Il cinema e l'abuso sui minori: quando la violenza è di casa “anche nelle migliori famiglie”
Premessa
“Un adulto infelice può ricominciare la vita altrove, può ripartire da zero, un bambino infelice nemmeno lo pensa: sa di essere infelice ma non può dare un nome a questa infelicità. Soprattutto dentro di lui non può mettere in discussione i genitori o gli adulti che lo fanno soffrire: un bambino infelice si sente sempre colpevole...”. Con questo discorso alla sua classe, il maestro Richet, protagonista del film di François Truffaut Gli anni in tasca (1976), spiegava ai propri alunni perché uno di loro, il piccolo Julien, fosse stato sottratto dai servizi sociali alla madre che lo sottoponeva a maltrattamenti e percosse. È un lucido atto d’accusa verso il mondo degli adulti, spesso insensibile alle necessità dei bambini o colpevole delle più assurde brutalità nei loro confronti, una denuncia dell’abuso sui minori che illumina i meccanismi innescati dalla violenza domestica. Ciò che Truffaut dichiara a chiare lettere con Gli anni in tasca era sottinteso già nei Quattrocento colpi (1959): lì, l’adolescente Antoine Doinel non era vittima di violenze fisiche come quelle subite da Julien (proveniente da un ambiente intrinsecamente a rischio), bensì di un abuso molto più sottile, nascosto tra le pieghe dei comportamenti di due genitori di estrazione piccolo-borghese apparentemente normali. La scelta di un contesto familiare comune, medio, è uno degli elementi che contribuiscono a fare ancora oggi dei Quattrocento colpi uno dei film che meglio rappresentano quanto sottile possa essere la linea che separa l’abuso propriamente detto da comportamenti e atteggiamenti apparentemente non ascrivibili alla sfera del maltrattamento vero e proprio ma comunque lesivi dello sviluppo psicologico di bambini e adolescenti, e quanto difficile sia, inoltre, individuare l’abuso che nasce all’interno di realtà apparentemente normali. Con questo percorso di visione si tenterà di smentire attraverso l’analisi di una serie di film a soggetto alcuni tra i luoghi comuni più diffusi sulle varie forme d’abuso ai danni di bambini e adolescenti. Indicare la famiglia come coacervo di tensioni che sfociano nella violenza contro i suoi membri più deboli è funzionale a smentire la rappresentazione di tali fenomeni veicolata dai mass-media, che troppo spesso ci presentano l’abuso sul minore (ad esempio, la pedofilia) come pratica esclusiva di chi è affetto da gravi patologie mentali. È una sorta di esorcismo attraverso il quale la società rifiuta di analizzare un fenomeno che, al contrario, caratterizza i comportamenti di molte persone considerate normali, spesso proprio quelle affettivamente più vicine al bambino e che, per questo, producono i danni maggiori sul minore che non riesce a individuare l’abuso perché lo vive come una condizione normale, connaturata alla propria vita familiare. Verranno presi in considerazione, inoltre, una serie di film nei quali il contesto sociale non costituisce uno dei fattori determinanti dell’abuso. Ancora oggi, infatti, è convinzione diffusa che esista un legame diretto tra degrado sociale, svantaggio economico e abuso: se tale affermazione può essere parzialmente vera per il maltrattamento fisico, lo è sicuramente meno per l’abuso sessuale e certamente falsa per il maltrattamento psicologico. L’abuso intrafamiliare è, infatti, un fenomeno trasversale, indipendente da fattori quali il reddito, il titolo di studio o la professione dei genitori, e le cui ragioni sono da ricercare oltre la posizione sociale della famiglia, nelle dinamiche interne alle coppie e nei loro sistemi di relazione spesso incerti e problematici...
