di Vittorio de Sica
(Italia, 1948)
Sinossi
Roma. Quartiere popolare. Un gruppo di disoccupati si accalca vicino ad un ufficio di collocamento. Tra i tanti, il lavoro da attacchino municipale finisce nelle mani di Antonio Ricci, il quale garantisce di avere una bicicletta, mezzo necessario per ottenere quel lavoro. Egli in realtà ha la bicicletta in pegno al monte di pietà. Per riscattarla, Antonio e la moglie Maria ipotecano tutte le lenzuola di casa. La coppia è finalmente felice. Maria va da una santona a lasciare un obolo perché la veggente aveva predetto il lavoro di Antonio. La mattina seguente Antonio, dopo aver accompagnato il figlioletto Bruno al lavoro – fa l’aiutante di un benzinaio – è pronto a lavorare con la sua nuova divisa. Ma non passa neanche mezza giornata che un uomo, con alcuni complici, ruba la bicicletta di Antonio e scappa. Per Antonio è un duro colpo, essendo la bici il lasciapassare per il lavoro. Va alla polizia a denunciare il furto, ma ottiene poca considerazione. Sconsolato decide, grazie all’aiuto di un amico, di andare il giorno seguente (domenica) a cercare la bici in Piazza Vittorio, luogo di ricettazione delle bici. Il giorno seguente Antonio, insieme a Bruno e all’amico, va alla ricerca della bici. La ricerca è infruttuosa. Ma quando, dopo un acquazzone, Antonio scorge il ladro vicino a Porta Portese, lo insegue invano. Identificato il vecchio con cui stava parlando il ladro prima che si dileguasse, Antonio inizia un battibecco con l’anziano signore, che sfugge via. Antonio, per sfogare la rabbia che ha, dà uno schiaffo senza motivo a Bruno che se ne va. Pentito, dopo che per un attimo ha pensato che fosse finito in Tevere, Antonio ritorna da Bruno e per guadagnarsi la sua stima lo porta a mangiare in una trattoria. Ripresa la ricerca, Antonio, disperato, prova un ultimo gesto, quello di andare dalla Santona. Ma il pronunciamento della donna è poco chiaro. All’uscita i due si imbattono nel ladro, e dopo una tentata fuga lo fermano. Bruno chiama un carabiniere, ma costui non può arrestare l’uomo perché non ha la refurtiva in casa. I vicini di casa del ladro, scesi in strada per difenderlo, dileggiano Antonio che se ne va via sconsolato. Nella sua peregrinazione disperata, Antonio passa vicino allo stadio, dove è in corso una partita. Allontanato con una scusa Bruno, l’uomo tenta di rubare una bicicletta incustodita. Ma il suo tentativo fallisce. La folla, all’uscita dello stadio, lo ferma e gli si getta addosso, picchiandolo. Solo l'intervento del bambino in lacrime convince il padrone della bici a non denunciarlo. A quel punto, a Bruno e ad Antonio non resta che un avvilito e umiliante ritorno a casa.
Un abile e labile pretesto narrativo (il furto di una bici e la sua ricerca da parte del ‘proprietario’) fa da cornice ad uno dei film che maggiormente ha saputo descrivere con autenticità l’intera società italiana, da poco uscita da vent’anni di dittatura, dalla Seconda guerra mondiale, dalle fatiche della Resistenza e intenta a muovere i suoi primi passi verso la creazione di uno stato democratico. Una descrizione, si badi bene, che non coinvolgeva solo la classe dei (sotto)proletari, simboleggiata dalla storia della famiglia Ricci, ma anche molti altri strati della società, attraverso episodi appena tratteggiati, ma capaci di evidenziare una o più caratteristiche peculiari delle categorie sociali in questione: il clima di fervente impegno politico (nella scena ambientata nella sezione del partito comunista) e la creazione di una nuova classe politica che però, letta con il senno di poi, già si allontanava dalla effettiva rappresentanza del popolo (l’amico comunista, Baiocco, non sarà in grado di aiutare Antonio); l’ottusità o meglio il disinteresse delle forze dell’ordine verso i problemi delle classi più povere (in una battuta paradigmatica tra poliziotti sta il senso della loro attenzione per i cittadini: “Qual è il problema?” chiede un agente. “Solo una bicicletta” risponde il collega, o ancora nella breve inquadratura della camionetta della celere pronta ad andare a ‘vigilare/picchiare’ il corteo degli operai); l’ipocrita e falsa carità della Chiesa, ben evidenziata dall’episodio della mensa per i poveri, cui si ha accesso solo dopo aver assistito alla messa, o dall’incontro con