di Riccardo Milani
(Italia/Kenia, 2002)
Sinossi
Kevin è un bambino che vive in uno degli slum di Nairobi e che non si è mai allontanato dal suo luogo di origine. Viene scelto da una troupe cinematografica affinché faccia da testimone dei cambiamenti e dei problemi del suo paese e, al termine del suo viaggio, scriva una lettera a Nelson Mandela per raccontargli tutto quello che vedrà in prima persona. Essendo analfabeta, durante il suo viaggio verrà accompagnato da un maestro che gli insegnerà anche a leggere e a scrivere. La sua prima tappa è presso un centro di assistenza per disabili con handicap fisici e psicologici in seguito alle malattie diffuse in Africa: qui fa la conoscenza di un falegname zoppo che prepara stampelle che aiuteranno i bambini a camminare e giocattoli ad incastro che svilupperanno le facoltà intellettive dei bambini con ritardi mentali. Sul percorso verso la foresta del monte Kenia, poi, incontra un guerriero Masai che gli racconta le tradizioni del suo popolo e gli parla del rischio che queste vadano perse a contatto con lo scriteriato e inarrestabile cammino del progresso. Arrivato alla foresta Kevin può finalmente correre e giocare in un ambiente completamente nuovo e apparentemente incontaminato; ben presto, tuttavia, sente il rumore delle seghe a nastro e si accorge che degli uomini stanno tagliando gli alberi causando la lenta distruzione della foresta. Gli effetti della deforestazione diventano ancora più evidenti nei suoi incontri successivi: prima si imbatte in un vecchio seduto al bordo di una strada che gli racconta quanto velocemente gli alberi stiano scomparendo; poi una donna gli spiega come sia necessario costruire delle barriere vegetali artificiali per limitare i danni delle inondazioni; in seguito si trova di fronte ad un canyon invalicabile provocato dalla violenza del flusso d’acqua che non ha trovato sul proprio percorso alberi in grado di mitigarne l’effetto; infine scopre che ci sono persone che vivono coltivando le terre lasciate libere dagli alberi fino a che il terreno non si impoverisce al punto da obbligarli a spostarsi altrove. Il viaggio si conclude presso il lago Vittoria, dove un gruppo di pescatori gli raccomanda di dire a Mandela di fermare l’inquinamento delle acque da cui traggono sostentamento; qui Kevin visita un orfanotrofio di bambini che hanno perso i genitori a causa dell’AIDS. Tornato nella sua baraccopoli, Kevin ha imparato a scrivere: la sua lettera comincia con “Caro Mandela (Baba Mandela)”.
Introduzione al film
La voce dei senza voce Baba Mandela per le sue caratteristiche rientra nella categoria delle docu-fiction. Sono film che raccontano la realtà con uno sguardo ed un taglio documentaristico ma che partono da uno spunto narrativo di invenzione. In realtà niente ci dice che la storia del viaggio del bambino sia completamente inventata e semplicemente un espediente. In fondo il bambino si chiama Kevin anche nella realtà ed il viaggio, da piccolo ‘attore’, lo ha compiuto effettivamente. Eccoci allora di fronte ad una commistione inestricabile di realtà e finzione che, lontana dal voler essere oggettiva o realistica e dalla pretesa di un punto di vista universale, cerca di dare nuova vita ad un genere che, a causa della sovraesposizione (soprattutto televisiva), rischia di perdere l’attenzione che i temi trattati meriterebbero. In questo caso l’opera è commissionata da due associazioni no-profit che lavorano da anni per la salvaguardia del patrimonio ambientale (Legambiente) e per la sensibilizzazione del mondo nei confronti delle tante emergenze del continente africano (AMREF). Il film di Riccardo Milani marcia dunque idealmente su due binari paralleli: da un lato viene mostrato lo sfruttamento insostenibile delle risorse forestali e si spiega come l’abbattimento degli alberi provochi una serie di reazioni a catena che danneggiano e mettono a repentaglio il sostentamento e la vita di milioni di persone; sull’altro versante si mettono in evidenza gli effetti delle malattie maggiormente diffuse nel continente, lasciando sottinteso il messaggio che forse basterebbe impegnarsi in una seria ed efficace politica di potenziamento delle strutture sanitarie per evitare decessi numerosi e costi sociali insostenibili. Il punto di vista scelto è quello di un bambino che si accosti, tra lo stupore e l’ingenuità, per la prima volta a problematiche di questa entità. Il linguaggio di questo film diventa allora molto semplice, essenziale nel cercare di ottimizzare il potenziale divulgativo. Il dialogo continuo tra il “micro” e il “macro”, tra il bambino e uno dei massimi responsabili della politica mondiale, diventa un ardita metafora dell’urgenza e dell’importanza dei temi trattati e della necessità, come sembra suggerire la visione, che ognuno faccia la sua piccola parte. Il tentativo rischia di sconfinare nella demagogia o nella banalizzazione in particolare nella lettura finale della lettera indirizzata a Nelson Mandela, ma ha il merito di chiamare in causa gli organismi internazionali e di richiamare l’attenzione su una serie di temi di sempre più scottante attualità.