Il maltrattamento fisico e le molteplici forme di abuso psicologico
Al maltrattamento fisico verrà dedicata solo una piccola parte di questa panoramica sul cinema e l'abuso sui minori. A parte la difficoltà di individuare film che non vincolano questa odiosa pratica a contesti sociali degradati, un ulteriore elemento che ha determinato la scelta è che il maltrattamento fisico spesso costituisce solo la manifestazione più esteriore di forme di maltrattamento altrettanto gravi ma decisamente più difficili da individuare, terreno principale sul quale si muoverà la nostra analisi. Una delle rare pellicole che assumono come tema centrale delle vicende narrate il maltrattamento fisico di un bambino è El bola(2000) di Achero Mañas , un film da molti accostato alla già citata pellicola di Truffaut I quattrocento colpi . Anche in questo caso, infatti, la macchina da presa indaga dietro la facciata rispettabile di una famiglia borghese, quella del piccolo Pablo, il padre del quale tenta di imporre la propria autorità malmenando e umiliando regolarmente il figlio. La famiglia, lo spazio domestico in questo film sono, proprio come accade nella realtà, gli alvei in cui irrompe quella violenza (qui probabilmente originata dalla frustrazione per la perdita del primogenito) che non si vuole emerga all'esterno. Al modello di famiglia tradizionalista di Pablo (sintomatica la presenza di una madre totalmente incapace di opporsi al dispotismo del pater familias ), Mañas contrappone quella di Alfredo, compagno di classe del protagonista, il cui padre, attraverso l'osservazione attenta ma mai invadente dei comportamenti del figlio, lo educa a essere libero diventando responsabile. È proprio l'anticonformismo dei familiari di Alfredo a imporsi come antidoto per una visione tetragona dell'esistenza che, ovviamente, riduce la famiglia a un coacervo di tensioni sempre pronte a esplodere in scatti di inaudita ferocia. Se nel caso di El bola i malesseri del nucleo familiare prorompono con violenza portando allo scoperto conflittualità e disagi più o meno gravi (che, prima o poi, possono essere denunciati, proprio come accade nel film), in moltissimi altri casi, al contrario, la violenza (o, più semplicemente, l'indifferenza) assume i contorni del maltrattamento psicologico che spesso si esplica attraverso un atteggiamento eccessivamente critico, svalutazione, denigrazione. Dal cinema statunitense dell'ultimo decennio possiamo trarre alcuni ottimi esempi: si va da Matilda 6 mitica di Danny De Vito (1996), nel quale all'eroina eponima, precocissima lettrice dall'animo sensibile, viene negata la possibilità di studiare da una coppia di genitori superficiali e materialisti, a Fuga dalla scuola media (1996) di Todd Solondz , che vede la dodicenne Dawn (sgraziata, non molto intelligente e per giunta antipatica), ignorata dalla famiglia che riversa tutte le attenzioni sulla sorella minore, divenire il simbolo dell'adolescenza che reclama comunque – e con diritto – il bisogno di sentirsi amata e protetta. Non è un caso che entrambi i film siano commedie grottesche che lasciano l'amaro in bocca rivelando il vero volto di una società in cui la famiglia è il primo tassello di quel processo di riduzione della personalità e alienazione da se stessi che spesso incomincia proprio durante l'infanzia. Questi due film, ambientati all'interno di realtà sociali solidamente borghesi, dimostrano come le tante forme che può assumere il maltrattamento psicologico siano molto più insidiose di quello fisico perché integrate all'interno di dinamiche familiari consolidate e apparentemente normali. In questo caso, il confine tra abuso vero e proprio e comportamenti a rischio si fa incerto, a volte arrivando a rasentare l'ambiguità: paradossalmente, anche un atteggiamento iperprotettivo può sfociare nel maltrattamento nel caso in cui impedisca, ritardi o distorca il percorso evolutivo del bambino o dell'adolescente. Si pensi a Il giardino delle vergini suicide (1999) di Sofia Coppola , nel quale viene rappresentata con un senso di distacco raggelante (raggiunto grazie a una raffigurazione iperrealistica della provincia statunitense degli anni Settanta) la storia emblematica di cinque sorelle adolescenti letteralmente soffocate dal perbenismo dell'ambiente che le circonda e dalla rigida educazione cattolica dei genitori. La preoccupazione legittima di difendere i figli dai pericoli del mondo si amplifica a dismisura nell'ossessione della madre per la “purezza” delle cinque ragazze, divenendo vera e propria psicosi nei confronti di un contesto sociale preoccupato per le apparenze, sempre pronto a emarginare chi è diverso (anche le giovani protagoniste del film, “diverse” proprio perché di una bellezza talmente “pura” da non doversi curare delle apparenze) fino all'esito fatale ampiamente prevedibile. Altrettanto oppresso da un ambiente familiare soffocante è Matteo, l'adolescente protagonista di Autunno (1999) di Nina Di Majo . Stretto tra un padre indifferente e la madre, una donna frustrata dai tradimenti del