La rappresentazione cinematografica del bullismo tra ribellione, disagio e conformismo Introduzione: c’è bullo e bullo
L’immagine tradizionale che il cinema rimanda del bullo è quella stratificatasi nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, in particolare nel cinema statunitense. Nel secondo dopoguerra giungono a maturazione quelle espressioni di disagio covate a lungo all’interno del mondo giovanile durante il decennio precedente ma che non erano riuscite a trovare forme di espressione convincenti a causa della guerra che aveva costretto proprio le generazioni più giovani a maturare velocemente per rispondere a un impegno bellico senza precedenti. Il cinema statunitense scopriva in quegli anni il pubblico giovanile, sempre più numeroso e determinante per contenere l’avanzata della televisione che si imponeva fin da subito come intrattenimento per la famiglia sottraendo al grande schermo sempre più spettatori. La crescita economica e demografica (il cosiddetto “baby boom”) senza precedenti di quel periodo, dava alle giovani generazioni la possibilità, inedita fino a quel momento, di gestire autonomamente il denaro per il tempo libero, e dunque una libertà di scelta non solo degli svaghi e dei passatempi ma anche dei modelli ai quali rifarsi per costruire la propria identità, spesso proprio in contraddizione con quella di coloro che erano rimasti a casa davanti alla televisione. Le strategie del sistema hollywoodiano si orientarono, così, verso una serie di personaggi giovani, ribelli e tormentati, interpretati da una nuova generazione di attori divenuti in breve tempo vere e proprie icone del disagio adolescenziale e postadolescenziale: James Dean, Marlon Brando, Montgomery Clift ma anche cantanti passati dall’industria musicale a quella cinematografica come Elvis Presley. Il modello proposto da questi interpreti era quello di una figura maschile ribelle ma fondamentalmente insicura, priva di spinte morali forti: i comportamenti dei personaggi interpretati erano tutti nel segno del rifiuto delle regole, della ribellione verso un sistema di cose e di valori che, proprio in quegli anni, tendeva a emarginare ogni forma di diversità, arroccato in una difesa del benessere acquisito, delle conquiste sociali che una middle class sempre più vasta non era disposta a rimettere in discussione. Il ribelle si chiamava fuori da questo contesto conformista per manifestare il proprio disagio, la propria irriducibilità a una serie di valori (la famiglia, le tradizioni, il lavoro) che, così come erano concepiti, in breve tempo sarebbero diventati anacronistici. L’immagine era, quindi, quella del semplice teppista – si pensi al Marlon Brando con il giubbotto di pelle in Il selvaggio (The Wild One, Usa 1954) di Laszlo Benedek – del ribelle rissoso ma sensibile – James Dean in Gioventù bruciata (Rebel without a Cause, Usa 1954) di Nicholas Ray – o magari del “delinquente del rock and roll”, proprio come recitava il titolo di uno tra i più celebri film con Presley, insomma del bullo ma con un’accezione del termine molto diversa da quella odierna. Ciò che emerge da questa introduzione all’analisi delle rappresentazioni cinematografiche del bullismo è quindi la profonda diversità tra l’accezione usuale del termine “bullo”, legata all’idea e all’immagine dello spaccone, del ribelle, del “teppista” insofferente verso le regole della società e quella più recente, tesa a indicare gli adolescenti che usano sistematicamente violenza (fisica, verbale, psicologica) nei confronti di propri coetanei più deboli e vulnerabili. Il nostro tentativo sarà quello di comprendere in quali forme si sia evoluto il disagio giovanile negli ultimi decenni e perché le rappresentazioni cinematografiche, diversamente dal passato, non riescano più a individuare con precisione l’immagine del bullo contemporaneo, fissandola attraverso tipi e modelli definiti. Non è un caso che Rusty il selvaggio (Rumblefish, Usa 1983) e I ragazzi della 56a strada (The Outsiders, Usa 1983), entrambi di Francis Ford Coppola, due dei film che nel corso degli anni Ottanta hanno rappresentato al meglio la ribellione giovanile e il rifiuto delle regole nel pieno di un periodo caratterizzato dal cosiddetto “riflusso”, siano improntati, pur con stili diversissimi e a tratti opposti, a una sorta di romanticismo nostalgico, basandosi sulla riproposizione, fedele o deformata, dei vecchi miti degli anni Cinquanta e Sessanta. Le ragioni di questa inadeguatezza nel rappresentare il fenomeno risiedono, oltre che in una più generale crisi del cinema, sempre più spesso incapace di tradurre in immagini che abbiano una valenza universale – nonché un vero e proprio successo commerciale – i cambiamenti della società, anche nell’abilità della società postindustriale di metabolizzare ogni forma di diversità, di ribellione, di originalità all’interno di un sistema (una “società dello spettacolo”, per dirla con Guy Debord) che ingloba tutto all’insegna di un generico e talvolta malinteso senso di tolleranza e integrazione. Probabilmente la chiave che può aiutare a comprendere meglio, anche attraverso il cinema, questi cambiamenti, sta proprio nella distanza tra un modello sociale esclusivo rispetto a tutte le forme di diversità e di disagio, basato su substrato di fortissimi valori tradizionali, e quello attuale, spesso fondato su un’indiscriminata volontà di inclusione e su una superficiale liberalità che, tuttavia, non sono quasi mai accompagnate da altrettanta consapevolezza e da una rete valoriale non ancora pienamente sviluppata. È probabilmente anche per queste ragioni che, a differenza del passato, il cinema riesce sempre meno a circoscrivere il fenomeno del disagio giovanile attraverso rappresentazioni univoche, capaci di individuare immediatamente figure, situazioni e storie che possano risultare se non proprio memorabili, almeno indicative di una tendenza. Nel migliore dei casi, nei tentativi più riusciti, può limitarsi a constatare, a registrare i fatti, fermandosi al di qua di una soglia che segna il confine tra onestà intellettuale e ipocrisia, quella di chi, dopo aver mostrato estraneità e distacco verso le dinamiche che animano il mondo giovanile, si affretta a ricercare cause e motivi della violenza, magari per autoassolversi. Non è un caso che uno dei film che negli ultimi anni hanno affrontato il tema delle dinamiche di gruppo giovanili e della violenza nelle scuole nel modo più intelligente e profondo si ispiri molto fedelmente a un fatto di cronaca (dunque alla realtà) e che si limiti per l’appunto a mostrare i fatti, a registrare gli eventi senza la volontà di giudicarli o connotarli in alcun modo. Elephant (Usa 2003) di Gus Van Sant, ispirato ai tragici avvenimenti occorsi nel 1999 alla Columbine High School di Littleton (due studenti della scuola fecero irruzione nell’edificio armati fino ai denti aprendo il fuoco su coetanei e insegnanti causando una strage), pur senza fornire giustificazioni sociologiche a questo fenomeno fortunatamente esclusivo della società statunitense, né tentare la strada dell’analisi psicologica dei personaggi, costituisce anche uno dei più lucidi documenti sull’adolescenza nelle società postindustriali. Pur sottraendosi a ogni volontà dimostrativa e senza innescare alcuna logica causale, il film mostra come alcune delle vittime e dei carnefici di quella strage fossero oggetti di atti di bullismo, messi ai margini dei gruppi di pari, costretti a rendersi invisibili agli occhi degli altri (come Michelle, una delle studentesse uccise, obbligata a sopportare la derisione delle compagne a causa della sua goffaggine) oppure cercare disperatamente di dare un senso alla propria presenza, ottenere un proprio spazio di visibilità, di autorappresentazione estrema (come Alex, uno dei due sparatori, anch’egli vittima di scherzi feroci da parte dei compagni) cancellando, come in un videogame, tutti gli altri. Non è un caso, a proposito di videogame, che a dare un’immagine veritiera (forse la più veritiera) del bullismo nelle scuole anglosassoni sia stato un gioco per consolle dal titolo tanto emblematico quanto banale: Bully. Questo prodotto ha subito negli Stati Uniti un vero e proprio ostracismo da parte delle associazioni di genitori e la Sony (produttrice della consolle per la quale è stato concepito il game) per un certo periodo ne ha addirittura bloccato la distribuzione, per non correre il rischio di incappare in conseguenze legali. Ma cos’ha Bully di così particolare rispetto a tanti altri videogame, anche molto violenti, venduti senza troppi problemi agli adolescenti di mezzo mondo? Paradossalmente, a detta di chi l’ha provato, è molto meno cruento di quanto non si potrebbe immaginare: il protagonista è Jimmy, un quindicenne figlio di una famiglia dell’alta borghesia che approda in un college esclusivo nel quale viene sistematicamente praticato il bullismo. Lo scopo di Jimmy (e, ovviamente, del giocatore) è di farsi rispettare usando pugni, calci, sassate, pallonate e vendicandosi dei soprusi subiti mettendo in atto scherzi pesanti o umiliazioni ai danni dei compagni. Nulla di paragonabile, dunque, a certi “sparatutto” (videogame il cui scopo è quello di abbattere a colpi d’arma da fuoco il numero più alto possibile di “nemici”) o giochi d’azione molto più violenti. Forse lo scandalo suscitato da Bully risiede proprio nel suo essere estremamente realistico non solo e non tanto nella raffigurazione delle situazioni e dei personaggi interni alla scuola (i professori, ad esempio, sono figure grottesche che ricalcano gli stereotipi più diffusi sui docenti: il coach della squadra di football dal comportamento militaresco, la professoressa di lettere isterica e severissima, e così via…), quanto