di Jean Pierre e Luc Dardenne
(Francia, 1996)
Sinossi
Liegi. Igor, quattordicenne apprendista meccanico, partecipa alle attività illegali del padre Roger. Quest’ultimo organizza traffici di immigrati clandestini, sfrutta la loro manodopera in cambio di permessi di soggiorno, affitta minuscole stanze, in fatiscenti edifici, a prezzi da usuraio. Durante un sopralluogo dell’ispettorato del lavoro, un uomo del Burkina Faso, per fuggire alla cattura, cade da un’impalcatura e rimane ferito. A niente valgono i tentativi di aiuto portati da Igor. Egli prova a bloccare l’emorragia, ma il padre si rifiuta di portarlo in ospedale e preferisce lasciarlo morire. Il nero, poco prima di spirare, fa giurare al ragazzo di prendersi cura della moglie, Assita, e del figlio appena nato. Igor, costretto al silenzio e alla connivenza dal padre, prova ad aiutare la moglie dell’immigrato. Paga i debiti di gioco del marito morto, cerca di starle vicino, ma la donna vuole sapere a tutti i costi dov’è il suo uomo. Igor cerca di dissuaderla, ma quando Roger decide di portarla, con l’inganno, in Germania, il ragazzino la rapisce per evitarle una fine peggiore. I due iniziano così a vagare per Liegi, l’una nella speranza di trovare il marito scomparso, l’altro nell’incertezza se proteggere suo padre o dire la verità alla donna. I due ricorrono prima alla polizia e poi a un indovino. Il veggente consiglia però ad Assita di andare da alcuni parenti per assistere il bambino, da poco ammalato. Poco prima di prendere il treno, Igor decide di raccontare la verità alla donna. Appresa la notizia, Assita torna sui suoi passi, seguita a pochi metri dal ragazzo.
Analisi
Inquadrature ravvicinate sui personaggi, macchina da presa perennemente in movimento nel tentativo, spesso vano, di pedinare gli “eroi” del film, ritmo concitato come concitata è la vita di chi sta sempre sul filo del rasoio (immigrati clandestini o sfruttatori che siano), lunghi piani sequenza e lunghe carrellate sui personaggi, avvicendate da un montaggio impulsivo e spesso affannato nella scelta di quale porzione di realtà mettere all’interno dell’inquadratura e quale lasciare fuori, essenzialità di stile visivo, identità di sguardi tra cinepresa e personaggio. Queste sono alcune delle procedure formali adottate in La promesse dai fratelli Dardenne, al loro esordio nella fiction cinematografica (dopo una lunga esperienza in campo documentaristico), utilizzate per percorrere quel cammino che porta lo spettatore, in modo graduale, dalla rappresentazione di una realtà alla realtà stessa – tanto che l’ultima immagine del film, che riprende Assita e Igor camminare a cento metri dalla mdp, non mostra più due personaggi del film, ma semplicemente due persone tra le tante presenti in una stazione – e per favorire e poi per spezzare nel finale la progressiva identificazione tra il pubblico e il giovane protagonista. Assieme al percorso di avvicinamento al reale, i registi percorrono tuttavia, attraverso altre scelte stilistiche, il tragitto opposto: l’assenza totale di musica extra-diegetica (e come tale nessun commento registico, nessun veicolo emotivo), in taluni casi l’opposizione di sguardi tra la mdp e il protagonista (quando Igor guarda fuori campo, mentre la cinepresa non si muove dal suo volto), l’autonomia di movimento della camera rispetto al destino del protagonista (tanto che spesso il procedere narrativo abbandona Igor per seguire le vicende del padre o della donna africana), evitano un eccessivo coinvolgimento degli autori e danno alla storia un’algidità struggente, ancora più carica di significati. Su questo sottile equilibrio, dato dalla partecipazione emozionale della macchina da presa e dal freddo distacco della narrazione, si gioca tutto il film, e grazie a tale contraddizione si esasperano, rendendoli autentici e insopportabili, i contrasti emotivi che vive il giovane Igor. Su di lui agiscono forze opposte che dilaniano il suo spirito: nascondere un reato (egli è per legge colpevole in quando complice), o espiare il peccato commesso; salvaguardare l’autorità paterna, unico punto di riferimento, o mantenere fede ad una promessa; accettare uno status per certi versi agiato e vantaggioso (egli ha in tasca sempre molti soldi), ma vissuto sul filo dell’illegalità, oppure scappare verso un universo ignoto; seguire la tentazione alla menzogna o lasciarsi guidare dalla spinta verso la verità. Se queste sono le forze che agiscono sul ragazzo rendendolo pressoché immobile agli eventi, l’impulso che gli dà il coraggio dell’azione – egli fino al rapimento è incapace di qualsiasi gesto autonomo – è rappresentato dalla maternità mancata. Assita è per Igor la figura materna assente. Il rapporto che si crea, scena dopo scena, tra Igor, Roger e Assita non è però, come a prima vista potrebbe sembrare, una rilettura del secolare complesso edipico (Igor ad es. incatena il padre per scappare con la donna, un padre che viene chiamato di solito Roger e non papà). Manca un approccio sessuale tra Igor e Assita (confermato dal fatto che Igor tenta in tutti i modi di salvare il marito della donna), così come manca l’eliminazione fisica del capo famiglia (Roger non muore, per di più non viene colpito in testa dal figlio ma dalla giovane nera). La promesse è invece un film sulla necessità dei ruoli genitoriali. Igor va contro il padre solo quando si vede portar via la donna, prende il furgone e scappa quando Roger la vuole espatriare oltre confine, lo lega al gancio dell’innalzatore quando cerca di frapporsi tra la donna e la sua ricerca della verità, è disposto ad abbandonarlo solo per stare con il “succedaneo” materno, non certo con gli amici (come molte scene confermano). Tale necessità si evince, infine, dall’epilogo del film. Igor trova il coraggio di dire la verità ad Assita solo quando rischia di perderla per sempre. La segue silenzioso, nell’attesa di un suo cenno, risoluto a non abbandonarla più, come farebbe un cucciolo d’animale appena nato, dietro alla madre appena conosciuta. Marco Dalla Gassa