marito che scarica la propria delusione curando maniacalmente l'arredamento della sua casa-museo, Matteo soccombe a questa atmosfera oppressiva e castrante, fino a immaginare di sopprimere i genitori. Attraverso pochi tratti essenziali la regista delinea la sensazione di soffocamento provata dal giovane protagonista che sembra subire allo stesso modo tanto i soprusi della madre iperprotettiva e dispotica quanto la presenza delle suppellettili di casa tra le quali si aggira spaesato, vere e proprie emanazioni della donna. Un'ulteriore forma di abuso psicologico “metabolizzato” all'interno di meccanismi apparentemente sani, che possono essere addirittura scambiati per manifestazioni di sollecitudine, è quello che porta un genitore a prestabilire il futuro del proprio figlio, concentrando su quest'ultimo aspettative troppo grandi o comunque diverse dalle reali aspirazioni del ragazzo. A volte tale processo porta a un vero e proprio sfruttamento del minore negli ambiti più diversi, mettendolo spesso sotto i riflettori di una notorietà voluta e cercata esclusivamente dagli adulti. Emblematico il caso narrato in Shine (1996) di Scott Hicks , ovvero quello di David Helfgott, celebre pianista australiano vittima di un padre che vede in lui la possibilità di riscattare la mediocrità della propria vita. L'ossessione del genitore diventerà vera e propria malattia mentale per David, perseguitato dal Concerto numero 3 di Rachmaninov, vera e propria “bestia nera” di ogni pianista, che il padre lo costringe a eseguire fin da bambino senza lesinare quanto a insulti, minacce e percosse, per dimostrare al mondo il talento del figlio. Lo stesso tema è presente, in chiave completamente diversa, anche in Bellissima (1951) di Luchino Visconti , melodramma satirico sui falsi miti del cinema ambientato durante gli anni Cinquanta. Il personaggio della madre interpretato da Anna Magnani, non esita a esporre la figlioletta a pesanti umiliazioni (la bimba non possiede nessuna dote artistica che ne possa fare una promessa del cinema) pur di perseguire una propria personalissima illusione di successo e affrancarsi da un'esistenza onesta ma limitata. Altre volte, invece, i genitori possono essere un freno (o addirittura la tomba) delle legittime aspirazioni dei figli: è ciò che accade in L'attimo fuggente (1989) di Peter Weir , nel quale un adolescente con la vocazione per il teatro si scontra con un padre ossessionato dall'ordine e dalla disciplina. L'esito tragico del conflitto (il ragazzo, troppo sensibile per accettare le umiliazioni cui lo sottopone il padre, si suicida) risalta ancor di più sullo sfondo della fine degli anni Cinquanta (la contestazione giovanile è ancora lontana) in uno dei migliori college statunitensi nel quale viene educata la futura classe dirigente americana. Singolare e opposto è, invece, il caso narrato in L'uomo senza volto (1993) di Mel Gibson , dove, nello scenario della contestazione alla guerra del Vietnam, un ragazzino orfano di padre trova in un ex docente universitario accusato di pedofilia la guida che lo aiuterà a superare gli esami per entrare all'accademia militare di West Point, coronando così il sogno di servire la nazione. Tutto ciò in barba (o, più probabilmente, per reazione) a una madre vicina agli ambienti della sinistra pacifista che ne frustra le ambizioni convincendolo di avere delle tare ereditarie (il padre era morto in manicomio) e denigrandolo a causa dei suoi problemi di apprendimento. I film finora analizzati forniscono una serie di esempi di genitori che, a volte animati dalle migliori intenzioni, costringono i propri figli a conformarsi a un'immagine ideale dettata di volta in volta dal credo religioso, dal conformismo sociale, dai miti illusori creati dallo star-system. Si tratta di figure ossessive, troppo esigenti, che trasmettono al bambino l'idea di comportarsi in maniera immorale, di non essere all'altezza delle situazioni, di valere poco rispetto ai coetanei. Altrettanto nefasti sono gli effetti del disinteresse dei genitori verso i figli all'interno di situazioni familiari che, se non coincidono con il vero e proprio abbandono, lo rasentano pericolosamente. Il cinema si è spesso soffermato su questa forma di maltrattamento (o, meglio, di “patologia delle cure” nelle due forme specifiche dell'incuria emotiva e della discuria) affondando il dito in una piaga socialmente trasversale. Tra i registi italiani più attenti a questo fenomeno e alla sua versione borghese, oltre al Vittorio De Sica di I bambini ci guardano (1944), un film fortemente osteggiato dal fascismo proprio perché dava della borghesia italiana (base del consenso al regime) un'immagine debole ed egoista, c'è sicuramente Luigi Comencini , autore di film come Voltati Eugenio (1980) e Incompreso – Vita col figlio (1966). Si tratta di due pellicole diversissime (la prima è una commedia dai toni agrodolci, la seconda un melodramma sentimentale), eppure entrambe descrivono le storie di due bambini i cui genitori, oltre a dimostrarsi poco disposti a fornire un