per la rappresentazione del contesto dal quale proviene Jimmy: nell’incipit del videogioco vediamo il ragazzo in viaggio verso la scuola a bordo di un imponente SUV guidato dalla madre, tipica donna in carriera che, di fronte alle proteste del figlio, insofferente verso una scelta – quella del collegio – che evidentemente non condivide, lo zittisce bruscamente dicendogli che sta facendo tutto questo per il suo bene. È il realismo di queste e altre situazioni, la plausibilità della violenza (che non sfocia mai in improbabili “bagni di sangue”, in gesti eclatanti) dunque, ad aver messo in allarme i benpensanti: possiamo essere tutti d’accordo sul fatto che, forse, di questo ennesimo videogame violento (ma non troppo) non se ne sentisse un eccessivo bisogno, anche se è necessario ammettere che a qualcosa è servito: a smascherare la falsa coscienza di troppi genitori che considerano la scuola alla stregua di un parcheggio, delegandole ogni responsabilità sull’educazione dei figli. Gli anni Cinquanta tra ribellione e reazione In un’ipotetica – e probabilmente interminabile – lista dei film di ambientazione scolastica, il bullismo è certamente uno dei temi più presenti: le prepotenze, solitamente ad opera di un gruppo di alunni ai danni di un proprio coetaneo diverso, disabile, o semplicemente più debole degli altri sono uno dei topoi cinematografici più usati (e abusati), anche e soprattutto per la possibilità offerta a sceneggiatori e registi di articolare le storie narrate su un conflitto diverso da quello canonico tra insegnanti e alunni. È significativo notare, a questo proposito, che il fenomeno del bullismo (o qualcosa che è possibile definire in questo modo) nelle rappresentazioni cinematografiche degli anni Cinquanta e Sessanta (i film prodotti in quegli anni ma anche le pellicole più recenti ambientate in quel periodo) è essenzialmente diretto contro i docenti, la scuola e le istituzioni in generale, costituendosi come un vero e proprio indicatore dell’impossibilità di integrazione nel sistema scolastico di quegli studenti appartenenti alle fasce sociali meno abbienti, mentre negli ultimi due decenni è il bullismo vero e proprio a venire in primo piano. Un esempio emblematico è Il seme della violenza (The Blackboard Jungle, Usa 1955) di Richard Brooks, ambientato e girato negli anni Cinquanta, film dalle ambizioni progressiste che narra le vicissitudini di un giovane insegnante pieno di buoni propositi, costretto a scontrarsi con la durissima realtà di una scuola professionale in un quartiere-ghetto di New York dove i ragazzi sono riuniti in bande che praticano regolarmente il teppismo. Sebbene non manchino sequenze in cui i bulli prendono di mira anche i propri coetanei, il conflitto al centro dell’attenzione è, ovviamente, quello tra generazioni diverse, ovvero tra docenti e allievi. In più di un’occasione, infatti, sono gli adulti a essere in balia degli studenti, umiliati, minacciati e trascinati in una spirale di violenza le cui origini risiedono in una situazione di forte disagio sociale, causata soprattutto dall’assenza nella vita dei ragazzi nati durante gli anni della guerra e cresciuti in istituti o, peggio, per strada, di una famiglia vera e propria. Una situazione, quella descritta nel film di Brooks, destinata a cambiare di lì a una decina d’anni: se Il seme della violenza metteva in scena i primi malesseri di una gioventù del tutto inetta a rivendicare la propria specificità rispetto al mondo adulto e capace solo di ribellarsi in maniera brutale, la rappresentazione di quegli stessi disagi in un film comeLa scuola della violenza (To Sir with Love, Gran Bretagna 1967) di James Clavell appare del tutto pretestuosa, priva di agganci con la realtà, trasportata com’è in una Londra che ormai da diversi anni era stata investita dalla contestazione. I giovani della seconda metà degli anni Sessanta erano infatti già molto diversi dai loro predecessori, soprattutto dal punto di vista della consapevolezza delle proprie prerogative e della propria identità generazionale, nettamente distinta da quella degli adulti. Per questo i ragazzi di La scuola della violenza appaiono come figure datate e di maniera, almeno quanto quella del giovane professore di colore che tenta di riportare l’ordine nella classe, interpretato da un Sidney Poitier passato nel giro di poco più di un decennio dal ruolo di studente ribelle (in Il seme della violenza era Miller, lo studente di colore che, nel finale, si schierava con il professore) a quello di insegnante tradizionalista deciso a tutto pur di redimere i suoi allievi. Se... (If…, Gran Bretagna 1968) di Lindsay Anderson è il film adatto per comprendere quali e quanto radicali fossero i cambiamenti in atto nel mondo giovanile verso la fine degli anni Sessanta: ancora un film inglese, tuttavia ambientato in una public school (con questo termine in Gran Bretagna vengono indicate le scuole private e a pagamento) dove il bullismo è di segno decisamente diverso, anzi opposto rispetto a quello “eversivo” dei due decenni precedenti. Gli allievi anziani del college in questo caso sono autorizzati dal corpo docente a punire anche con la violenza chiunque non si conformi alla rigida disciplina della scuola, le vessazioni quotidiane (regolate, paradossalmente da un rigido rituale) fanno parte del bagaglio di “esperienze” che ogni studente deve compiere per maturare. Se il contesto proletario di film come Il seme della violenza e La scuola della violenza rifletteva (in maniera reale o surrettizia) la delusione di un’ampia fascia della gioventù verso una società sorda nei suoi confronti, la frustrazione derivante dall’impossibilità di soddisfare ambizioni sociali spacciate per necessarie, quello altolocato di Se…accusava il pericolo dell’omologazione a una serie di regole ormai anacronistiche, la vana ricerca di un successo fine a se stesso, la totale assenza di senso di un’esistenza che, fin dalla più giovane età, era segnata da tappe prestabilite. Consapevoli della propria irriducibilità al mondo adulto, i tre ribelli protagonisti del film di Anderson, vessati dai propri colleghi più grandi, sono i rappresentanti di quel disagio tipico delle giovani generazioni figlie delle società postindustriali: non è un caso che nel grottesco finale diano vita a un’inutile rivolta destinata allo scacco aprendo il fuoco su docenti, colleghi e autorità, proprio come accade nel già citato Elephant. Più recentemente altri film hanno tentato di rappresentare contesti analoghi a quello descritto in Se…: non a caso sono ambientati nel corso degli anni Cinquanta, all’interno di scuole prestigiose dove l’ordine e la disciplina vengono affidati al mutuo accordo tra adulti e ragazzi, docenti e allievi. In Evil – Il ribelle (Ondskan, Svezia 2003) diretto da Mikael Håfström e tratto dal romanzo autobiografico di Jan Guillou edito in Italia con il titolo La fabbrica del male, viene descritto come all’interno delle scuole private svedesi permanesse una forte componente ideologica di chiara filiazione nazista. Lo scenario è analogo a quello di Se…, con la differenza non trascurabile che il nonnismo del college inglese era fondamentalmente inclusivo (le umiliazioni facevano parte di un percorso “educativo” teso a rendere tutti gli individui più forti e volitivi), mentre quello descritto in Evil si fonda sulla sistematica emarginazione e umiliazione degli elementi considerati inferiori o diversi. Uno dei fattori di maggiore interesse del film è il punto di vista adottato, ovvero quello di Erik, il protagonista, un ragazzo violento (che sfoga in risse di strada con i compagni di scuola la rabbia per i soprusi e le percosse che è costretto a subire dal patrigno) spedito, proprio a causa delle sue intemperanze, nell’istituto dove comprende quanto possa essere odiosa quella stessa violenza da lui praticata se messa al servizio di un’ideologia alla quale non è disposto a piegarsi. Singolare è, invece, il caso di Mona Lisa Smile (Usa 2003) di Mike Newell: ambientato in un prestigioso college femminile (siamo ancora negli anni Cinquanta), narra le vicende di una giovane insegnante che tenta di offrire alle proprie allieve un destino diverso da quello a cui sembrano automaticamente predestinate, ovvero rinunciare a qualsiasi ambizione professionale per convolare a nozze con uomini di successo in cerca di mogli ubbidienti e premurose. In questo caso, ovviamente, non sono le umiliazioni fisiche a dominare ma la pressione psicologica esercitata da un gruppo di studentesse particolarmente conformiste nei confronti delle coetanee che osano ambire a qualcosa di diverso dalla “carriera” di casalinghe e della giovane professoressa anticonformista: le armi utilizzate dalle studentesse benpensanti nei confronti dell’insegnante (che, del resto, non avendo molti anni in più delle sue allieve, nutre emozioni e sentimenti simili ai loro) sono quelle della delazione e del ricatto, quelle riservate alle colleghe “non allineate”, l’isolamento e l’emarginazione dalla vita sociale. In questo caso, paradossalmente, il bullismo in quanto atto teso a conservare lo status quo, si ritorce contro un docente che, tentando di instaurare un rapporto inedito con i propri allievi, incarna il ruolo del “ribelle” di fronte all’istituzione. Proprio quel ruolo riservato in passato agli studenti sottoproletari insofferenti nei confronti della disciplina pretesa da professori progressisti e agli alunni stanchi di sottostare alle regole anacronistiche dei prestigiosi istituti che li ospitavano. È da notare come, tanto questo film quanto Evil, focalizzino la loro attenzione su un momento storico cinematograficamente poco rappresentato, quello degli anni Cinquanta, determinante per la comprensione