di Pavel Chukhray, Vojtech Jasny, Andrzej Wajda, János Szász, Luis Puenzo
(USA, 2002)
Sinossi
I cinque documentari seguono il fluire dei ricordi di alcuni dei sopravvissuti alla Shoah: la vita serena e quotidiana prima delle leggi razziali, poi le prime discriminazioni, la paura crescente, la vita nei ghetti; infine la deportazione e l’esperienza inenarrabile nei campi, punteggiata solo qua e là da qualche episodio di solidarietà umana. Le interviste sono state registrate in Cile, Argentina e Uruguay (Alcuni che sopravvissero), Ungheria (Gli occhi dell’olocausto), Russia (Bambini dall’abisso), Polonia (Mi ricordo), Repubblica Ceca (L’inferno in terra).
Presentazione Critica
Un museo visivo della memoria Il film fa parte di una serie di produzioni della Survivors of the Shoah Visual History Foundation, un’organizzazione voluta da Steven Spielberg all’indomani delle riprese del suo Schindler’s List (Id., Usa, 1993) che, com’è noto, ripercorre la storia dell’industriale tedesco Oskar Schindler e del suo impegno nel salvare centinaia di ebrei dalla deportazione. La fondazione ha come scopo la raccolta di testimonianze di sopravvissuti e altri testimoni dell’Olocausto, ebrei ma anche omosessuali, testimoni di Geova, rom e prigionieri politici, ed ha costituito fino ad oggi un archivio ricco di più di 50.000 testimonianze video. I cinque segmenti che compongono Broken Silence sono un esempio del possibile uso di questi materiali. Cinque diversi registi hanno raccolto e montato alcune testimonianze divise secondo un criterio geografico, in modo da ricostruire i terribili eventi accaduti tra il 1940 e il 1945 attraverso la fusione delle testimonianze, raccontate in video dagli stessi sopravvissuti, e di immagini di repertorio (fotografie e filmati) che restituiscono con immediatezza vivida e crudele la realtà di quegli anni. La struttura dei filmati è perciò molto semplice, ma non per questo meno efficace, anzi: sono le aggiunte eterogenee, talvolta presenti, a stonare. Ad esempio, in Gli oocchi dell’olocausto, le parole dei sopravvissuti e le immagini d’epoca sono intervallate dalle riprese di una bambina che, alla luce di una candela, legge le definizioni di alcuni termini chiave legati all’olocausto. Sono immagini piuttosto retoriche e in definitiva superflue rispetto alla semplicità (terribile) delle parole, ma soprattutto dei volti di coloro che raccontano. Perché l’elemento chiave dei film sta per l’appunto nell’affabulazione. Ascoltare le parole che cercano di ricostruire il flusso dei ricordi dà allo spettatore la possibilità di immergersi completamente nelle atmosfere e nelle sensazioni evocate dagli intervistati. Le loro parole sono tanto semplici quanto toccanti. La rievocazione delle storie vissute passa attraverso le stesse tappe verso la tragedia: i ricordi di un’esistenza serena, segnata dalle ricorrenze e dalle festività ebraiche come anche dalle esperienze quotidiane (le amicizie, gli amori), e poi, via via, l’inizio e l’inasprirsi della persecuzione, i ghetti e i campi, in cui, come dice uno dei testimoni, «non era possibile pensare; si doveva solo sopravvivere». Dal canto loro le immagini di repertorio, seppur note, conservano una forza intatta e tagliente; in particolare le immagini a colori, con il loro sovrappiù di realismo, testimoniano con lucida oggettività ciò che forse, comunque, non può essere mostrato se non per parti o per accenni: la distruzione della vita ma, anche e forse soprattutto, della dignità umana. Può sembrare paradossale, ma le immagini che forse restituiscono di più la sofferenza e il dolore indicibili sono i volti dei testimoni. Eleganti, ben vestiti, sullo sfondo di stanze ricche di libri, i mobili lucidi, i testimoni iniziano a parlare con tranquillità, tradendo quasi il piacere di parlare di sé. Poi i ricordi si accumulano, la mente rievoca gli eventi, seguendo il flusso della memoria e la compostezza si scioglie; ed è negli occhi umidi di pianto e nei volti segnati dalle smorfie di dolore impossibile da reprimere, che emerge l’essenza di un’esperienza per altri versi non descrivibile.