alcuni giovani seminaristi che conversano tra loro, siamo nel 1948, ancora in tedesco, segno indiscutibile dell’avversione di De Sica verso l’istituzione che rappresentano; la pochezza e la strafottenza della borghesia rappresentata dal ragazzino che mangia la mozzarella in carrozza nel ristorante dove si rifugiano Bruno e Antonio. Lo sguardo rivolto alla società – ci sono frequenti richiami anche ai costumi dell’Italia post-bellica come il ricorso ai santoni, la passione per lo sport rappresentata dalla gara in bici o dalla partita di calcio, quella per il cinematografo, evidente nel manifesto che incolla Antonio al muro poco prima che gli rubino la bici, nel quale è impressa la foto di Rita Hayworth – è senz’altro schierato dalla parte dei più poveri, ma è fuor di dubbio che è più che mai riuscita la rappresentazione di un’Italia divisa in due (si pensi al referendum per la democrazia o la repubblica, alle successive elezioni con lo scontro tra Dc e Pci, o anche solo all’antagonismo tra Coppi e Bartali), che l’entusiasmo post-bellico non ha aiutato ad avvicinare, come non esita a sottolineare, tra le righe, la mano del regista. La tesi implicita del film, indiretta ma quanto mai evidente, è che per sopravvivere i poveri devono derubarsi tra loro. Ma la rappresentazione del sottoproletariato è molto più complessa di quanto la tesi sopra esposta o la lettura della sinossi del film farebbero pensare. Le dinamiche che agiscono all’interno della famiglia, per esempio, coinvolgono elementi estranei al pretesto narrativo, ma che a ben vedere sono ancora più calzanti della tesi stessa nel rappresentare il disagio in cui versano i sottoproletari. Antonio, innanzi tutto, è figura in crisi, incapace di badare a se stesso, alla famiglia e di agire di fronte al reale. Quasi all’opposto di Accattone (altra celebre figura di sottoproletario descritta nell’omonimo film di Pasolini), l’uomo non può essere considerato una figura patriarcale, perché incapace di mantenere un lavoro, di educare , di ritrovare la bicicletta (si lascia sfuggire il vecchio, si fa prendere dallo sconforto, lascia andare via il ladro senza poter far niente), di rubarne un’altra. Egli è senza dignità e la consapevolezza di ciò lo fa vergognare di fronte al figlio che allontana prima del tentativo di furto. E’ evidente che la figura di Antonio, anche se la ricerca avesse avuto fortuna, non ne sarebbe uscita meglio. A colmare le lacune dell’uomo ci sono la moglie e soprattutto il figlio Bruno. Il ragazzino non è solo un figlio, egli è il suo alter ego (sono vestiti con la stessa tuta da lavoro), è suo padre (quando lo sgrida per aver perso la bici), è il suo sostituto in famiglia (chiude la finestra per non far prendere freddo alla bambina, pulisce la sua bicicletta), è il suo salvatore (per ben due volte, in occasione dell'incontro con il ladro e del suo fallito furto, riesce a salvarlo dal linciaggio della folla), è la sua coscienza (quando gli dice che non avrebbe dovuto lasciar scappare il complice del ladro, ricevendo in premio uno schiaffo), è colui che manda avanti la casa essendo l'unico ad avere un lavoro. Bruno è anche lo sguardo vivo sull'Italia, è la speranza dell’ascesa sociale (si pensi alla scenetta in trattoria con il bambino borghese), ma è anche il rischio della sconfitta di un’intera generazione (simboleggiata dalla scena del falso annegamento), se non si inizia a educarla. Il ragazzino è dunque il simbolo di una generazione costretta ad essere grande prima del tempo per le mancanze degli adulti. E’ dunque evidente che Bruno sia soprattutto lo specchio che ingrandisce la figura fallimentare del padre e moltiplica l’effetto di denuncia del film. Se non ci fosse stata la presenza di Bruno a salvare l’uomo, l’atto finale disperato di Antonio sarebbe potuto essere paragonato a quello analogo di Accattone nel film sopra citato. Nella pellicola di Pasolini il sottoproletario ruba una moto per scappare dai poliziotti e muore in un incidente. La sua fine è però felice, perché quello è l’unico approdo liberatorio che gli è permesso. L’accorrere di Bruno, all’opposto, costringe Antonio a rispondere del suo gesto, e toglie l’uomo qualsiasi possibilità di fuga. Il suo destino è incatenato nella silenziosa e desolata camminata che lo ricondurrà a casa.