dei meccanismi sociali che caratterizzeranno la seconda metà del XX secolo, ma sostanzialmente oscurato dal decennio successivo – gli anni Sessanta – nel quale i processi di cambiamento, a lungo coltivati in seno al mondo giovanile, giunsero a maturazione in tempi e modi eclatanti. Uno sguardo retrospettivo che ha il sapore di un tardivo risarcimento nei confronti di una fase storica misconosciuta nel corso della quale vennero gettate le basi di buona parte delle conquiste consolidatesi nei decenni successivi, ma della quale restano ben poche tracce nei film dell’epoca, focalizzati interamente sull’immagine più ovvia e immediata della ribellione adolescenziale. Dalla serie di esempi appena mostrati emerge un’immagine ambivalente del bullismo: da un lato un fenomeno molto simile al teppismo, connotato da una violenza grezza e inconsapevole, sostanzialmente disorganizzata e diretta contro l’autorità (la scuola e gli insegnanti innanzitutto), dall’altro il nonnismo, un fenomeno organizzato, basato su una lunga tradizione e messo al servizio delle istituzioni, dunque consustanziale a esse. Anche se in realtà si tratta di fenomeni diversi dal bullismo vero e proprio, attraverso questi esempi si delinea il contesto culturale e sociale al cui interno si sono sviluppate le varie forme di ribellione giovanile e, contemporaneamente, come il bullismo sia stato in alcuni casi tollerato in virtù di una visione secondo cui l’iniziazione alla vita adulta dovesse passare necessariamente e forzosamente attraverso forme di violenza più o meno organizzata. Il college-movie, ovvero: sotto il vestito niente Passati gli anni Settanta – probabilmente il momento di maggiore consapevolezza per i giovani, quello in cui la protesta investe non solo il quadro dei rapporti interni al mondo scolastico ma anche quello dell’intera società – nel decennio successivo la rappresentazione dei conflitti in seno alla scuola si radicalizza sempre di più sulla direttrice interna al gruppo di pari, lasciando ormai in secondo piano gli adulti e i loro ruoli specifici (genitori, insegnanti, tutori dell’ordine). Conquistati spazi sempre più ampi di legittimità per adolescenti e giovani in seno alla società, si attenua la conflittualità con le altre generazioni nell’illusione che il disagio sia stato definitivamente metabolizzato attraverso l’inclusione di pratiche e simboli della cultura giovanile (la musica rock, l’abbigliamento casual, l’uso sempre più diffuso di droghe) all’interno della cultura di massa. Una tendenza che, parallelamente, spinge il cinema a sviluppare un’attitudine sempre più autoreferenziale: abbandonata (o quasi) ogni ambizione di raffigurare realisticamente situazioni e personaggi problematici, ci si rifugia in una serie di rappresentazioni che attingono a piene mani dai generi cinematografici più in voga – ovviamente tra i ragazzi – come l’horror, la commedia demenziale, il college-movie, il fantasy o, come sempre più spesso avviene, ibridando le caratteristiche di due o più di questi filoni per ottenere prodotti sempre più improbabili non solo sotto il profilo del realismo tout court ma anche dal punto di vista della semplice coerenza stilistica. Nella maggior parte dei casi si tratta, come è ovvio, di prodotti puramente commerciali, che non hanno l’ambizione di trattare il tema nella sua specificità e gravità: il più delle volte, anzi, l’atto di bullismo è il pretesto per dare vita a gag che dovrebbero essere divertenti, a situazioni più o meno scabrose, o semplicemente per consentire a uno dei personaggi di prendere delle decisioni inaspettate. Tuttavia, è interessante tentare di comprendere come sono strutturati questi film perché, a differenza delle poche pellicole che affrontano l’argomento tentando di denunciarne gli aspetti più odiosi, sono proprio questi i prodotti seguiti proprio dalle fasce di pubblico più giovane, quelli che “fanno tendenza”, almeno nel breve lasso di tempo durante il quale riescono a resistere su una ribalta cinematografica che rimpiazza le proprie icone con velocità vertiginosa. Prendiamo, ad esempio, lo sterminato filone di commedie studentesche (o college-movie) sorta di macro-genere di provenienza statunitense che ha affollato anche gli schermi del nostro paese soprattutto negli anni Ottanta e Novanta. Non è difficile individuare in quasi tutti questi film, sia pur attraverso la patina pesante di una comicità spesso greve e la grana grossa degli stereotipi, la rappresentazione dei meccanismi tipici di inclusione/esclusione che sono alla base degli atti di bullismo. È quasi sempre la componente femminile a essere protagonista, e questo perché il bullismo indiretto offre sicuramente molti più spunti alla messa in scena di meccanismi che riproducono in scala ridotta quelli di un’intera società, spesso raffigurata con cinico compiacimento. La scuola, del resto, è la prima forma di società con cui l’individuo viene in contatto e, specialmente nel cinema americano, essa si fa specchio più o meno deformante del vivere sociale: si tratta solo di leggere tra le righe. Il film capostipite di questo vero e proprio genere – che nel corso degli anni si è evoluto, ma in peggio – è Schegge di follia (Heathers, Usa 1989) di Michael Lehmann. Il titolo originale, Heathers, è tratto dal nome di tre perfide studentesse che costituiscono un gruppo esclusivo (nel vero e proprio senso della parola) capace di dettare legge all’interno del college attraverso una pratica sistematica della sopraffazione psicologica, di individuazione del diverso, di strumentalizzazione nei confronti di chi voglia entrare a far parte del loro “club” come, ad esempio la fragile Veronica, combattuta tra desiderio di omologazione all’ideale femminile rappresentato dalle Heathers e l’amore per JD, un ragazzo che, invece, disprezza le tre studentesse e i loro atteggiamenti da snob. Lehmann spinge all’estremo una serie di stereotipi stratificatisi nel corso del decennio precedente proprio grazie a quei film che Schegge di follia si propone di parodiare e allo stesso tempo sovvertire: le tre Heathers vestite impeccabilmente, oggetti del desiderio di tutti i ragazzi e dell’invidia delle ragazze, simboli di un successo basato sull’apparenza e sull’umiliazione dei propri coetanei meno attraenti, ricchi o brillanti, ma che dimostrano, in fondo, di essere deboli come se non più degli altri; il bel tenebroso JD, che si atteggia a ribelle ma in realtà vive in una lussuosa dimora e beneficia di tutti i vantaggi che può dargli la condizione sociale privilegiata della sua famiglia; la stessa Veronica, perennemente indecisa tra ribellione e integrazione. Nessuno dei personaggi si salva da questo caustico affresco che riesce a nascondere a stento dietro un ghigno cinico l’indignazione nei confronti di una società basata sull’ipocrisia. La forza del film di Lehmann risiede nella sua carica paradossale e grottesca capace di smascherare i vizi di una società dominata da quello che all’epoca venne definito “edonismo reaganiano”: non è certamente un caso che, dieci anni dopo Schegge di follia, le protagoniste di Amiche cattive (Jawbrakers, Usa 1999) di Darren Stein frequentino una scuola intitolata proprio all’ex presidente statunitense Ronald Reagan. Siamo, tuttavia, lontani anni luce dalla lucidità di Schegge di follia, al quale questo film si ispira sfacciatamente ma senza alcuna possibilità di avvicinarsi a esso: il solito gruppo di ragazze “di successo” (attraenti, eleganti, estroverse, probabili future donne in carriera) è costretto a cooptare una coetanea bruttina e imbranata che potrebbe ricattarle avendo assistito a un omicidio causato da una di loro. La “novizia”, diventata come le sue nuove “amiche cattive”, si vendicherà eliminandole. Se anche in questo caso possiamo parlare di cinismo non è di certo per le ambizioni politicamente scorrette e per i tentativi di ironizzare sulle situazioni rappresentate (tutti miseramente falliti), ma solo per l’impassibilità con cui il regista mette in scena le vicende attraverso uno stile a metà strada tra lo spot e il videoclip, condito con una colonna sonora pop che enfatizza qualsiasi situazione, anche la più improbabile. Col passare del tempo, i protagonisti di queste pellicole diventano sempre più ricchi e annoiati, i rampolli di una borghesia abbiente, a volte molto abbiente, come nel caso di Cruel Intentions – Prima regola non innamorarsi (Cruel Intentions, Usa 1999) di Roger Kumble, trasposizione presuntuosa, perché tagliata sul presunto gusto del target adolescenziale, di Le relazioni pericolose di Laclos. Il film costituisce probabilmente il miglior esempio di come, sotto la patina pesante di una messa in scena che ammicca continuamente al pubblico giovanile attraverso un armamentario da soap opera (ostentazione della ricchezza e degli status symbol, lotta per il potere, volti e corpi da rivista patinata, dialoghi improbabili), si nasconda in fondo il tradizionale moralismo hollywoodiano che deve vedere nel finale i cattivi puniti e i buoni ricompensati, a maggior ragione se gli uni e gli altri sono adolescenti. Paradossalmente, in tutti questi casi, il bullismo indiretto praticato dalle giovani protagoniste, sembra avere alla sua base un mix contraddittorio di perbenismo tipico di quella parte della società statunitense che esalta doti quali la bellezza, il successo, la popolarità, la capacità di conformarsi alle regole (e in alcuni casi di dettarle) e di perversa trasgressione che sfocia via via in esplicita perfidia, la cui matrice probabilmente risiede ancora in quello stesso perbenismo, segretamente affascinato più che sdegnato dalle forme eccessive di successo ed eccellenza. Non per niente, lo stesso sentimento di fascinazione/repulsione il cinema