schemi messi a punto dal giovane neuropsichiatra, basati soprattutto sul paziente ascolto delle necessità dei bambini e sulla compensazione delle loro carenze affettive. Procedure, queste, all’epoca rivoluzionarie, non più fondate sull’esclusivo impiego delle terapie farmacologiche (che, significativamente, una collega di Arturo definisce “mattonate in testa”), né sulla coercizione mascherata da bonario paternalismo. A tal proposito sono esemplari sia la scena della “fuga” dal reparto dei ragazzi qui ricoverati – che Arturo pare assecondare cogliendo così l’occasione di sperimentare con loro dei brevi attimi di libertà, fuori dall’ambiente ossessivo dell’ospedale – sia il suo “reggere il gioco” alla piccola Pippi di fronte agli altri quando la bambina inventa di sana pianta fatti in realtà mai accaduti. Un atteggiamento solo apparentemente passivo che, invece, tende a seguire i desideri del paziente, e che serve non solo (e non tanto) a conquistare la sua fiducia ma anche e soprattutto a fargli acquistare fiducia in se stesso, a fargli credere che al di là del dolore di vivere ci sia la speranza di riuscire a trovare “almeno un motivo per alzarsi domattina”. Dall’esperienza di Arturo, nessuna delle istituzioni fondamentali della nostra società riesce a salvarsi: neanche la famiglia esce indenne da una visione laica e pragmatica che ammette solo i bambini e il loro dolore come valori degni di rispetto e di precedenza su tutto il resto (dal caso di Pippi, in particolare, emerge come sia preferibile un buon divorzio a un cattivo matrimonio). Nel cast, composto da una serie di figure – essenzialmente bambini e ragazzi – descritte con dolcezza dalla regista nei loro tratti essenziali (e forse proprio per questo ancor più credibili) spiccano, con due interpretazioni davvero toccanti: Laura Betti nel ruolo dell’anziana e isterica caposala del reparto e Victor Cavallo in quello di Don Annibale, un prete “laico” che di fronte alla morte incomprensibile di una piccola cerebrolesa ricoverata nel reparto chiede a Dio, durante l’orazione funebre, il perché di una così assurda ingiustizia.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Il disagio mentale e in taluni casi la malattia psichica nei più giovani spesso hanno origine proprio all’interno dell’universo familiare, proprio in quella che, ancor oggi troppo spesso, si dà per scontato essere la dimensione dove bambini e adolescenti dovrebbero trovare automaticamente riparo da tutte le minacce del mondo esterno. Se infatti la visione della famiglia in quanto rifugio sicuro è di certo vera per ciò che riguarda gli aspetti più concreti del vivere quotidiano, molto meno lo è per quelle componenti dell’esistenza psico-affettiva del minore. Da ciò a dire che all’origine del disagio psicologico ci sia in ogni caso la famiglia il passo è lungo: tuttavia ciò che Il grande cocomero così come alcuni altri film sembrano suggerire è che la famiglia, proprio in quanto tale, deve essere sempre pronta a mettersi in discussione di fronte all’emergere del disagio di uno dei suoi componenti, specie nel caso in cui si tratti del più giovane di essi. Tale capacità di rielaborare criticamente il proprio ruolo e le proprie funzioni da parte degli adulti nel film emerge proprio attraverso la figura di Arturo, in particolare nel mutare del suo rapporto con Pippi nel corso del tempo. Se in un primo momento la relazione tra il medico e la giovane paziente è quella tradizionale, dai ruoli definiti e stabili, affidati alla consuetudine della pratica clinica, con l’evolversi della storia narrata, esso muta notevolmente, fino quasi a un capovolgimento dei ruoli. L’interpretazione intensa che Sergio Castellitto ha dato del tormentato personaggio di Arturo è quanto mai funzionale ad illustrare proprio l’atteggiamento di colui che è disposto in ogni momento a rimettersi in gioco, specie di fronte a chi come i bambini pretende, a ragione, un grado di sincerità e autenticità che nessuno stereotipo professionale può minimamente soddisfare. Qui la metafora del titolo, tratto dalle celebri strisce a fumetti di Charles M. Schulz, trova la sua spiegazione. Il “Grande cocomero”, che i piccoli protagonisti dei comics attendono invano per la festa di Ognissanti e al quale, tuttavia, continuano a confidare i propri desideri, è il simbolo dei sogni che animano la speranza e l’entusiasmo tipici dei bambini ma anche di quella visione utopica che deve permeare l’atteggiamento degli adulti, specie di coloro che lavorano a stretto contatto con chi soffre, di quella sincerità d’animo che i genitori di Pippi non hanno avuto e che, forse, proprio prendendo esempio da Arturo riusciranno ad avere in futuro.
Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici
Sono molti i film nei quali la famiglia viene analizzata in quanto microcosmo al cui interno si sviluppano una serie di dinamiche negative le cui conseguenze ricadono pesantemente sulla vita psico-affettiva dei figli. Esempi diversissimi – eppure entrambi ugualmente pregnanti – sono Diario di una schizofrenica di Nelo Risi (Italia, 1968), nel quale la protagonista è un’adolescente figlia di una ricchissima famiglia svizzera e Family Life di Ken Loach (Gran Bretagna, 1971), ambientato tra la piccola borghesia inglese.
(FC)