adeguato sostegno emotivo e affettivo, pretendono da loro comportamenti che non corrispondono a quelli della loro età. Si pensi alle continue allusioni dei genitori di Eugenio (due ex contestatori mai divenuti adulti) alla “maturità” del figlio, alla sua capacità di adattarsi a ogni situazione, a rinunciare a quanto gli era stato promesso, in barba al bisogno di stabilità del ragazzino, sballottato tra nonni, genitori, amici sempre pronti a liberarsene; oppure alle pretese del padre di Andrea (in Incompreso – Vita col figlio ) che fa appello più volte al senso di responsabilità del figlio affinché funga da esempio per il fratello minore Milo. In quest'ultimo caso, all'indomani della morte della madre il protagonista viene letteralmente abbandonato a se stesso dal punto di vista emotivo dal padre che riversa tutte le sue attenzioni e il suo affetto sul figlio minore, salvo accorgersi, al capezzale del primogenito morente, del tragico errore commesso. Un adolescente che invece sa (e soprattutto vuole) bastare a se stesso, rinunciando alle “cure” affettive e materiali dei genitori, è il protagonista del film di Francesca Archibugi L'albero delle pere (1998), una figura che ha alcuni tratti in comune con l'Eugenio di Comencini: evitando tanto i toni patetici quanto quelli da film di denuncia, la regista mette in scena il faticoso percorso di liberazione del ragazzino dalle presenze distratte degli adulti che gli gravitano attorno (la madre, il padre, il patrigno), ancora una volta appartenenti a una generazione che vive i propri fallimenti (o i propri presunti successi) come un'esperienza estetica, fidando eccessivamente sulla maturità dei propri figli. A fronte di genitori che potremmo definire distratti o superficiali, ben peggiore è la situazione di quei bambini e adolescenti che fungono da veri e propri “parafulmini” o “spugne” dei malesseri di un'intera famiglia, assumendo, loro malgrado, la funzione di capri espiatori di un disagio che spesso non appartiene loro. Si tratta di situazioni difficili da scardinare perché divenute croniche col passare degli anni, radicatesi nel tessuto stesso delle relazioni che legano i membri del nucleo familiare. A un'insufficiente sostegno emotivo e a una scarsa attenzione alle sue reali esigenze, in questo caso si somma un atteggiamento di individuazione e colpevolizzazione (del tutto arbitraria) del minore in quanto portatore esclusivo del disagio familiare. Nel suo film del 1971 Family Life, il regista inglese Ken Loach sembra indicare proprio nella famiglia il nucleo d'origine della schizofrenia di Janice, la giovane protagonista delle vicende narrate, attraverso uno stile semidocumentaristico dai toni aspri e volutamente sgradevoli. Costretta ad abortire dai suoi genitori di estrazione piccolo borghese, quando inizia a dare segni di squilibrio, Janice viene affidata alle cure del dottor Donaldson, uno psichiatra che individua nella frustrazione del padre e nel conformismo della madre le cause della malattia. Sono tuttavia le istituzioni sociali nel loro complesso a essere messe sotto accusa da Loach nella seconda parte del film, quando i dirigenti della clinica dove opera Donaldson, dopo aver licenziato il medico, procedono all'ospedalizzazione della paziente (con il pieno consenso dei genitori), decretandone l'irrecuperabilità. Per il regista è la società nel suo complesso a individuare, in maniera del tutto arbitraria, negli individui più deboli e sensibili i propri disagi isolandoli all'interno di strutture adeguate più alla repressione che alla cura della malattia. Se attraverso il suo film Loach voleva smascherare i meccanismi sociali che producono la malattia mentale, in Diario di una schizofrenica (1968) Nelo Risi tenta di narrare scientificamente un caso clinico che ha per protagonista una diciassettenne di estrazione alto-borghese, anch'essa schizofrenica, affidata alle cure di una tenace psicoterapeuta. All'origine della malattia della ragazza c'è il rifiuto della sua nascita da parte dei genitori, entrambi assorbiti da impegni lavorativi e mondani, nonché il confronto con la sorella minore, accolta amorevolmente proprio perché nata quando la presenza di figli all'interno della famiglia era stata ormai accettata. Speculare alla vicenda narrata in Diario di una schizofrenica , è quella di Gente comune (1980), film d'esordio alla regia di Robert Redford , ambientato tra la ricca borghesia wasp . In questo caso il giovane protagonista diviene il capro espiatorio scelto dalla madre sul quale scaricare la colpa per la morte del fratello maggiore. Anche qui la figura dell'analista è determinante per la guarigione: se nel film di Risi la psicoterapeuta era costretta a sostituirsi alla madre per risalire al trauma originario della paziente e riparare agli errori commessi dalla famiglia, in Gente comune è lo psicologo che prende in cura il ragazzo ad adottare un comportamento paterno e al tempo stesso risoluto nei confronti della madre che, soltanto nel finale, il padre decide di assumere chiedendo il divorzio.
