di Victor Erice
(Spagna, 1973)
Sinossi
Spagna, 1940, poco dopo la fine della guerra civile. Un cinematografo itinerante organizza la proiezione del Frankenstein di James Whale in un piccolo villaggio sperso nell’altipiano castigliano. I bambini sono affascinati dal mostro, in modo particolare la piccola Ana, otto anni, che rimane particolarmente impressionata dalla scena in cui Frankenstein incontra una bambina sua coetanea e la uccide e da quella dove viene a sua volta ammazzato. Anche se sua sorella maggiore, Isabel, cerca di spiegarle che si tratta di finzione, Ana si convince che lo spirito del mostro si aggira nel villaggio e teme di poterlo incontrare prima o poi. La spiccata fantasia della bambina è dettata dalle condizioni in cui vive: lei e Isabel infatti dimorano in una grande e spoglia abitazione, pressoché ignorate dai loro genitori, raramente presenti, ed occupati in rituali ai loro occhi incomprensibili: il padre, insonne, trascorre le giornate a studiare le api, arrangiando la casa come se fosse un alveare; la madre, viceversa, si è rifugiata in una sterile nostalgia, redigendo lettere rivolte ad un ipotetico amante. Per questo, le bambine, per scappare da una realtà disarmante e desolata, si inventano un universo parallelo, abitato da figure immaginarie e ideale luogo per inventarsi storie stravaganti. A incentivare l’immaginazione creativa delle due bambine contribuisce anche il paesaggio naturale in cui abitano, immenso, soleggiato, deserto, ed un vecchio casolare abbandonato, misterioso e affascinante, che scoprono e frequentano spesso. Un giorno, in quello stesso casolare, si installa un soldato socialista in fuga, alla ricerca di un riparo sicuro nella campagna dopo la vittoria ormai acclarata del generale Franco. Agli occhi di Ana, il suo arrivo sembra la conferma che lo spirito di Frankenstein è in mezzo a loro.
Introduzione al Film
Un esordio folgorante
Victor Erice è indubbiamente uno dei registi che maggiormente hanno inciso, con i suoi film, sul cinema iberico contemporaneo, nonostante una produzione cinematografica molto rarefatta nel tempo. Diplomato alla Scuola di Cinema agli inizi degli Anni Sessanta, Erice inizia la sua carriera come critico per proseguirla come regista televisivo e pubblicitario. Le sue incursioni in ambito cinematografico sono rare, misurate, e perciò particolarmente intense, in virtù di un agire che nasce sempre e soltanto da una vera e propria urgenza creativa, da un bisogno di girare non sottomesso a mere ragioni alimentari. Similarmente ad un altro grande regista come Terrence Malick, altrettanto parco nel girare film, Erice ha diretto solo tre film in trentatre anni, di cui Lo spirito dell’alveare rappresenta il debutto folgorante, nel 1973. Si tratta di un’opera che lo ha iscritto da subito nell’ambito dei grandi maestri della modernità, grazie non solo alla preziosa e curatissima fotografia, che ritrae una Spagna rurale di inedita bellezza, ma soprattutto in ragione di una poetica che sa articolarsi, con saggio equilibrio, tra realtà ed astrazione, facendo propria la lezione buñueliana, ma, al contempo, allontanandosene specialmente per quel che riguarda l’impianto stilistico/formale del racconto. È, infatti, grazie ad una stringente geometria visiva che il regista riesce a mettere in scena il suo personale alveare sociale, un microcosmo simbolico dove le tensioni che sottendono la calma apparente di una Spagna ormai “riportata all’ordine” possono essere disturbate in qualsiasi momento da un elemento casuale, improvviso, sia esso un film dell’orrore proiettato da un cinematografo itinerante o un soldato sfuggito alla giustizia dei vincitori e nascosto in un casolare. A rendere la pellicola così intensa e sorprendente – non ultimo tra i fattori da citare – contribuisce la magistrale prestazione di un’esordiente Ana Torrent che diventerà, qualche tempo dopo, protagonista di un’altra pietra miliare del cinema spagnolo Cría Cuervos di Carlos Saura.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Il mostro e la bambina