statunitense sembra nutrirlo nei confronti di una serie di figure diametralmente opposte alle ragazze di successo, anche dal punto di vista del genere, questa volta nel senso di maschile/femminile. Il college–movie si sviluppa con altrettanta prolificità anche nelle sue versioni grottesche, attraverso il filone demenziale, i cui protagonisti sono spesso i cosiddetti nerd (un termine gergale statunitense che potremmo tradurre con i nostri “sfigato” o “secchione”), ragazzini e ragazzi occhialuti, dalla carnagione brufolosa, abbigliati in maniera improbabile, perennemente carichi di libri che, puntualmente, cadono spargendosi sul pavimento dei corridoi, suscitando l’ilarità generale. Mettendo da parte il vero e proprio capostipite del genere, Animal House (National Lampoon’s Animal House, Usa 1978) di John Landis, interpretato da un sulfureo John Belushi (vero e proprio mito negativo, in tutti i sensi, di un’intera generazione), il punto di riferimento per il consueto “gioco al ribasso” costituito dallo sfruttamento intensivo di un filone fino ai confini estremi della volgarità e della stupidità attraverso una serie infinita di sequel e brutte copie è, non a caso, La rivincita dei Nerds (Revenge of the Nerds, Usa 1982) di Jeff Kanew. A dominare, in questo caso, è più che altro la repulsione nei confronti dei protagonisti e dei loro comportamenti improbabili, dei loro corpi sgraziati, unita al conseguente senso di pietà e simpatia per chi, oltre a dover sopportare il fardello del proprio aspetto esteriore e l’handicap di un’insicurezza congenita, deve confrontarsi quotidianamente con un contesto scolastico che elegge a simboli del successo i vincenti, gli studenti più atletici e popolari, dei dongiovanni in erba che fanno strage di cuori e che, ovviamente, si accompagnano alle ragazze di cui abbiamo appena parlato. Il paradosso (originato ovviamente dall’attrazione/ribrezzo di cui sopra) sta nel fatto che spessissimo la “rivincita del nerd” passa attraverso una sostanziale, sebbene imperfetta, adesione alla mentalità e al modo di vedere dello studente di successo. Certo, non ci sarebbe scontro (quindi neanche dialoghi sboccati e gag pecorecce) se gli “sfigati” non raccogliessero la sfida decidendo di riscattarsi. È solo che le armi e i sistemi attraverso i quali prendersi la rivincita sono gli stessi dei rivali più fortunati – magari resi più accettabili in virtù di una compensazione dell’handicap di partenza – e il risultato è sempre lo stesso: l’umiliazione (di certo meritata) dell’avversario e l’inevitabile successo, quasi sempre sul piano sportivo e sessuale oltre che, ovviamente, intellettuale. In definitiva, anche quando il cinema sembra voler elevare le vittime a protagonisti “esaltandone” le caratteristiche, non ha il coraggio di andare fino in fondo e decide di fermarsi a mezza strada: l’unica opzione consegnata al diverso è in pratica quella dell’omologazione, la rinuncia a ciò che lo rendeva per lo meno originale. A cavallo tra il college-movie e l’horror – l’altro genere cinematografico che si lega in maniera più diretta alle rappresentazioni del mondo giovanile e che analizzeremo tra poche righe – un altro film capostipite, Carrie lo sguardo di Satana (Carrie, Usa 1976) di Brian De Palma, che assomma tutti i topoi della commedia studentesca – la scuola, la provincia, i primi amori, i rituali tipici di questo mondo come, ad esempio, il ballo di fine anno scolastico – condensandoli in un meccanismo narrativo-rappresentativo davvero interessante. Fin dalle sequenze di apertura si delinea uno degli elementi più interessanti del rapporto contraddittorio di attrazione repulsione nutrito dalla società statunitense nei confronti della bellezza, il desiderio di standardizzazione e, allo stesso tempo, di eccezionalità che passa innanzitutto attraverso l’immagine del corpo: la macchina da presa entra negli spogliatoi dove Carrie e le sue compagne di classe si stanno lavando dopo una partita di pallavolo; attraverso il vapore sprigionato dalle docce si intravedono i corpi seminudi delle ragazze che scherzano tra loro; in un angolo Carrie, isolata dal gruppo, scopre tra le sue gambe un rivolo di sangue e, terrorizzata, si rivolge alle compagne chiedendo disperatamente aiuto. A una serie di immagini gioiosamente spregiudicate del corpo e della sessualità si contrappone l’orrore per un evento del tutto naturale: la comparsa delle prime mestruazioni è scambiata dalla protagonista per il sintomo di un male misterioso (la ragazza è stata educata all’insegna di un rigidissimo puritanesimo ed è completamente all’oscuro dei “fatti della vita”). Il gruppo – che già durante la partita aveva isolato e umiliato la ragazza a causa della sua goffaggine e incapacità nel gioco – si accanisce su Carrie, umiliandola e spaventandola più di quanto già non lo sia. Nello stesso momento, tuttavia, la protagonista scopre di possedere dei poteri soprannaturali, telecinetici, attraverso i quali nella parte finale del film seminerà morte e terrore. La concomitanza dei due eventi – scoperta traumatica della propria maturità sessuale e dei poteri paranormali – è chiaramente l’indizio di una condizione contraddittoria che sfocerà nel mostruoso: Carrie diviene al tempo stesso, vittima e carnefice, caso pietoso ed essere maledetto, individuo sessualmente maturo (dunque capace di dare la vita) e implacabile strumento di morte. I tentativi messi in atto da due suoi compagni di classe all’indomani dell’incidente per far sì che la protagonista si integri nel microcosmo sociale della scuola sono inevitabilmente destinati a fallire: essendo il frutto di un’educazione basata sul divieto, sulla colpa e sul disgusto per il contatto fisico tra i corpi, Carrie non potrà mai far parte di un mondo che mette al centro del suo universo simbolico proprio l’aspetto fisico e l’attrazione sessuale. Gli stessi poteri di cui è in possesso – capacità di spostare esseri animati e inanimati senza toccarli – sono il prodotto evidente di questa lotta contro una visione della vita tanto materiale. Se in un primo momento tali capacità soprannaturali sembrano aiutarla ad avere un’esistenza normale – riesce a sfuggire alla madre che vuole impedirle di recarsi al ballo di fine anno – quando si vedrà nuovamente schernita Carrie darà libero sfogo alla sua ira provocando una catastrofe. Carrie in definitiva è il simbolo di una società bifronte, contraddittoria, la cui cultura è in parte basata su un puritanesimo che vede nel corpo e nella bellezza il simbolo stesso del peccato e che, contemporaneamente, ha elevato lo stesso corpo a simbolo precipuo di bellezza e successo. L’horror tra omologazione ed emancipazione Nel corso della carrellata all’interno dei cosiddetti college-movie (e non solo) è emerso a più riprese come l’unica opzione a disposizione delle giovani protagoniste per poter entrare a far parte del gruppo di pari sia essenzialmente quella dell’omologazione rispetto a un modello sociale più o meno condiviso. Il film che abbiamo elevato a prototipo del genere, Schegge di follia, attraverso la sua messa in scena grottesca riusciva a sintetizzare mirabilmente questo stato di cose: non a caso le tre protagoniste portavano lo stesso nome – Heathers, appunto – si vestivano nel medesimo modo, nutrivano identiche ambizioni. È, in fondo, il pericolo delineato metaforicamente o realmente da molti film appartenenti a un altro floridissimo filone, quello del teenage horror movie (film dell’orrore con protagonisti adolescenti). Non a caso, anche qui lo scenario principale è la scuola, un’istituzione fondamentalmente democratica ma che, allo stesso tempo, è sempre a rischio di omologazione nei confronti dei giovani. In Generazione perfetta di David Nutter (Usa 1998, dal titolo originale significativo: Disturbing Behaviour, ovvero “comportamenti molesti”) il classico american dream si trasforma in un incubo della peggior specie: Steve, il protagonista, tentando di integrarsi nella scuola superiore dove si è da poco tempo iscritto, si avvicina a un gruppo di studenti riuniti in una sorta di congrega (i “Blue Ribbon”) che ha elevato l’eccellenza scolastica, lo sport, la cura dell’abbigliamento a massimi valori e depreca violentemente i comportamenti trasgressivi (a dire il vero abbastanza comuni per gli adolescenti) dei pochi studenti “irregolari”, messi per questo alla berlina, praticamente ostracizzati. In realtà, i ragazzi perfetti sono il frutto di un programma di lobotomizzazione attuato dallo staff scolastico con il benestare delle famiglie, ansiose di allevare, per l’appunto, una generazione perfetta (o quasi). Ancora una volta la pratica del bullismo si fonda su dei rigidi meccanismi di inclusione/esclusione, in questo caso portati all’estremo sia dal punto di vista delle conseguenze dirette sulla persona (la completa spersonalizzazione degli individui), sia da quello della connivenza dell’autorità con la logica dei bulli, formalmente corretti con i propri coetanei ma sempre pronti a usare la violenza con coloro che dovessero mostrarsi irriducibili verso il loro programma. Nell’universo estremo dell’horror per i “perdenti” non esistono alternative: in una società che alleva una “generazione perfetta” non c’è spazio per la diversità e l’inclusione nell’esclusivo club è un atto praticamente irreversibile, che non lascia scampo. Ancor più estremo, se possibile, The Faculty (Usa 1998) di Robert Rodriguez, un altro horror, un divertissement pieno di citazioni, la più importante delle quali è quella relativa a L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, Usa 1956) di Don Siegel, vero e proprio film di culto in cui è ancora una volta la spersonalizzazione dell’individuo a venire in primo piano. Proprio come