L’incesto: al cinema tra scandalo e denuncia
I film finora analizzati ci hanno aiutato a illustrare la mancanza di sostegno emotivo e la carenza affettiva come basi del tipo di maltrattamento più diffuso: si è trattato di una vera e propria discesa agli inferi che ci ha portato dai comportamenti iperprotettivi alla strumentalizzazione, dalla grave trascuratezza emotiva alla riduzione del minore a portatore del malessere dell'intera famiglia. L'ultimo tratto del percorso riguarda l'abuso sessuale, una pratica che implica tanto l'uso della violenza fisica (intrinseca all'atto stesso) quanto quella psicologica, e che potrebbe essere definito come una sorta di scambio affettivo distorto e morboso. Infatti, laddove nei casi precedenti prevale la carenza o persino l'assenza di sentimenti, qui abbiamo un'aberrazione degli stessi: la violenza da parte dell'adulto consiste anzitutto nel permettere che l'atto sessuale abbia luogo anche laddove il minore possa apparire consenziente. Da questo punto di vista sono decisamente fuorvianti quei film che presentano i rapporti sessuali consumati tra madre e figlio come una sorta di “incesto minore”, ovvero come un atto se non proprio ammissibile, per lo meno tollerabile. È singolare, ad esempio, che sia in La luna (1979) di Bernardo Bertolucci , sia in Soffio al cuore (1971) di Louis Malle, l'incesto tra madre e figlio avvenga in un ambiente altoborghese, circonfuso da un'atmosfera estremamente raffinata (poco importa se, allo stesso tempo, disperata o spensierata) e, soprattutto, che tali film suggeriscano una sorta di effetto traumaticamente benefico sul minore, che in questo modo si emanciperebbe da ansie e timori. È comunque vero che anche dal dato statistico emerge come l'incesto sia un fenomeno riconducibile prevalentemente a figure di maschi adulti con un ruolo paterno (dunque anche patrigni o parenti più o meno stretti) che abusano sessualmente di bambine o adolescenti. In questo caso gli esempi forniti dal cinema sono molteplici, a partire daLolita (1962), il celebre film di Stanley Kubrick tratto dal romanzo di Vladimir Nabokov, una pellicola che, al di là del suo valore metaforico (la relazione tra il maturo docente francese Humbert Humbert e l'adolescente Lolita è una rappresentazione grottesca dei rapporti tra due culture, europea e statunitense), a un primo livello di lettura riesce anche a individuare quei meccanismi innescati dal genitore incestuoso per vincere le resistenze della sua vittima (le minacce psicologiche, la colpevolizzazione o, al contrario, il ricorso ai doni), dato che, molto raramente l'adulto ricorre alla violenza fisica per ottenerne il silenzio. Il film di Kubrick, comunque, documenta molto più fedelmente i tormenti dell'adulto incestuoso che i danni causati nell'adolescente (anche se lascia allo spettatore la possibilità di immaginarli), senza tuttavia adottare mai un punto di vista morboso, suggerendo le situazioni più scabrose senza mai scadere nell'osceno. In un ruolo molto più defilato, il rapporto incestuoso tra un padre e la figlia compare anche in Il dolce domani (1997) di Atom Egoyan : in questo film corale su una piccola comunità montana i cui bambini muoiono tutti in un incidente stradale, l'incesto tra l'unica sopravvissuta alla sciagura, l'adolescente Nicole, e suo padre, rappresenta l'innocenza perduta per sempre (da parte della ragazzina e della comunità, lacerata al suo interno dalla disgrazia) e l'impossibilità di ricostruire quanto è stato distrutto (l'uomo vorrebbe, dopo che la figlia è rimasta paralizzata a causa dell'incidente, avere con lei una relazione affettiva normale ma deve arrendersi di fronte all'evidenza dei fatti). Decisamente centrale è invece il tema in Zona di guerra (1998), che, più di tutte le altre, sembra la pellicola capace di descrivere l'evoluzione delle dinamiche interne al nucleo familiare di fronte a questa forma d'abuso. I dialoghi ridotti all'osso, la narrazione risolta attraverso