Analisi narrativa e stilistica
Ladri di Biciclette può essere senz’altro considerato uno dei più alti risultati del neorealismo italiano. Il clima di ritrovata libertà che caratterizzò il secondo dopoguerra italiano spinse, infatti, alcuni importanti registi verso una nuova età cinematografica caratterizzata dalla sperimentazione di un linguaggio innovativo, una nuova attenzione al reale, un chiaro desiderio di esprimersi, desiderio quasi del tutto represso nei precedenti anni di dittatura e di guerra. Per una breve stagione, una sorta di tacita unità di intenti spinse i vari Rossellini, De Sica, Visconti ad avvicinare, almeno in parte, i loro percorsi poetici producendo opere omogenee tra loro che vennero ben presto etichettate sotto il nome di neorealismo. Opere dove si rinunciava quasi esclusivamente agli attori professionisti (unica grande eccezione Roma città aperta di Rossellini), alle ricostruzioni in studio per scendere con le cineprese per le strade, a qualsiasi tipo di artificio stilistico, dove si rappresentavano, direi per la prima volta in modo autentico, i drammi della povera gente (con un’attenzione particolare per i bambini), dove assoluta importanza aveva l’autore il quale era guidato da uno spirito ideologico senza precedenti. Come divenne chiaro solo in seguito, più che una scuola, il neorealismo fu un movimento nato dal verificarsi di una serie di fattori assolutamente unici in campo produttivo (nel ’44 non esisteva più un’industria cinematografica e grande libertà era data ai registi), in campo storico-sociale (l’Italia usciva da vent’anni di dittatura e aveva la possibilità di creare quasi dal nulla le proprie strutture democratiche), in campo stilistico (la mancanza di mezzi tecnici, di teatri di posa, di apparecchiature tecnologiche favorirono questo percorso verso il realismo), in campo emotivo (l’interesse a far vedere ‘le cose come sono’, dopo che per molti anni – sia in ambito politico con la dittatura fascista sia, in piccolo, nell’ambito cinematografico con il periodo dei telefoni bianchi – la realtà era stata celata, oppure edulcorata). Ladri di biciclette è tutto questo: attori non professionisti (Maggiorani fu scelto solo per il suo modo goffo di camminare), sequenze girate per le strade, approccio documentaristico alla storia, grandi ideali di uguaglianza e giustizia sociale alle spalle, una storia raccontata dalla parte della ‘gente’. Il film può essere considerato senz’altro il più ‘neorealista’ tra i film di De Sica. Tuttavia autenticità dello sguardo, assenza di filtri o artifici cinematografici, spirito documentaristico, discesa per le strade sono caratteristiche che non indicano, come potrebbe sembrare in apparenza, un approccio diretto con il reale, all’insegna dell’improvvisazione, senza un impianto narrativo ben definito, per poter afferrare sull’istante ciò che avviene nella realtà. Ladri di biciclette è tutto il contrario: la complessità dell’intreccio, l’equilibrio tra le diverse sequenze, l’attenzione per i personaggi, la comparsa di piccoli episodi altamente significativi (come l’incontro con i seminaristi) indicano, infatti, una lunga preparazione a tavolino, un’attenzione maniacale per ogni piccolo particolare scenico. Due esempi su tutti: dal punto di vista scenografico è interessante notare come la scena del comizio della sessione del PCI avviene sullo sfondo di case popolari che non sembrano affatto reali: l’illuminazione, il gioco di luci, il forte contrasto tra i chiari e gli scuri vengono utilizzati non in maniera denotativa, ma connotativa, con una forte rilevanza simbolica, dato che Antonio ha appena subito il furto della bici e il suo stato d’animo sconvolto si proietta sul contesto scenografico. Il secondo esempio è riscontrabile nella costruzione degli episodi che caratterizzano la ricerca della bici. Essi sono poco alla volta sempre più drammatici: il ritrovamento e la fuga del complice, il falso annegamento del figlio, l'imbattersi nel ladro e l'impossibilità di farlo arrestare, il tentativo di rapina. Questo accrescere della drammaticità degli eventi conferma un’impostazione classica del racconto, una capacità di utilizzare caratteristiche di narrazione e rappresentazione consolidate (si pensi anche all’uso delle dissolvenze per staccare da una sequenza all’altra, una delle figure stilistiche per eccellenza del cinema hollywoodiano) inserendole armoniosamente in un nuovo modo di concepire l’opera cinematografica.
Il contesto storico: il film nella Storia del cinema
Detto della centralità di Ladri di biciclette all’interno del movimento neorealista – come prologo all’analisi narrativa e stilistica del film – occorre sottolineare, in questa sede, l’importanza che il film ebbe anche nella storia della critica cinematografica e nella ridefinizione dei canoni e degli stilemi utilizzati nell’analisi filmica. E’ soprattutto grazie agli scritti di André Bazin, critico e teorico cinematografico tra i più colti e importanti non solo in Francia, punto di riferimento e padre spirituale della nouvelle vague francese, che Ladri di biciclette fu associato alla quintessenza del neorealismo. Fu soprattutto una sua paradossale dichiarazione a creare questo effetto. Dalle colonne della rivista Esprit, nel 1949, egli ebbe a dire che “La riuscita suprema di De Sica […] è di aver saputo trovare la dialettica cinematografica capace di superare la contraddizione dell’azione spettacolare e dell’avvenimento. In ciò, Ladri di biciclette, è uno dei primi esempi di cinema puro. Niente più attori, niente più storia, niente più messa in scena, cioè finalmente nell’illusione estetica perfetta della realtà: niente più cinema”. Così come il film contribuì a modificare l’approccio del cinema verso il reale (non solo nei cineasti del periodo ma anche in quelli successivi), le affermazioni provocatorie del critico contribuirono a modificare l’approccio della critica verso i film, un approccio che si fece molto più ideale e esigente che in passato
Bibliografia essenziale
Marco Dalla Gassa