avviene nel vecchio classico della fantascienza anche nel film di Rodriguez alcuni organismi extraterrestri tentano di impadronirsi della Terra sostituendosi agli umani, privandoli della loro volontà e dei loro sentimenti. Lo scenario è ancora una volta quello scolastico: è da un liceo di provincia che parte l’invasione e, ancora una volta, i primi a essere “spersonalizzati” e sostituiti dagli alieni sono i professori più severi e antipatici, nonché gli studenti appartenenti alla squadra di football, i più prepotenti, i bulli della scuola. Come in Generazione perfetta anche in questo caso saranno gli studenti “diversi”, non integrati in nessuno dei gruppi sociali a salvarsi e a salvare il mondo dall’omologazione e anche a vendicarsi dei soprusi subiti fino a quel momento. In questi due film e in molti altri simili riemerge il conflitto tra studenti e insegnanti (anche se l’opzione “orizzontale”, interna al gruppo dei pari resta sempre aperta), pur se in termini eccessivi, grotteschi, lontanissimi dai toni realistici propri del cinema progressista anni Cinquanta, e sempre più prossimi alle visioni apocalittiche e futuribili di certo cinema catastrofico. Una tendenza emersa già nel corso degli anni Ottanta attraverso pellicole emblematiche – in senso totalmente negativo, tuttavia – come Classe 1984 (Class of 1984, Usa 1981) di Mark L. Lester, nel quale il conflitto tra bulli e docenti mutua situazioni e personaggi dal filone “giustiziere della notte”, all’epoca molto in voga. Dopo vari e infruttuosi tentativi di coinvolgere i pochi studenti diligenti nell’attività didattica, il giovane professore di turno, colpito nei propri affetti, abbandona ogni speranza (e ogni freno inibitorio), decide di farsi giustizia da solo ed elimina i teppisti in versione punk e non più teddy boy. Anche The Principal – Una classe violenta (The Principal, Usa 1987) di Christopher Cain dimostra quanto poco ci fosse da dire sul tema del teppismo in ambito scolastico appena qualche anno dopo. Il film ricalca la struttura narrativa di Il seme della violenza (che, lo ricordiamo, è del 1955) divenuta un vero e proprio canovaccio su cui innestare poche variabili, elementi per lo più esteriori (la scuola è presidiata da agenti in tenuta antisommossa e all’entrata gli studenti devono passare attraverso i metal detector) finalizzati all’attualizzazione di un tema ormai frustro. Quasi un remake, dunque, che testimonia più che altro l’anacronismo del conflitto tra studenti e autorità venuto meno nel corso dei decenni fino a diventare uno stereotipo buono per un genere di film di carattere fondamentalmente sensazionalistico. Allontanandosi (ma non troppo) da queste visioni horror e apocalittiche, più interessanti sono altri due film ancora ambientati in ambito scolastico, opposti ma anche complementari, girati non a caso nel medesimo anno ed entrambi incentrati sul rapporto tra i giovani e l’autorità. I ragazzi della porta accanto (The Boys Next Door, Usa 1985) di Penelope Spheeris descrive la parabola autodistruttiva di due classici outsider proletari che, incapaci di integrarsi nell’ambiente scolastico essenzialmente borghese che li circonda (diversamente dagli altri, al termine del liceo li attende il duro lavoro in fabbrica), decidono di autoisolarsi attraverso il loro atteggiamento spavaldo. Fatti oggetto di forme di bullismo indiretto, esclusi dalla vita sociale, evitati dalle ragazze (alcune delle quali molto simili alle protagoniste dei classici college-movie poc’anzi descritti) decidono di interpretare fino in fondo il ruolo che è stato loro assegnato dai coetanei. In un crescendo di violenza parossistica diventeranno serial-killer animati da una furia cieca nei confronti di chi è diverso (omosessuali, prostitute, stranieri) in un paradossale tentativo di integrazione attraverso l’eliminazione di quelli che, proprio come loro, non hanno un ruolo preciso nella società. In Breakfast Club (The Breakfast Club, Usa 1985) di John Hughes, invece, è un intero gruppo di studenti a comprendere che, al di là delle maschere loro assegnate da genitori, insegnanti e compagni (ci sono lo sportivo destinato al successo, la tipica ragazza-bene, l’intellettuale complessato, il proletario ribelle, la asociale dal carattere scontroso), al di là del grado di inclusione nella o esclusione dalla vita sociale della scuola, è comunque difficile costruirsi una propria identità. Determinante è, in questo caso, la lotta comune contro l’autorità, incarnata da un preside paranoico che, per punizione, li costringe a passare un’intera giornata chiusi in biblioteca per scrivere un tema nel quale dovrebbero rispondere alla domanda: “Chi sono io?”. Dopo una prima fase di scontro aperto, con i due giovani “di successo” che tendono a emarginare i tre studenti “problematici”, il gruppo si compatta attraverso una sorta di terapia di gruppo grazie alla quale emergono insicurezze e problemi comuni a tutti, indipendentemente dall’immagine sociale più o meno vincente di ognuno. Il film, insomma, riesce a dimostrare che, proprio coloro che si nascondono all’ombra di gruppi esclusivi e tendono a emarginare gli altri, i presunti diversi, sono i più deboli, quelli che non riescono a sviluppare un proprio bagaglio identitario, se non rifacendosi a stereotipi o schierandosi dalla parte del (presunto) più forte. Spogliati dalle sovrastrutture proprie dei generi di riferimento anche i film appena citati suggeriscono una possibile lettura del fenomeno fondata essenzialmente sul rapporto dialettico tra costruzione di un’identità originale, distinta dalla massa, ma che mette il soggetto sempre a rischio di un’esclusione, e il bisogno di inclusione all’interno dei gruppi, la necessità di rispecchiamento in modelli accettati dai coetanei, la volontà di condivisione dei medesimi obiettivi. Le dinamiche perverse del bullismo – che, come abbiamo visto, sono ben rappresentate al cinema – al di là delle considerazioni più ovvie (sono il frutto di una società basata ancora oggi sulla prevaricazione più che sulla collaborazione), rivelano piuttosto una serie di processi legati alla rappresentazione – anzi, all’autorappresentazione – dell’infanzia e dell’adolescenza. L’identità del gruppo si costruisce spesso attraverso l’individuazione del diverso, dell’“altro” in opposizione al quale si stabiliscono i canoni di una presunta normalità. Al contrario, la mancata aderenza a un modello condiviso, se da un lato è un fattore emarginante, dall’altro si dimostra una fase irrinunciabile della ricerca identitaria del singolo. Fuga dai generi Gli esempi portati finora, lo si sarà notato, appartengono tutti al cinema statunitense, e questo per diversi motivi: al di là dello strapotere delle major hollywoodiane capaci di monopolizzare (o quasi) il mercato non solo con l’invadenza di una distribuzione a tappeto dei film ma anche attraverso la capacità di “serializzare” i propri prodotti nel corso del tempo per mezzo di una continua rielaborazione e contaminazione di schemi narrativi, personaggi e situazioni (tutti molto simili eppure tutti diversi tra loro), è comunque ancora quella statunitense la società alla quale si guarda per tentare di analizzare e comprendere una serie di fenomeni che, prima o poi, approderanno anche dalle nostre parti. Certo, l’immagine che giunge, specie nel caso dei film più commerciali, è rifratta e distorta, soprattutto da una serie di elementi autoreferenziali, tipici delle rappresentazioni prodotte utilizzando il filtro dei generi, attraverso un tipo di scrittura cinematografica molto elementare le cui strutture possono essere variate praticamente all’infinito, modellate sulle tendenze del momento, ma quindi anche abbastanza sensibili per costituire uno specchio dei processi realmente in atto nella società, a patto che il tutto sia sottoposto a una decodifica rigorosa. Allo stesso processo di decifrazione vanno sottomessi, sia pur in misura minore, anche quei film che si sottraggono alle regole dei generi tout court essendo prodotti di marca più autoriale, come Fuga dalla scuola media (Welcome to the Dollhouse, Usa 1995) di Todd Solondz, regista indipendente americano che ha fatto del suo sguardo “crudele” verso l’infanzia e l’adolescenza un vero e proprio segno distintivo. Il grande merito di questo film è aver legato la vicenda non a un’adolescente ma a una ragazzina poco più che bambina che sta attraversando quella fase di passaggio, “media” (proprio come la “scuola media” del titolo italiano) ancor più incerta e indefinita dell’adolescenza, un’età in cui è difficile dare la giusta dimensione agli scherzi crudeli, alle prese in giro, agli insulti, riconducendoli alle dinamiche proprie di una fase per l’appunto transitoria che, in questo modo, assumono la valenza di eventi irreversibili, capaci di segnare “per sempre” il destino di un individuo. Goffa, timida e bruttina Dawn è la vittima predestinata delle perverse dinamiche di gruppo, l’oggetto delle angherie e dei soprusi di tutti coloro che vivono attorno a lei, compresi i genitori e i fratelli. Accusata di essere “lesbica” (ha solo undici anni!) dalle compagne di scuola, scansata dai maschi che la chiamano “rospo”, quando una banda di bulli pesta un suo coetaneo, lei tenta di prenderne le difese ma viene allontanata anche da quest’ultimo, evidentemente timoroso di essere assimilato a lei. La sua esclusione dalla vita sociale risulta evidente non solo a partire da quanto detto ma anche quando, in un tentativo tanto evidente quanto disperato di ribaltare la situazione, tenta di fondare il “club delle persone particolari”, salvo rendersi conto che, proprio colui che vorrebbe includere nel suo club (Steve, il bello della scuola) non ha la minima intenzione di farne parte, dato