il gioco essenziale di quattro personaggi (padre, madre, figlio, figlia), la sobrietà della messa in scena (che non si compiace della violenza pur senza nasconderla), il paesaggio aspro, stretto tra gelide brughiere e scogliere battute dal vento, sono i punti di forza di un esordio dietro la macchina da presa straordinariamente maturo dell'attore Tim Roth . I toni cupamente realistici dati alla rappresentazione non impediscono alle quattro figure del racconto di incarnare alla perfezione i ruoli di quell'assurdo e inconscio gioco delle parti innescato da questa forma d'abuso frutto di un malessere di cui soffrono tutti i familiari, spesso conniventi della violenza. Il parricidio compiuto dal figlio minore non riesce ad assumere, così, un valore catartico, di rigenerazione e purificazione del nucleo familiare dal male, ma è solo un gesto disperato, quello di chi non vede via d'uscita da un orrore senza soluzione di continuità. Ken Park (2002) di Larry Clark ed Ed Lachman è un vero e proprio campionario dei vari tipi di abuso (fisico, psicologico e soprattutto sessuale) ai danni dei minori: ciò che colpisce maggiormente di questo film (che non evita di rappresentare la crudezza e lo squallore di una realtà quotidiana sana solo all'apparenza) è che i giovani protagonisti, tutti appartenenti alla piccola e media borghesia statunitense, non vengono presentati come vittime indifese, ma neanche, univocamente, come piccoli mostri prodotti dalla violenza familiare. Paradossalmente, proprio i tre ragazzi sottoposti a varie forme di abuso sessuale (Shawn è il “giocattolo erotico” della madre della propria fidanzata, Peaches è costretta a purificarsi fingendo di sposare il padre, un fanatico religioso che l'ha sorpresa a letto con un coetaneo, Claude ha un genitore manesco che prima lo umilia accusandolo di essere effeminato e poi tenta di introdursi nottetempo nel suo letto) riescono a vivere il sesso come un'esperienza pura, priva di quei risvolti oscuri e morbosi che ha nel mondo degli adulti, praticandolo liberamente, con gioia. Anche questa emancipazione dalle brutture del mondo, tuttavia, non basta a evitare che tutto, compresi i tre giovani protagonisti, restituisca un'immagine vuota e desolante di un universo che, se non è totalmente degradato, ha perso completamente di vista ogni punto di riferimento, più che morale, esistenziale. Un film che invece sa come fondere in un tutto unico armonioso la triste realtà dell'abuso e i simboli onirici collegati a tale traumatica esperienza è, invece, Victor... (1998) di Sandrine Veysset , la regista francese già dimostratasi sensibile al tema dell'abuso all'interno del nucleo familiare con il toccante Ci sarà la neve a natale? (1996). L'incontro tra il decenne Victor, fuggito di casa dopo aver accoltellato il padre che lo costringeva ad assistere ai suoi amplessi con la madre, e Triche, una prostituta che ancora porta dentro di sé i segni dell'incesto, sfugge a ogni cliché narrativo (l'abuso non viene mai mostrato ma soltanto raccontato) e si trasforma in riscoperta del proprio passato negato per la donna e in progressiva presa di coscienza del proprio ipotetico futuro da parte del bambino. La nuova famiglia che viene a formarsi al termine del film (Triche prenderà con sé il bambino definitivamente) non è un quadretto consolatorio a uso e consumo di un lieto fine fasullo (a dispetto del paesaggio innevato, da cartolina, su cui scorrono i titoli di coda), bensì il frutto di un faticoso percorso di emancipazione dai falsi sensi di colpa e dalle spinte autodistruttive di entrambi i personaggi. È per lo meno significativo che, tra tutte le storie fin qui incontrate, l'unica davvero a lieto fine sia questa, con una famiglia del tutto inedita prodotta dall'incontro tra due vittime della violenza domestica, basata sul rifiuto di ogni forma di riconciliazione con il proprio doloroso passato.
di Fabrizio Colamartino (Cittadini in crescita n. 3, 2004, pp. 233-250)