di Zhang Yuan
(Italia/Cina, 2006)
Sinossi
Siamo in Cina, in un'epoca non ben precisata, anche se alcuni elementi suggeriscono chiaramente gli anni Cinquanta di una società che si sta adeguando ai parametri dell'ideologia maoista. Il piccolo Qiangqiang, figlio di un'impiegata ministeriale e di un pilota, viene mandato a tempo pieno in un asilo, ma il bambino, di soli quattro anni, fatica ad accettare le rigide condizioni imposte dalla direttrice e dalle maestre. Ogni singolo gesto della giornata, dal lavarsi le mani prima di pranzo allo spogliarsi da soli la sera prima di andare a letto, viene segnato da un premio che ne certifica la giusta esecuzione e scandito da un fischietto al cui richiamo i bambini devono farsi trovare pronti. Il premio consiste nell’assegnazione di un fiore rosso, fino a un massimo di cinque per giorno, che danno diritto ad essere il capoclasse per la settimana seguente. Il povero Qiangqiang, insieme a pochi altri, non riesce però a ottenerne neanche uno per giorni e giorni, nonostante lo desideri moltissimo, e così finisce con il non accettare più nessuna regola, favorito anche da un’indole ribelle che appare chiara fin dall’inizio del film. Qiangqiang riesce però a guadagnarsi il rispetto di alcuni suoi compagni a suon di spintoni e rifiuti, mentre gli altri bambini, compresa l'amica Beiyan, sono terrorizzati dai suoi modi impulsivi e aggressivi. Il piccolo protagonista riesce addirittura a convincere tutti gli altri bambini del fatto che la direttrice sia in realtà un mostro munito di coda che vuole mangiarli, e che per questo vada assolutamente fatta prigioniera, ma il piano fallisce e Qiangqiang viene improvvisamente abbandonato dai suoi fedeli compagni, che preferiscono seguire in fila le maestre.
Introduzione al Film
Il corpo indisciplinato
La guerra dei fiori rossi non è l’unico film di Zhang Yuan in cui si parla dei problemi legati all’educazione, che siano attinenti all’età dell’infanzia o a quella adolescenziale. Già nel suo primo lungometraggio intitolato Mama (id., 1990, primo film a produzione totalmente indipendente girato in Cina) il regista cinese si è occupato del difficile rapporto tra una ragazza madre e il figlio portatore di handicap. Bastardi a Pechino (Beijing bastards, Cina/Hong Kong, 1993) tratta invece della gioventù underground della Pechino moderna, composta da ragazzi sbandati che passano il loro tempo a bere e a trafficare in beni illegali. In Diciassette anni (Seventeen years, Italia, 1999) Zhang Yuan affronta invece la storia di due sorelle che desiderano fuggire da casa, ma che trovano un destino completamente diverso: una delle due muore per mano dell'altra in seguito a un litigio per dei soldi rubati ai genitori; finita in carcere, la sorella colpevole ne uscirà ben diciassette anni dopo per ritrovarsi da sola in una Pechino completamente cambiata. Anche La guerra dei fiori rossi, pur con tutta la delicatezza e la purezza dell'infanzia, ci parla di un'individualità ribelle, che non ne vuole sapere di piegarsi ai comandi di un'educazione rigida, quasi inumana nei suoi meccanismi, che tende ad annientare il singolo a beneficio del gruppo, concepito come un meccanismo che debba funzionare con la precisione di un orologio. A pensarci bene il sistema dei fiori rossi non si discosta poi molto da quello usato abitualmente per addestrare i cani, ai quali si dà in premio il biscotto ogni volta che eseguono correttamente un ordine – e allo stesso modo di un cane disobbediente il protagonista finisce in punizione in una stanza buia, con la minaccia che se continua così non potrà esserci nient'altro che il carcere nel suo futuro. Un sistema solo apparentemente meritocratico, quindi, ma che mira ad un'omogeneità dei comportamenti che passa innanzitutto dalla disciplina del corpo, che non può essere amministrato a proprio piacimento (sintomatico, da questo punto di vista, il fatto che ogni sera maschi e femmine si facciano asciugare il sedere davanti a tutti, nonostante Beyan venga poi sgridata per essersi fatta togliere di nascosto le mutandine dal suo amichetto). Lo sguardo di Qiangqiang – sempre imbronciato e, al tempo stesso, stupito dinanzi ai regolamenti inumani che si vuole egli rispetti – sembra lo stesso di una società sempre più affamata di libertà com'è quella cinese, passata velocemente dalla rivoluzione culturale a un consumismo onnivoro e spietato. Il film, tratto da un racconto autobiografico dello scrittore maudit Wang Shou, presenta inoltre più di un tratto in comune con Zero in condotta (Zéro de conduite, Francia, 1933) di Jean Vigo, a cominciare dalla scena finale dell'agguato alla direttrice, che ha lo stesso sapore di ammutinamento che si respira nella scena della battaglia dei guanciali nel film francese. Allo stesso modo, certi comportamenti reiterati di Qiangqiang – come il fare la pipì all'aperto o il salire sul finestrone della stanza comune, nonostante i divieti della direttrice – hanno un valore simbolico molto simile a quello della bandiera piantata dai collegiali di Jean Vigo sul tetto della loro scuola (anche se nel film di Zhang Yuan non vi è nessun esplicito riferimento a una rivolta dal sapore anarchico), ma da un punto di vista stilistico e di atmosfere i due film sono quasi uno l'opposto dell'altro: tanto surreale e onirico quello francese, quanto asciutto e realista quello cinese, in cui il monocromatismo degli ambienti viene spezzato soltanto dall'apparizione dei fiorellini rossi.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Le ragioni della natura