Un film come Lo spirito dell’alveare si offre ad innumerevoli chiavi di lettura: di qui la necessità di sceglierne una e ben definita se vogliamo arrivare a una conclusione in linea con le tematiche a cui si fa riferimento. Il punto di vista, nonché il registro comunicativo da cui si decide di partire per la nostra analisi risulta determinante per stabilire chi è il protagonista, chi sono i personaggi secondari nonché qual è l’idea dominante che possiamo individuare nel film. Un’altra sottolineatura importante riguarda l’utilizzo della metafora come strategia nel linguaggio cinematografico che attraversa quasi per intero Lo spirito dell’alveare. E’ questo un elemento che va tenuto presente poiché nel parlare di spiriti mostri e bambine, di uccisioni presagite e reali, i riferimenti al regime franchista degli anni nei quali il film è ambientato, costituiscono l’ossatura nascosta. Detto ciò ci troviamo di fronte a una questione rilevante e, fuor di metafora, molto attuale: l’immaginario infantile espresso nel suo fantasticare intorno a spiriti e mostri e la sua ingenuità nel distinguerli da seduzioni reali per opera di adulti malevoli, non riconosciuti come tali. Va sottolineato come premessa che anche in questo caso, come in altri film che rappresentano i minori fino agli Anni Cinquanta, non può non colpire l’autonomia dei bambini, dettata a volte dalle disagevoli condizioni di vita che li costringevano a districarsi da soli fin da piccoli nella quotidianità. Gli adulti, forse più occupati da problemi legati al conseguimento dei beni di prima necessità, sentivano meno il bisogno di risarcire la propria ansia e insoddisfazione con l’eccessivo accudimento dei figli. Anche quando la situazione economica era favorevole, come nel caso della famiglia mostrata nel film, il margine di autonomia del minore era decisamente più ampio rispetto ai canoni correnti. L’esordio del film ci presenta due sorelle, Isabel e Ana, che si recano al cinema del piccolo paese in cui abitano, con adulti e coetanei. La loro fervida immaginazione viene colpita dalla figura della “Cosa” creata dal dottor Frankenstein, un mostro che sembra innocente ma che, essendo privo di ragione propria, non sa prevedere il risultato delle sue azioni. Mostri e spiriti si intrecciano nell’immaginario delle due bambine come un qualcosa che le affascina, le incuriosisce e nello stesso tempo incute loro timore e soggezione. Durante il dialogo prima di addormentarsi, Isabel rivela alla sorellina che lei sa dove abitano gli spiriti, che sa come entrare in contatto con loro, chiamandoli. Ana ne rimane profondamente colpita e chiede alla madre se gli spiriti sono buoni o cattivi. La donna non coglie l’importanza della fine allusività di questa domanda, nata proprio dall’ingenuità di chi è indifeso di fronte al male perché non ne sa riconoscere i tratti nascosti. La risposta che ottiene “gli spiriti sono buoni con chi è buono e cattivi con chi è cattivo”, orienterà il giudizio di Ana verso conclusioni che saranno nefaste per lei. Si insinua nella bambina l’idea che il benvolere dell’altro nei suoi confronti dipenderà da lei, dal suo comportamento, da quanto lei sarà carina con lui. Il pensiero “se sarò buona, lui sarà buono” favorisce il permanere di un’ingenuità di pensare l’altro senza volontà, soprattutto senza volontà malevola. Ella crede “facendo la brava”, di essere al sicuro da qualsiasi attacco nei suoi confronti e ciò le impedirà di riconoscere il male quando si travestirà di bonarietà. A bilanciare questa versione valoriale, giunge il padre che, invece, mette in guardia le figlie quando, di fronte a un magnifico fungo velenoso dice loro di non fidarsi delle apparenze, perché sotto quell’aspetto invitante si nasconde in realtà un pericolo mortale che, se non riconosciuto, può uccidere. Un male senza corpo, solo spirito, però non si può eliminare (come ricorda Isabel alla sorella): come a dire che non ci si può difendere dalla malvagità dell’altro se non lo si riconosce in un altro reale. E così Ana, col favore delle tenebre, si alza e attraversa il campo di fronte a casa per raggiungere un vecchio casolare in un luogo isolato, dove chiama lo spirito. La curiosità che la visione del film e le parole della sorella hanno suscitato in lei la spinge a cercare qualcuno che incarni ciò che la sua immaginazione ha creato, sentendosi falsamente al sicuro grazie alla teoria “se sarò buona lo spirito sarà