Il ruolo del minore e la sua rapresentazione
L’esperienza dei bambini nei lager e il respiro del gioco
In tutti gli episodi il ruolo dei minori è centrale, sia come oggetto che – ed è forse la prospettiva più interessante – come soggetto della narrazione. Dalla prima prospettiva, se in tutti e cinque i segmenti viene raccontata la sorte subita dai bambini, Bambini dall’abisso di Chukhraj li pone esplicitamente al centro della rievocazione e merita quindi di essere analizzato da vicino. In un primo tempo l’infanzia viene rievocata attraverso foto e brevi filmati di famiglia: sono immagini di serenità, di una vita quotidiana che scorre tranquilla, e la luce cupa del dopo dà a quei volti una patina di lancinante tristezza che finisce per colpire ancor più delle parole. Poi la narrazione si sposta verso la deportazione e i campi: e qui, con un salto brusco, vediamo i bambini usati per gli esperimenti di Mengele, e per questo, almeno all’inizio, ben nutriti; vediamo gli altri, la maggior parte, essere avviati fin da subito alle camere a gas o uccisi crudelmente dalle SS, oppure ancora costretti a lavorare, divorati dalle pulci e dalla dissenteria. Sebbene la voce over indulga talvolta alla retorica, lo scarto tra le immagini del “prima” e del “dopo” è tale da restituire, almeno in piccola parte, lo choc di chi, come quei bambini, si è visto costretto ad abbandonare un’esistenza più o meno agiata, comunque rassicurante, per entrare nell’oscurità dell’abisso evocato dal titolo dell’episodio. Ma veniamo ai minori come soggetto della narrazione. Molti dei racconti vengono da persone che all’epoca erano bambini, e per questo i loro ricordi, seppure filtrati dalla memoria di adulti, spesso recuperano una prospettiva infantile. “Sembrava un gioco”, dice uno di loro, “come quando da piccoli giocavamo alla guerra”: e in effetti i racconti appaiono sospesi tra l’ingenuità dei bambini e la consapevolezza, raggiunta precocemente, della crudeltà degli uomini. Ad essere rievocati in queste memorie sono tanti romanzi di formazione: storie di una presa di coscienza precoce e necessaria. Una delle storie raccontate in Alcuni che sopravvissero è esemplare in questo senso. Un uomo racconta di come la madre fosse riuscita ad ottenere, per lui e i fratelli, dei falsi documenti che testimoniavano la loro origine ariana. Così, racconta il narratore, lui e gli altri giocavano spensierati in strada con armi ed elmetti come fossero giocattoli; allo stesso tempo erano consapevoli di dover fingere con abilità, di dover recitare il ruolo di non-ebrei se volevano assicurarsi la sopravvivenza, e lo facevano con tutta la serietà di piccoli adulti. È una duplicità che si ritrova in una delle sequenze più celebri girate da Roberto Rossellini, il finale di Germania anno zero (Italia, 1948). In essa vediamo il piccolo Edmund che, influenzato dall’antico maestro ed ex nazista, ha finito per uccidere il padre malato. Ora il ragazzino è scappato di casa e inizia, con sempre maggiore lucidità, a rendersi conto di ciò che ha fatto. Il suo vagare per le strade di Berlino è ripreso da vicino, in una lunga sequenza che non lo abbandona mai. Edmund prova a giocare: incrocia dei ragazzini che giocano a palla e si mescola a loro, ma questi lo cacciano; gioca con le macchie sull’asfalto della strada, saltando da una all’altra; poi entra in un palazzo semidistrutto, già pensando alla morte – trova una sorta di martello e se lo punta alla fronte – ma ancora desideroso di giocare, di distrarsi. Ogni suo gesto è quello di un bambino che si diverte con gli oggetti, che li piega alla propria fantasia, ma anche quello di un adulto che comprende tardivamente il significato della propria azione e che vuole pagarne le conseguenze, come testimonia il suicidio finale, il gesto estremo che trasforma definitivamente Edmund in un adulto che rinuncia alla propria vita. Questa stessa ambiguità, questa scissione tra il mondo dei giochi tipico dell’infanzia e il mondo della realtà dell’età adulta si ritrova nei racconti dei sopravvissuti registrati in Broken Silence: storie che in qualche modo ricostruiscono la percezione infantile degli eventi e ce li mostrano secondo il punto di vista di bambini desiderosi di conservare le prerogative della loro età, di viverla come dovrebbe essere vissuta nonostante le circostanze, e il sentimento urgente della necessità di crescere per trasformarsi, anche se tragicamente, in adulti.
Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici
Oltre al già citato Germania anno zero di Rossellini, i documentari possono essere accostati a pellicole provenienti dal serbatoio infinito dei film sulla shoah, in particolare quelli che adottano la prospettiva dei bambini: La vita è bella di Roberto Benigni (Italia, 1997) – e qui l’utilità di mostrare dei documentari accanto alla fiction può essere molto utile per smontare l’eccesso di atmosfera fiabesca tipica del film – ma anche il bel Jona che visse nella balena di Roberto Faenza (Italia, 1993) e L’amico ritrovato (Reunion, Germania/Usa 1994) di Jerry Schatzberg. Se si vuol esplorare il cinema di Steven Spielberg in un raffronto tra finzione e documentazione della realtà si può partire invece dal suo Schindler’s List, anch’esso citato più sopra, e confrontarlo con un altro film dedicato alla discriminazione, questa volta ne confronti degli africani americani, Il colore viola (The Colour Purple, Usa, 1985).
Chiara Tognolotti