di Jean Vigo (Francia, 1933)
Sinossi
Caolin, Caussat, Tabard, Bruel sono i più rivoltosi tra i ragazzi che vivono e studiano in un riformatorio parigino. Le giornate nel correzionale passano tra giochi, scherzi, preparazione di piani di evasione, ribellione contro gli istitutori, gite fuori porta tra le strade della città. Le nottate trascorrono nella confusione più totale, a malapena arginate dal censore che dorme nella camerata dei ragazzi. Il direttore e gli istitutori provano a subordinare i ragazzi, minacciando punizioni e zero in condotta, ma il tentativo è vano. L’unico tra gli insegnanti a difendere gli alunni è il giovane Huguet, comico, divertente e protettivo. La vita nel collegio è insostenibile, tanto che i quattro decidono di compiere una rivolta. Nella notte prenderanno possesso della camerata, legando al letto il censore, lanciando cuscini e piume in aria, nella mattinata successiva, proprio nel giorno di celebrazione della scuola alla presenza delle massime autorità statali (direttore, prefetto, forze dell’ordine) saliranno sul tetto del correzionale e, gettando ogni tipo di oggetto dall’alto, costringeranno gli adulti a ripararsi dentro il riformatorio.
Presentazione Critica
La storia della rappresentazione dell’infanzia e dell’adolescenza al cinema inizia nel 1933 quando Vigo firma Zero in condotta. É vero che prima di questa data molti erano stati gli esempi di tale raffigurazione (si pensi ai film d’avventura di Jacques Feyder o a Il monello di Chaplin), ma mai prima di allora c’era stata una chiara consapevolezza delle possibilità corrosive incarnate dall’infanzia, del simbolismo inevitabile nei suoi gesti, dell’universalità dei temi da essa proposti. Zero in condotta non è la storia di quattro ragazzini qualsiasi, è la descrizione, realistica nel suo essere deformante e surreale, della condizione di un’età, è la preponderante messa in discussione della società e delle sue cariche istituzionali, la cui risposta si materializzerà, non a caso, in una messa al bando censoria della pellicola che durerà fino al 1945. Il film parte da un’esperienza autobiografica. Jean Vigo, figlio dell’anarchico Miguel Almereyda, assassinato in carcere nel 1917 in circostanze oscure, rimane orfano a soli 12 anni, costretto a passare l’adolescenza in riformatorio. La sofferenza e lo sguardo ribelle del regista nascono proprio dagli stenti patiti in quegli anni, sofferenza che porterà Vigo a morire prematuramente a 29 anni per malattia solo con un altro lungometraggio alle spalle (L’atalante), ribellione che lo condurrà ad aderire all’ambiente anarchico-comunista francese in campo politico e a quello surrealista in ambito cinematografico. Tuttavia il carattere autobiografico del racconto è solo un pretesto per avanzare un personale inno alla rivolta nel quale l’infanzia, oltre ad essere età della nostalgia, quella più libera, più sincera, più indipendente, è detentrice di un messaggio politico, è metafora della lotta rivoluzionaria, è portatrice dello spirito anarchico. La dimensione sovversiva si frappone così al carattere conservatore, autoritario, reazionario degli adulti i quali sono tratteggiati non nelle loro fattezze di uomini, ma nelle loro maschere istituzionali, nelle loro divise, nei loro rigidi ruoli. Lo sguardo di Vigo non può che essere sarcastico, tagliente, velenoso, verso un cosmo che ha perso ogni caratteristica d’umanità. Il preside nano con la voce da bambino è la raffigurazione più grottesca di questo mondo, ma nessuna carica istituzionale è risparmiata, dalle sottane del parroco, scambiato per una donna dalla scolaresca in giro per le strade della città, alle forze dell’ordine intente, dall’insegnante pedofilo al prefetto. La dimensione inumana raggiunta dall’universo adulto è ancora più amaramente sbeffeggiata dalla presenza, riscontrabile in una lunga carrellata che ritrae il palco delle cariche pubbliche presenti alla festa della scuola, di alcune sagome di cartone mischiate alle autorità, a sottolineare la perdita di corporalità degli uomini, ormai trasformati dalla società contemporanea in piatte maschere a-personali. Contrapposta all’inettitudine dei ‘grandi’, giunge l’incontrollato e autentico spirito anticonformista dei ragazzi e in parte dell’istitutore Huguet, l’unico ad avere ancora movenze vicine a quelle dei minori. La prima sequenza ambientata nel vagone del treno dimostra tale vicinanza: mentre i due ragazzi fanno giochi di chiara simbologia libertaria (il lancio in aria della pallina, l’irriverente imitazione di un uccello, il gioco del dito che si separa dalla mano), il professore simula la propria morte indicando al pubblico che la sua figura non sarà quella di un istitutore (ucciso allegoricamente dai ragazzi), ma quello del pari tra i pari. Le sequenze dedicate ai fanciulli ritraggono tale universo in atteggiamento ribelle, spinto da un’anima sovversiva e incondizionabile: essi insorgono gettando in aria i cuscini e con essi le piume, in una delle scene più visionarie di tutta la storia del cinema; scoprono i compagni mentre sono chiusi in bagno; legano al letto il censore mentre riposa. Anche quando dormono sono sempre in movimento, allusione chiara del sonnambulismo di uno di loro. La differenza tra mondo adulto e adolescenziale è veicolato così da due serie di contrapposizioni che percorrono il film. La prima è quella tra comportamenti formali e informali (si veda la scena della mensa o quella della sveglia), la seconda è tra luoghi esterni e interni. In quest’ultimo caso, è innegabile che l’ideale di libertà si associ alla presenza di uno spazio all’aperto: i ragazzi, infatti, esprimono la loro maggiore capacità di ribellione quando sono fuori dagli edifici scolastici (la gita fuori porta con l’insegnate, l’insurrezione dai tetti della scuola). Il finale, nel quale gli adulti sono costretti a rintanarsi al chiuso, sancisce dunque la conquista, seppur effimera, dell’emancipazione dagli stereotipi della società, e soprattutto la conquista di uno spazio autentico di vita. Marco Dalla Gassa