che, secondo lui, “persone particolari” vorrebbe dire “ritardati”. Le torture subite, tuttavia, non fanno di Dawn un simbolo positivo, il punto di riferimento morale del film (né in senso etico, né, più banalmente, in senso patetico), allo stesso modo in cui Brandon, il bullo della scuola che ogni volta le promette di stuprarla “alle tre in punto”, è l’unico personaggio dal quale, alla fin fine, la ragazzina riceverà un po’ di quell’affetto e comprensione che tutti le negano. Solondz rimescola le carte, il ruolo dello zimbello e quello del persecutore (anche Dawn si vendica dei soprusi subiti prendendosela con un coetaneo ancor più debole di lei), confonde lo spettatore e, allo stesso tempo, riesce a smascherare alcuni dei meccanismi che sono alla base della violenza all’interno della scuola, facendoci intuire quel legame apparentemente insospettabile che unisce vittime e carnefici in un gioco delle parti (certo, assolutamente asimmetrico) che spesso non trae origine dai comportamenti di un singolo individuo (il bullo di turno) ma da una mentalità diffusa, dalla tacita accettazione di un’evidente ingiustizia da parte di tutti coloro che si gioiscono per non essere nei panni dello sfortunato di turno. Si potrebbe dire, addirittura, che Dawn incarni il ruolo riservato, nell’antica Grecia, al pharmakos, un individuo dall’aspetto deforme che, pur non avendo nessuna colpa, veniva abbigliato in maniera ridicola, coperto di contumelie e scacciato dalla città. Tale rituale, al di là delle specifiche funzioni legate ai cicli delle stagioni, aveva la caratteristica di individuare con certezza qualcuno che, proprio a causa della sua diversità, riusciva a rafforzare l’identità della comunità. Anche se proviamo ad allontanarci dal cinema statunitense, commerciale e non, la rappresentazione del bullismo segue dinamiche simili e, comunque, i film vanno sottoposti a una decodifica altrettanto rigorosa. È il caso del film di Paolo Virzì Caterina va in città (Italia 2003): la protagonista è ancora una ragazzina alla ricerca di una propria identità riconoscibile e riconosciuta e, anche in questo caso, l’adolescenza e il bullismo sembrano costituire l’occasione per raccontare i difetti della società adulta, nella fattispecie di quella italiana dell’ultimo decennio, non a caso priva di un’identità democratica certa. Arrivata nella capitale dalla provincia, la protagonista eponima deve confrontarsi da un lato con l’anticonformismo radical-chic, gli atteggiamenti corrucciati, l’impegno politico a tutti i costi che caratterizzano un gruppo di compagni di classe di sinistra e, successivamente, con l’adesione acritica alle tradizioni (anche quelle peggiori), la caccia spasmodica agli status symbol imposti dalla moda, l’artificiosa ricerca della spensieratezza e del divertimento che connotano l’ala conservatrice in seno alla classe. Cooptata prima da una poi dall’altra fazione, Caterina verrà emarginata da entrambi i gruppi a causa della sua irriducibilità a una serie di regole non scritte ma efficacissime per includere o escludere i propri coetanei dal gruppo. Ciò che emerge con più forza e dà da riflettere è soprattutto la capacità delle giovani protagoniste di “fare blocco”, tanto a destra quanto a sinistra, di costituire gruppi sociali compatti, dotati di veri e propri leader e di proprie regole di aggregazione basate su precisi rapporti di forza che, è presumibile, si perpetueranno in futuro nei ruoli che le stesse protagoniste ricopriranno da adulte, occupando probabilmente ruoli istituzionali. Insomma, per usare un termine divenuto molto attuale, di costituire in scala ridotta una piccola “casta”. Caterina, invece, è l’unico personaggio del film che desideri davvero costruirsi una propria identità svincolata da qualsiasi maschera o ruolo sociale e, proprio per questo, viene espulsa, sorta di corpo estraneo che, anzi, attraverso il suo timido tentativo di integrazione, non fa altro che rafforzare la forza e la coesione del gruppo. Diverso il caso di Thirteeen (Usa 2003) di Catherine Hardwicke nel quale torna lo schema dell’emarginazione prima e dell’iniziazione poi di un’adolescente timida e complessata da parte di un gruppo di coetanee più scaltre, nonché la medesima ambiguità, quel meccanismo di fascino e avversione di cui abbiamo parlato affrontando i teen movie. Thirteen è un film originale se non altro per la capacità di calarsi totalmente nella descrizione iperrealistica di quell’universo particolarmente insondabile costituito dalle ragazzine a cavallo tra preadolescenza e adolescenza, di quei riti di passaggio “necessari” per transitare da una fase all’altra, nonché degli universi familiari disgregati e sostanzialmente indifferenti verso la condizione vissuta dalle protagoniste che, proprio attraverso i loro atteggiamenti trasgressivi e disinibiti, cercano una propria visibilità. Tale originalità la si deve probabilmente anche al contributo in fase di sceneggiatura di una delle interpreti adolescenti del film (Nikki Reed): a emergere è un ritratto impietoso della cosiddetta MTV Generation delineato a partire dall’uso insistente degli stessi strumenti linguistici (riprese con macchina a mano, montaggio frenetico, musica rock e hip hop) adottati dall’emittente televisiva, implicitamente sotto accusa in quanto fonte primaria di ispirazione per le giovani protagoniste. Il film, dunque, si muove sul filo di questa ambiguità e, probabilmente, trae la sua forza proprio da questa caratteristica contraddittoria, ovvero quella di riuscire a titillare la curiosità del pubblico, soprattutto di quello adulto, attraverso gli stessi espedienti che vengono usati dal mercato per lusingare gli adolescenti. Ancora più ambiguo nel suo moto pendolare di attrazione-repulsione verso i giovani protagonisti è, poi, Bully (Usa 2001) di Larry Clark, regista con all’attivo almeno altri due film impietosi sugli adolescenti americani: Kids (Usa 1995) e Ken Park (Usa 2002, conregia di Ed Lachman). Clark è essenzialmente un moralista, come dimostra il finale del film nel quale giunge puntualmente la punizione per i “cattivi”. Già, ma chi sono realmente i cattivi, in questo caso? Marty e Bobby sono due liceali, d’estrazione sociale diversa (Bobby avrebbe la strada spianata per un prestigioso college, Marty dovrebbe continuare a fare il cameriere), che passano il tempo libero insieme combinandone di tutti i colori: si drogano, girano su un’auto sportiva a caccia di ragazze e, per pagarsi tutti gli sfizi, girano filmini porno amatoriali. Bobby, tuttavia, esercita un controllo totale su Marty: lo comanda a bacchetta, lo maltratta e lo umilia di fronte agli altri. Quando Marty si mette con Alice, la ragazza architetta un piano per uccidere Bobby. Girando attraverso uno stile finto-documentaristico in realtà studiatissimo, Clark riprende con malcelato compiacimento i corpi lisci e curati di una gioventù capace di compiere qualsiasi nefandezza in nome della necessità di formarsi un bagaglio di esperienze e piaceri il più ampio possibile, quasi si tratti di accumulare punti in un videogame, per esaltare la forsennata vitalità e, allo stesso tempo, evidenziare il vuoto e la corruzione interiore di coloro che li abitano. Prima di darsi al cinema, infatti, Clark è stato un fotografo professionista e la sua attenzione per l’immagine è assoluta: nei suoi film ritorna, aggiornato all’estetica “grunge” degli anni Novanta, lo stesso meccanismo di esaltazione/mortificazione del corpo che abbiamo già sottolineato in precedenza. Un’eccezione in questa panoramica è costituito, invece, dal film svedese Fucking Åmål (Svezia 1999) di Lukas Moodisson. Anche in questo caso si tratta di una commedia di ambientazione scolastica, ma non di un film di genere (il film di Virzì, in fondo, è una commedia di costume ricalcata sui modelli “classici” della vecchia commedia all’italiana): il regista adotta uno stile sgrammaticato, libero e per questo capace di cogliere i frammenti di una realtà come quella adolescenziale, allo stesso tempo conformista e spregiudicata, ingenua ed esibizionista. Le due protagoniste, Agnes ed Elin, sono i classici tipi oppositivi della studentessa complessata, tagliata fuori dai gruppi di coetanee “cool” e della leader capace di determinare l’inclusione o l’esclusione delle compagne di scuola dalla comitiva. In più, Agnes vive come molti suoi coetanei, un momento di passaggio durante il quale la sua sessualità si sta definendo, probabilmente in senso omosessuale, come tutti vociferano all’interno della scuola, un elemento, questo, che le preclude automaticamente l’appartenenza a un gruppo e che la espone a scherzi e ironie davvero feroci. Un po’ per scherzo, un po’ per scommessa, un po’ per curiosità, Elin, annoiata dal conformismo e del maschilismo di alcuni membri del suo gruppo, si avvicina ad Agnes, scoprendo di essere attratta da lei, innamorandosene. Ancora una volta siamo di fronte a un universo omologante nel quale, ad esempio, la trasgressione attraverso l’abuso di alcol e droghe leggere è tollerato, mentre non può essere messa in dubbio l’identità di genere: i modelli dominanti sono quelli del maschio forte e protettivo verso la sua ragazza che, invece, deve essere docile, attraente e remissiva. Agnes, con la sua sessualità incerta, probabilmente ancora in via di definizione, scompagina una serie di regole su cui si regge questo universo giovanile apparentemente disinibito ma, in realtà, privo di punti di riferimento dato che, anche in questo caso, gli adulti sono figure assenti o del tutto incapaci a comprenderli realmente. Il film riesce a fotografare con rara sensibilità una generazione come quella contemporanea con tutti i suoi tic, i suoi status symbol, i suoi modelli, mostrando