di Sandrine Veysset
(Francia, 1996)
Sinossi
Una madre vive con i suoi sette figli – il più grande dei quali è poco più di un adolescente – in un immenso podere di campagna. Il padre dei ragazzi è il proprietario del terreno, non lesina le maniere forti nei confronti della donna e della prole e costringe la famiglia a lavorare duramente la terra.
Non dorme sotto il loro stesso tetto perché è sposato e convive con un’altra donna da cui ha avuto due figli, ormai già grandi. Che sia estate con le temperature torride e il sole cocente, autunno con le sue piogge battenti o inverno con la neve e le gelate, ogni stagione dell’anno riserva al nucleo contadino condizioni climatiche proibitive, oltre che una quotidianità emotiva e relazionale insopportabile. L’uomo picchia regolarmente i figli, senza che la madre possa fare molto per difenderli, sfrutta la loro manodopera per arricchirsi, arriva anche ad insidiare sessualmente la figlia più grande, causando nella madre una crisi profonda. Quest’ultima, a Natale, dopo i festeggiamenti e dopo aver messo a letto i ragazzi, si barrica in casa e apre il gas. Poi improvvisamente corre a spalancare le finestre e vede che è appena iniziato a nevicare. Sveglia i figli che corrono in cortile a giocare.
Analisi
Tra gli aspetti più contraddittori del fenomeno “lavoro minorile” quello svolto in famiglia, con lo stimolo e sotto la guida dei genitori, è forse il più difficile da analizzare. Difficile da definire nella sua esatta dimensione perché non sempre è facile distinguere i casi di sfruttamento da quelli di semplice “aiuto famigliare”, difficile da valutare nelle sue conseguenze perché, di fatto, la società non si prende più carico della formazione dei minorenni (se non in minima parte), demandando il momento del praticantato e della maturazione professionale ad un nucleo che non applica alcun codice a tutela dei lavoratori. Ci sarà la neve a Natale? dell’ottima esordiente Sandrine Veysset è un film che tratta, in maniera estrema cruda e diretta, le antinomie che si possono verificare all’interno di una azienda a conduzione famigliare. La realtà rappresentata è volutamente anacronistica (siamo in un tempo storico non definito, forse negli anni Settanta o Ottanta, la casa della donna e dei sette figli non ha riscaldamento, acqua calda, servizi igienici, il pater familias è stato definito dalla stessa regista l’orco delle favole, tanta è la sua crudeltà), eppure sa cogliere molti aspetti della quotidianità non solo contadina: intanto la presenza di fili invisibili che tengono le persone allacciate le une alle altre (tra la madre e il padre c’è un rapporto di odio, ma la donna non sa come allontanarsi da lui; per i figli è quasi impossibile rifiutare gli ordini del padre, indipendentemente dalla violenza che egli usa nei loro confronti); poi il legame fisico alla terra e al proprio passato che fa accettare e, in una certa misura, ricercare le fatiche del lavoro (si veda come lavorano i sette figli, con una dose non minima di accondiscendenza, nonostante il caldo dell’estate o il brullo paesaggio invernale); infine l’esigenza di avere un punto di riferimento genitoriale, qualunque esso sia (le due famiglie dell’uomo accettano con naturalezza la presenza dell’altra: meglio avere un padre crudele, sfruttatore, violento anche a mezzo servizio, che non averlo affatto). Grazie ad un profilo narrativo che rinuncia ad ogni effetto melodrammatico, che lascia in ellissi gli avvenimenti più turpi (la tentata violenza della figlia) o nello spazio del “non detto” i sentimenti dei protagonisti (per sapere cosa pensa la madre sono sufficienti alcuni intensi primi piani) e che si sofferma sulla routine banale e faticosa della vita agricola (sarchiatura dei pomodori, aratura dei campi, raccolta delle zucchine), la situazione di palese sfruttamento lavorativo non è trattata con quel tipico moralismo da film TV intento a fare apologie, prediche e sermoni. Qui avviene il contrario. Accanto a scene in cui il padre esibisce tutta la sua crudele potestà verso i figli, ve ne sono altre nelle quali i ragazzini giocano felici, vanno a scuola durante l’anno, si riuniscono affettuosamente attorno ad una figura materna presente, protettiva e capace di educarli alla semplicità; nel contempo il mondo contadino non è raffigurato nella sua ormai “classica” dimensione panica, positiva e nostalgica “per i bei tempi andati” (in opposizione alle brutture della città e della vita consumistica), ma in tutta la sua durezza e severità. Assistiamo, in altre parole, ad un racconto che non giudica, che non predica un falso realismo, ma che registra alcuni aspetti del reale che ne denudano la complessità. Il finale del film, come in pochi altri casi, sa sintetizzare le contraddizioni della realtà raccontata: la disperazione della madre – che tenta di suicidarsi con il gas come ultimo gesto d’amore verso i figli – viene appena mitigata da una nevicata che copre, attenua, ma non cancella il presente e il passato e non prospetta cambiamenti per il futuro.
Sandrine Veysset evita le secche della tragedia asfitticamente pessimista, verso le quali stava conducendo il suo film, virando bruscamente verso un epilogo che si apre sì alla speranza, ma che non corre il rischio di essere inutilmente ottimista, come se i conflitti si possano risolvere magicamente all’arrivo di Babbo Natale. Un forte respiro prima della prossima apnea.
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