buono con me”. È per questo motivo che non si spaventa nel trovare il disertore nel casolare e arriva a portargli oggetti e vestiti del padre e cibo. Da questo momento in poi è tutto un confondersi di fantasia e realtà e fatichiamo a volte a capire se ciò che accade corrisponde al vero o è la pura rappresentazione dell’immaginario della bambina. L’estraneo non è per Ana un nemico a priori e questa posizione di apertura è ciò che permette ai bambini di imparare, di conoscere e di prendere da tutti. Ma sono due le ingenuità che questa posizione originariamente favorevole contiene in sé: la prima, come già sottolineato, è quella di sentirsi protetti dal fatto di “essere bravi così anche gli altri saranno bravi con me”. La seconda riguarda la questione del giudizio, la difficoltà per il bambino di pensare che l’altro possa voler fargli del male. Caduto in queste trappole il bambino rischierà di passare, da adulto, ad una posizione di sfiducia universale nella quale, in seguito alla delusione provata, ogni altro verrà considerato deludente a priori, ancora una volta senza l’ausilio del giudizio. E’ ciò che è accaduto al padre di Isabel e Ana: egli, studiando e ragionando intorno alla vita delle api nell’alveare, giunge alla conclusione che l’esistenza è un inutile lavoro che non porterà mai a nulla di buono, ma solo a morte e distruzione. Apertura e giudizio sono quindi la difesa di cui il bambino ha bisogno di attrezzarsi nella sua maturazione per non restare colpevolmente ingenuo o divenire colpevolmente sospettoso. Se Ana ha cercato il suo fantasma in individui reali, diversa è la posizione della sorella Isabel, più grande di lei di qualche anno. Isabel non ha cercato un corpo per il suo fantasma, ma in un certo senso gli ha prestato il suo. In lei si identificano a turno sia il mostro, quando vuole strangolare il gatto, sia la vittima quando si finge morta per fare uno scherzo alla sorellina. In entrambi i casi si presenta come tentativo di esorcizzare una paura alla quale non si riesce bene a dare un nome e che non sa risolversi tra la curiosità e il pericolo. Ciò che manca a queste due bambine non sono consigli di prudenza, cui spesso si limita l’intervento dell’adulto, ma la vicinanza di adulti che, anziché limitarsi a riflettere sulle dinamiche della Natura (il padre) o a scrivere a un antico amore (la madre) avrebbero potuto e dovuto aiutarle ad attrezzarsi per i futuri contatti con la realtà.
Riferimento ad altre pellicole e spunti didattici
Il primo e più esplicito riferimento cinematografico è quello al Frankenstein di James Whale del 1931 (suggerendo anche una visione della rilettura realizzata da Kenneth Branagh). È alla “Cosa” realizzata dal pazzo dottor Frankenstein che si trova a fare riferimento il percorso immaginario della piccola Ana che, in qualche misura, finisce con il rappresentare anche la reazione di una parte del pubblico (di lettori prima, di spettatori poi) dinanzi alla creatura partorita dalla creatività di Mary Shelley. In quel prezioso libro (in materia di strategie di costruzione della Paura) che è “Danse macabre” Stephen King descrive con grande acutezza il duplice stato d’animo indotto proprio dalle scene che, ne Lo spirito dell’alveare, maggiormente coinvolgono e turbano la protagonista. Scrive King: “L’aspetto che ha reso il libro da sempre tanto attraente per il cinema è che la Shelley divide i lettori in due categorie di persone di opposte vedute: il lettore che vuole prendere a sassate il mutante e il lettore che le sassate se le sente arrivare addosso e protesta urlando contro tanta ingiustizia”. Interessante può essere poi la visione di Il labirinto del fauno in cui Guillermo Del Toro, sicuramente memore della lezione di Erice descrive il complesso rapporto che si instaura tra una dodicenne e il mondo fantastico che la piccola finisce con il veder materializzato quale rifugio dalle angosce di una Spagna ormai quasi definitivamente sottomessa al Franchismo. Per quanto riguarda poi il fascino esercitato dal cinema su una personalità in formazione in un passato solo apparentemente lontano una rilettura mirata di Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore può risultare un valido ausilio. Elena Galeotto, Giancarlo Zappoli