quanto sia difficile per un adolescente, oggi più che in passato, sottrarsi al conformismo. Il lieto fine con relativo outing da parte delle due ragazze è originale anche perché si tratta forse di uno dei rarissimi casi in cui due personaggi riescono a rifiutare le dinamiche di gruppo, dando vita a qualcosa di nuovo per la loro età: una coppia, un nucleo basato sul confronto dialettico tra due soggetti che operano realmente una scelta (dal momento che decidono di andare contro le regole) e non sull’adesione passiva a una serie di regole omologanti. Un ulteriore elemento di originalità di Fucking Åmål è che affronta un tema come quello della scoperta da parte degli adolescenti della propria omosessualità, un campo che, solitamente, è appannaggio dell’universo maschile. È un altro luogo comune cinematografico consolidato quello che vede un ragazzo timido e sensibile fatto oggetto di scherzi feroci e pesanti ironie da parte dei compagni di scuola a causa del suo disinteresse nei confronti dell’altro sesso e della sua scarsa virilità. Siamo dalle parti di Beautiful Thing (Gran Bretagna 1996) di Hettie MacDonald, un piccolo film inglese che racconta con delicatezza le vicende di Jamie e Ste, il primo deriso dai compagni di scuola per la sua scarsa virilità e riservatezza, l’altro meglio integrato nel gruppo. I due ragazzi si scoprono, al di là dei forti pregiudizi che allignano nell’ambiente proletario dal quale provengono, entrambi omosessuali e innamorati. Il bullismo, in questo caso, non è mai ostentato come nei film di provenienza statunitense, ma resta sullo sfondo della vicenda, radicato nelle convinzioni granitiche degli adulti, praticato dai coetanei di Jamie e Ste ma visibile solo nei suoi effetti (ad esempio le frasi oscene e offensive scritte dai compagni di scuola che la madre di Jamie legge per caso sul quaderno del figlio) a sottolineare i momenti più difficili della storia d’amore tra i due ragazzi. Un primo, parziale bilancio Tirando le somme di questa lunga carrellata attraverso i film più o meno attinenti con il tema del bullismo (era necessario tentare di inquadrare il fenomeno all’interno di un contesto più ampio per metterlo in relazione con ciò che, a livello di rappresentazioni dei comportamenti giovanili, lo ha preceduto) un dato emerge con assoluta evidenza e, in qualche modo, riporta al punto di partenza, alle riflessioni che hanno aperto l’excursus: in tutte le pellicole, con alcune rarissime eccezioni, è chiara l’assenza delle figure genitoriali, non solo incapaci di accogliere e comprendere i problemi delle vittime ma anche e soprattutto di opporsi e arginare i comportamenti devianti dei carnefici. Quella conflittualità intergenerazionale messa in evidenza nei film che avevano per protagonisti ribelli, teppisti e bulli “classici” diviene progressivamente sempre più assente nelle rappresentazioni cinematografiche più o meno centrate del fenomeno. Anche se non mancano i momenti di scontro tra genitori e figli, tutto si svolge sul piano della più banale quotidianità, del tentativo di intimare divieti spesso senza che questi siano sostenuti da comportamenti consoni da parte di chi li impone, se non addirittura su quello della diretta competizione tra le due componenti in campo. Inoltre, la commistione dei ruoli all’interno del nucleo familiare è, proprio come accade nella realtà, un connotato comune a tutte la classi sociali, economicamente trasversale, globalizzata, dunque di difficile analisi, quasi impossibile da inquadrare all’interno di categorie certe. Ripercorrendo brevemente il cammino già fatto e osservando da questo specifico punto di vista alcuni dei film già citati, incontriamo genitori assenti, complici, amici, succubi dei figli, ma mai dei “semplici” genitori. L’esempio più significativo è quello di Thirteen in cui la madre della protagonista ricopre, a seconda delle fasi attraversate dalla figlia, tutti questi ruoli, quasi si trattasse anche per lei di costruirsi un’identità ma – ed è questo ciò che più lascia perplessi – in relazione ai comportamenti della ragazzina. Allo stesso tempo, come abbiamo notato in occasione dell’analisi dei film appartenenti al filone horror, la scuola si presenta in maniera sempre più forte come entità uniformante, spersonalizzante: che si tratti di extraterrestri che hanno preso il posto del personale docente per far partire da un liceo la loro conquista della Terra, di scienziati folli che vogliono cambiare le menti dei giovani soggiogandole a un ideale di perfezione o, molto più banalmente e realisticamente, di figure che si rifanno a un’ideologia di stampo conservatore fautrice dell’ordine e della tradizione, ci troviamo comunque di fronte a una serie di rappresentazioni che denunciano in maniera più o meno metaforica, più o meno grottesca, da un lato il timore nei confronti dell’omologazione prodotta da un’istituzione che sempre meno sembra capace di predisporre lo studente allo sviluppo autonomo delle proprie peculiarità, dall’altro il rischio costituito dall’incapacità della famiglia di far fronte all’educazione dei figli e dalla conseguente delega in bianco firmata proprio alla scuola per ciò che riguarda la dotazione di un bagaglio di valori etici e morali. Emblematico, come s’è visto, è il caso di Generazione perfetta e la trasformazione degli studenti nei prototipi di una futura classe dirigente priva di difetti, di dubbi e di incertezze ma anche di una coscienza che possa dirsi tale. Logico, a questo punto, che la conflittualità, fattore in ogni caso necessario al corretto sviluppo dell’identità adolescenziale e giovanile, si sposti sull’asse orizzontale, quello del gruppo dei pari: è come se, privato di quei punti di riferimento – anche e soprattutto in senso negativo/oppositivo – costituiti dai valori e dalle tradizioni legate all’universo familiare, il mondo giovanile, ormai legittimato a più livelli sul piano sociale (moda, musica, socialità, eccetera), senta sempre più spesso la necessità di costituirsi in quanto portatore e tutore di una serie di istanze simboliche che, tuttavia, non possono essere altre se non quelle diffuse dai media, in un gioco autoreferenziale di rispecchiamenti incrociati. Le letture contrastanti del mondo giovanile – spesso rappresentato come totalmente privo di valori etici e morali e, allo stesso tempo, portatore di visioni tradizionaliste e dogmatiche – sono semplificazioni che non fanno altro se non rafforzare l’immagine del bullo emersa dall’analisi di alcuni dei film, ovvero quella di un fautore dell’individualismo più spietato che, agendo all’ombra di un gruppo, applica una serie di valori sostanzialmente conformistici alle dinamiche di inclusione/esclusione nel gruppo stesso. Esemplare è il caso di Fucking Åmål, nel quale i comportamenti dei protagonisti sono improntati a una sorta di trasgressione mercificata a cui si affianca automaticamente un conformismo spietato ed escludente nei confronti di chi è diverso. Vogliamo concludere questa analisi del “bullismo cinematografico” improntata essenzialmente a una lettura di carattere sociologico, con un film che, più di ogni altro, sembra rifiutare interpretazioni (e giustificazioni) di questo genere per spiegare il male che alberga nei cuori di tutti gli uomini, nessuno escluso, anche il più giovane e apparentemente ingenuo. Il signore delle mosche (1963), tratto dall’omonimo romanzo di William Golding e portato sullo schermo da Peter Brook si distingue proprio per il fatto di condurre all’estremo le caratteristiche comuni ai film analizzati: l’assenza degli adulti e la conflittualità interna al gruppo di pari portata alle estreme conseguenze del bullismo e oltre. La storia è nota: in seguito a una guerra nucleare, un’élite di ragazzini di età compresa tra gli otto e i dodici anni viene fatta salire su un aereo per essere trasportata in un luogo sicuro. Ma l’aereo si schianta, gli adulti che li accompagnavano muoiono tutti e i giovani protagonisti devono cavarsela da soli, dal punto di vista della mera sopravvivenza ma anche da quello dell’ordinamento sociale. Se in un primo momento il gruppo decide di seguire il saggio Ralph e il suo consigliere soprannominato Piggy (un ragazzino grassoccio preso in giro da tutti) che tentano di organizzare razionalmente e soprattutto democraticamente la neonata microsocietà, in seguito la maggioranza si affida al violento Jack che, promettendo più cibo per tutti, trascina la comunità in un vortice di irrazionalità (un fantomatico mostro, avvistato da alcuni bambini, viene placato attraverso l’adorazione di una testa di maiale infissa su un palo). La situazione degenera sempre più: alle minacce perpetrate dal gruppo dei “cacciatori” nei confronti di quello guidato da Ralph si sostituiscono prima i soprusi e poi le percosse, fino a quando alcuni bambini vengono uccisi barbaramente dal gruppo di Jack. Prima che lo stesso Ralph venga giustiziato, una nave arriva a trarre in salvo i ragazzini. L’impietosa metafora (ammesso che la si possa chiamare così) sulla natura umana è fin troppo chiara: laddove l’uomo si affidi completamente al libero arbitrio, senza che vi sia un’istanza superiore che lo controlli, è destinato a regredire allo stato primitivo. Questa riflessione e il romanzo furono il frutto diretto delle esperienze dello stesso Golding, insegnante che aveva sperimentato con la propria classe di quarta elementare un’esperienza simile, allorquando, in seguito a una discussione che aveva diviso i ragazzi in due fazioni opposte, aveva potuto constatare come in sua assenza la situazione fosse degenerata fino alla rissa. Fughe nella fantasia, o meglio, nel fantasy L’ultimissima parte del nostro saggio vogliamo dedicarla a un gruppo di film eterogenei, tuttavia