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Il mondo visto dal basso Kevin, unico protagonista del film, è chiamato ad essere un testimone oculare. A lui, un bambino di circa dieci anni che non ha mai avuto la possibilità di uscire dal proprio ambiente, viene offerto un ruolo di estrema responsabilità: farsi portavoce dei tanti oppressi del continente africano presso le più alte autorità mondiali. Kevin comprende a pieno l’importanza del suo viaggio e si impegna tutte le sere per acquisire gli strumenti che gli consentiranno di raccontare la sua esperienza: eccolo alla luce di una lampada scrivere instancabilmente su un piccolo quaderno il suo nome. Lo stesso entusiasmo e la stessa curiosità lo guidano anche nell’incontro con le realtà e le persone più diverse. Le sue domande rispecchiano a pieno lo stupore e l’ingenuità tipicamente infantile nei confronti del mondo. Inoltre Kevin sembra quasi ignorare che egli stesso fa parte degli oppressi che va conoscendo nel suo viaggio, e le sequenze ce lo mostrano mentre percorre le strade dello slum in cui vive, tra i rifiuti, le fogne a cielo aperto e le case fatte di fango e lamiera. Non è certo un bambino privilegiato, ed è proprio perché conosce bene la miseria e l’emarginazione che gli è così facile entrare in empatia con gli altri emarginati. Nonostante tutto, Kevin rimane comunque un bambino come tutti gli altri, con la stessa voglia di giocare e la stessa passione per la musica, ed è proprio per questo che anche ai suoi occhi è evidente il contrasto stridente tra l’ordine naturale delle cose e i danni provocati dall’intervento dell’uomo. E per lui, che conosce così bene la sofferenza, forse molto meglio di come ognuno di noi potrà mai comprendere, non c’è bisogno di molte parole per capire tutti gli effetti delle malattie come l’AIDS o la malaria su tantissimi suoi coetanei. Anche la sequenza dell’incontro tra Kevin e la bambina orfana è giocata sull’essenzialità degli sguardi e delle poche parole che si scambiano, in cui tra l’altro è proprio l’orfana a leggere per entrambi una favola visto che Kevin è ancora incerto. E dove la memoria non basta, ecco che vengono in aiuto gli oggetti, quasi dei giocattoli del ricordo. Ogni esperienza dona a Kevin un oggetto (un braccialetto, una pietra, un burattino di stracci…) con cui lui può giocare riconducendo a se i volti delle persone e le loro storie. Ritornato nella sua casa, quel luogo di impressionante miseria che Kevin ha imparato, con l’abitudine, a considerare familiare e accogliente, è l’ora per compiere una delle prime e più importanti operazioni della vita adulta: interpretare il proprio vissuto e rielaborarlo per darne una rappresentazione personale. La lettera a Mandela, nella sua estrema semplicità di linguaggio, nasconde tra le frasi naif una carica di vitalità e di verità. È la realtà raccontata come solo un bambino può fare, senza filtro e in tutta la sua disarmante evidenza. Scritta la lettera, portato a termine il suo compito, forse troppo importante per essere compreso fino in fondo, Kevin torna a giocare e a ballare proprio come farebbe qualunque altro bambino dopo aver risolto un problema di matematica. Ecco un’altra lezione fondamentale dell’infanzia: che nessuno si senta così importante da tenersi fuori dalla realtà.
Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici
Grazie al suo linguaggio molto semplice Baba Mandela può essere utilizzato per introdurre i temi trattati anche nelle scuole elementari. Ai più piccoli è offerta la possibilità di immedesimarsi nel racconto e gli insegnanti possono quindi facilmente approfondire temi piuttosto complessi come i numerosi e diversi problemi del continente africano. Il fatto poi che venga utilizzata una commistione tra documentario e fiction può essere lo spunto per un confronto tra i vari tipi di audiovisivo e sulle possibilità del cinema di descrivere la realtà utilizzando un punto di vista oggettivo o soggettivo. Per un approfondimento sui problemi dell’infanzia alle varie latitudini del pianeta si consiglia la visione di Il tempo dei cavalli ubriachi di Bahman Ghobadi sul lavoro minorile in Iraq, Central do Brasil di Walter Salles sui bambini abbandonati del Brasile e Cose di questo mondodi Michael Winterbottom sui minori clandestini. (LB)