Ne La guerra dei fiori rossi è senz’altro centrale la rappresentazione del corpo e, in prima istanza, di quello dei minori, che Zhang Yuan mostra spesso nella sua nudità. La regia si mantiene però sempre ad una “giusta” distanza, necessaria affinché non vi sia il sospetto di una forma di autocompiacimento in quella che è invece nient’altro – e non è poco – che l’accettazione della vera natura dell’infanzia. Ne è dimostrazione il fatto che il regista prediliga l’espressività dei volti, con tutto il loro bagaglio di smorfie, alla retorica dei dialoghi, poiché il linguaggio dei bambini è primariamente un linguaggio fatto di gesti, e dove la parola, quando prende il sopravvento, abdica al fascino della narrazione – come nel caso del racconto di Qiangqiang sulla coda spuntata alla direttrice. Stretto tra l’educazione repressiva dell’asilo e il rigore formale della regia – che per certi aspetti ricorda il neorealismo di Roberto Rossellini o di Vittorio De Sica – il piccolo protagonista si fa carico di un rifiuto assoluto verso l’imposizione, un rifiuto che passa attraverso la candida esibizione della propria più intima natura. Ogni gesto di Qiangqiang ha il sapore di una piccola rivoluzione, ma non perché si possa trovare traccia di una coscienza rivoluzionaria in un bambino della sua età, bensì perché egli sembra l’unico non disposto a reprimere la propria natura in cambio di una maschera, fisica e mentale, che gli permetterebbe di esibirsi correttamente sul palcoscenico degli adulti – bellissima, da questo punto di vista, la scena in cui Qiangqiang, incapace di ripetere a memoria il motivetto, al contrario degli altri bambini, si fa la pipì addosso davanti a tutti. L’incapacità di trattenere gli istinti è d’altronde la prerogativa del piccolo protagonista, che sente i bisogni del proprio corpo anziché il suono del fastidioso fischietto con cui le maestre richiamano all’ordine la classe. In questo senso si può affermare che La guerra dei fiori rossi metta in scena una sorta d’involontaria caricatura di un sistema educativo che tende alla cancellazione dei tratti caratteristici della natura infantile, che cerca di normalizzare attraverso una coreografia del quotidiano che vorrebbe regolarne ogni più piccolo movimento. Ed è da qui che nasce, pur nella rigorosità della regia, l’involontaria caricatura di questo mondo dalle tinte grigie che è l’asilo rappresentato dal film di Zhang Yuan: proprio come sostiene il filosofo Henry Bergson nel suo celebre saggio sul riso (Henry Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Laterza, Bari, 1996), la comicità nasce dalla contrapposizione tra meccanicità e vivente, da una rigidità che ci appare ridicola nei confronti della fluidità e complessità della natura, che non può essere ridotta a una serie di pose. Le maestre dell’asilo sembrano infatti incapaci di ridere, al contrario dei bambini, a cui basta voltarsi un attimo per farsi beffe di tutta la messa inscena orchestrata con il sistema dei fiori rossi.
Riferimento ad altre pellicole e spunti didattici
Oltre al già citato Zero in condotta, per la poeticità di alcune scene e per il carattere irrequieto del suo protagonista La guerra dei fiori rossi può ricordare anche un film-manifesto come I 400 colpi (Les 400 coups, Francia, 1959) di François Truffaut. Il sistema educativo ritratto nel film di Zhang Yuan ha inoltre più di un’attinenza - anche se vi sono in gioco dinamiche apparentemente opposte – con quello vigente in La Guerra dei bottoni (La guerre des boutons, Francia, 1961) di Yves Robert, dove i ragazzi di due villaggi vicini giocano a farsi la guerra rubando i bottoni degli avversari, che sono così costretti a tornare a casa tenendosi i pantaloni con le mani. In entrambe i film è infatti in gioco l'eterna battaglia tra stato di diritto e stato di natura, tra regole e pulsioni, doveri e desideri. Nonostante la complessità delle tematiche legate al mondo dell’educazione, La guerra dei fiori rossi è particolarmente indicato per gli alunni delle scuole medie inferiori, poiché riesce a raccontare, con estrema delicatezza, lo sguardo di un’infanzia alle prime armi alle prese con il mondo degli adulti. Simone Ghelli