unti da due caratteristiche: il fatto di sfuggire alle precedenti suddivisioni per generi (college-movie, commedia adolescenziale, teenage-horror) pur non essendo estranei in tutto o in parte ad altre tipologie cinematografiche fortemente codificate, e l’avere dei protagonisti con in comune la propensione a rifugiarsi in mondi fantastici, più o meno futuribili, più o meno remoti. Se siamo riusciti a ricondurre i generi all’interno della nostra analisi, ciò è stato possibile in virtù della loro predisposizione a essere letti attraverso la lente dell’analisi sociologica, ovvero del rapporto tra produzione cinematografica e produzione di modelli, stereotipi, luoghi comuni da parte della società. Un genere che sembra aprioristicamente sottrarsi a tale ottica è, invece, il fantasy: nato alla fine degli anni Settanta e prosperato lungo tutti gli anni Ottanta, non a caso questo filone è uno dei simboli di quel disimpegno e riflusso che caratterizzarono il periodo immediatamente seguente il naufragio dei grandi ideali – soprattutto giovanili – e dell’impegno sociale e politico nati nel corso degli anni Sessanta. Una lunga fuga nella fantasia che ha conosciuto contaminazioni mitologiche e fantascientifiche dalle quali ha tratto sempre nuova linfa allontanandosi sempre più dalla realtà sociale di cui era, malgrado tutto, il prodotto. Forse è proprio per questo motivo che i protagonisti di due film tra i più interessanti di questo filone hanno la possibilità di accedere a luoghi immaginari grazie alla fervida fantasia che li caratterizza, magari aiutati da un pizzico di magia. Tanto Bastian, il bambino protagonista di La storia infinita (Die unendliche Geschichte, Rft/Gran Bretagna 1984) di Wolgang Petersen, quanto Leslie e Jess, i due adolescenti di Un ponte per Terabithia (Bridge for Terabithia, Usa 2007) di Gabor Csupo, quanto Kevin e Mawell, i due sfortunati personaggi di Basta guardare il cielo (The Mighty, Usa 1998) di Peter Chelsom, quanto infine Gordie, Chris, Teddy e Vern, i quattro amici di Stand by Me – Ricordo di un’estate (Stand By Me, Usa 1986) di Rob Reiner sono tutti vittime del bullismo, e questo spesso proprio a causa della loro grande sensibilità, della capacità di astrarsi dal mondo materiale, di ricorrere alla fantasia e alla creatività per sfuggire ai momenti cupi delle loro pur giovani esistenze, creando, da esclusi quali sono, un mondo dal quale a loro volta escludere tutti e tutto ciò che non gli piace. Si tratta, dunque, di personaggi che, per sfuggire alla dura realtà sociale (quasi mai degradata ma, semplicemente, difficile) che li circonda, fatta di prepotenze da parte dei coetanei e continui richiami all’ordine e alla “razionalità” da parte degli adulti, decidono di rifugiarsi in un mondo interiore ed esclusivo, aperto soltanto a coloro che sono in grado di immaginare e creare con la mente valide alternative alla realtà. C’è chi ha visto nel successo del fantasy un’involuzione, il ritorno a una sfera non solo privata e intima quanto, per l’appunto, esclusiva, in definitiva un estremo atto di sfiducia nei confronti della realtà sociale, considerata irrecuperabile, un moto retrogrado e – perché no? – persino reazionario (sarà un caso se Atreju, il personaggio con cui si identifica il piccolo Bastian di La storia infinita leggendo il libro che lo trasporta nel regno di Fantàsia, qui in Italia è stato mutuato come simbolo di una organizzazione giovanile di estrema destra?). Ma in tutti questi film il messaggio finale è, in realtà, molto più semplice e positivo, come del resto è normale che sia per dei film spesso tratti da romanzi per ragazzi e concepiti essenzialmente per un pubblico adolescente: grazie al bagaglio di esperienze, magari virtuali ma certamente positive, vissute nei loro mondi fantastici, i protagonisti ritornano sempre nella realtà e riescono a rivalersi dei soprusi subiti. Non troppo lontana dal fantasy, la fantascienza offre ai suoi giovani protagonisti vie di fuga se possibile ancor più improbabili, al di là degli scenari tecnologici attraverso cui si dispiega necessariamente la visionarietà delle sue rappresentazioni. In fondo, abbandonare il nostro pianeta per inoltrarsi nello spazio alla ricerca di altri mondi popolati da esseri alieni non è molto diverso dall’immaginare scenari da favola: anche in questo caso, infatti, ciò che si insegue è un’alternativa alla realtà, alla gravità (nel senso di condizione esistenziale e forza di attrazione terrestre), ricercata attraverso creatività, studio e applicazione. È proprio ciò che tentano di fare Ben, Wolfgang e Darren, i tre ragazzini protagonisti di Explorers (Usa 1985), un film di fantascienza anomalo, firmato da Joe Dante, specialista in produzioni a basso costo, che qui mette la sua inventiva al servizio di una favola astratta e surreale. Diversissimi tra loro i tre protagonisti sono, ognuno a proprio modo, degli emarginati, continuamente vessati sia sotto il profilo morale, sia sul piano fisico da un gruppo di studenti più grandi. Ben, infatti, è un sognatore, la vera guida del gruppo, Darren un teppistello fuori posto nell’ambiente piccolo-borghese che lo circonda che cerca un’alternativa qualunque essa sia, Wolfgang il classico secchione che fa le veci dello scienziato visionario. A bordo di una rudimentale navicella spaziale si inoltrano nel cosmo ed effettivamente incontrano gli alieni che, contrariamente al solito, sono simpatici e affettuosi. Ma il film fantascientifico (in realtà il genere di riferimento sarebbe quello “fantastico” con forti iniezioni di grottesco) che offre più spunti di riflessione dalla nostra prospettiva è certamente il successo di Robert Zemeckis Ritorno al futuro (Back to the Future, Usa 1985), anche perché, non a caso, riporta il discorso indietro al periodo (gli anni Cinquanta) dal quale sono partite le nostre riflessioni. Il protagonista, Marty, non è un adolescente particolarmente problematico, a differenza del padre George, un cinquantenne succube del suo principale, Biff, che attua su di lui un continuo, umiliante mobbing e della madre, una casalinga frustrata e depressa. Un viaggio indietro nel tempo fino all’anno 1955, compiuto grazie all’invenzione di un suo amico scienziato, costituisce l’occasione per rendersi conto che le cause della triste condizione vissuta del genitore risalgono ai tempi del liceo. Già a quell’epoca, infatti, Biff vessava George con scherzi crudeli e continue pretese di fronte alle quali Marty, il cui carattere è molto diverso da quello di suo padre, non può non reagire. Rimettere a posto le cose, tuttavia, non sarà facile e il rischio corso dal ragazzo sarà quello di scomparire per sempre, dato che sua madre innamoratasi di lui, sembrerebbe voler abbandonare George al suo destino. A distinguere Ritorno al futuro dagli altri film è che, in questo caso, siamo di fronte a un viaggio in una dimensione “altra” che, tuttavia, è paradossalmente la medesima vissuta dal protagonista: non viaggi nella fantasia, nel futuro o magari in un passato talmente remoto da risultare del tutto estraneo, ma giusto un passo indietro nel tempo che consentirebbe di operare per mutare il presente attraverso piccolissime modificazioni di quello che lo scienziato del film chiama enfaticamente “il continuum spazio-temporale”. Il film di Zemeckis è un apologo ottimista, figlio anch’esso del cosiddetto “reaganismo” (sia pure decisamente autoironico: quando Marty rivela a coloro che incontra nel 1955 il destino di Reagan, allora ancora attore di film di serie B, non può che suscitarne l’ilarità) e l’ottica che vorrebbe i figli capaci di aiutare i genitori (e non il contrario) perché migliori, più progrediti, “moderni”, se pur non priva di rischi (come quello dell’incesto che, in questo caso, espone il protagonista a un rischio assoluto: quello della scomparsa dalla storia) è tipica di quel tempo e attraversa tutto il film. A fronte di una serie di pellicole che, come abbiamo messo in evidenza, registrano l’assenza (o quasi) delle figure genitoriali dalla scena, la loro incapacità di arginare i bulli e soccorrere le vittime, il ribaltamento qui è totale, ma anche totalmente illusorio. Anche dal punto di vista della conflittualità generazionale – la cui assenza abbiamo ipotizzato essere alla base di un altro tipo di conflittualità deviata, ovvero del bullismo – tutto si risolve miracolosamente all’insegna di un ottimismo e di una bonarietà che, purtroppo, non sono proprio di questo mondo. Appendice Impossibile non citare, fuori dal contesto di questo saggio per la sua evidente estraneità rispetto ai materiali fin qui analizzati, Togliamoci la maschera, il video didattico curato da Elena Buccoliero e Daniela Donà, che affronta il tema del bullismo nella scuola media superiore attraverso una serie di interviste con studenti e insegnanti alternate ad un commento teatrale realizzato da un attore attraverso l’uso delle maschere. Le esperienze vere e reali degli studenti che, guidati dagli operatori del PROMECO, parlano della loro personale conoscenza del bullismo, nonché dei ruoli ricoperti all’interno delle dinamiche da esso scatenate (vittime, bulli, astanti), riuscendo in alcune occasioni a togliersi davvero la maschera all’interno di una sorta di “terapia di gruppo”, trovano un’efficace sintesi in chiave grottesca nella finzione scenica costruita attorno al tema. In questo modo emergono – sia in un caso sia nell’altro – una serie di luoghi comuni e stereotipi sul bullismo ancora molto diffusi nella mentalità di molti ma, allo stesso tempo, un’immagine insospettabile degli stessi protagonisti, la grande debolezza dei violenti e la forza di coloro che ne sono vittime.
di Fabrizio Colamartino (Cittadini in crescita n. 1, 2007, pp. 139-161)