di Olivier Assayas
(USA, 2004)
Sinossi
Dopo la morte del suo compagno, la rockstar in declino Lee Hauser, a causa di una partita di droga tagliata male, Emily, una donna di origini asiatiche, anch’ella tossicodipendente e con un passato nel mondo dello spettacolo, cerca di ricostruirsi una vita, principalmente per riavere in affidamento il figlio Jay, lasciato ai nonni paterni poco dopo la sua nascita, otto anni prima. Dopo essere uscita dal carcere (era stata arrestata perché accusata di aver fornito la dose letale a Lee), Emily fugge dal distretto industriale di Hamilton (Canada) e si reca a Parigi dove, ottenuto un lavoro come cameriera, fatica a ritrovare un po’ di stabilità. Sono troppo poche le forze che le restano dopo le cure di metadone e troppo grande il vuoto lasciato dalla morte del compagno per rinunciare alla tentazione di ricadere nel tunnel della droga. Nel frattempo, i genitori di Lee, Albrecht e Rosemary, oltre a doversi occupare del piccolo Jay, devono affrontare la malattia, probabilmente mortale, della stessa Rosemary. Anche per questo motivo Albrecht – che dopo la morte di Lee aveva invitato Emily a restare il più lontano possibile dal figlio – riallaccia segretamente i rapporti con la donna. L’incontro con Albrecht e la prospettiva di passare un weekend con il figlio spingono Emily a cercare una nuova via d’uscita da un’esistenza sofferente e confusa: accetta un nuovo lavoro come commessa in un grande magazzino, rifiuta la proposta di incidere un disco a San Francisco, pur di riabbracciare il figlio. Quando incontra finalmente Jay a Parigi (condotto dal nonno da Londra, dove Rosemary è stata ricoverata), Emily si trova davanti un bambino che le attribuisce la responsabilità della morte del padre, ma che è altresì piacevolmente sorpreso dalla sua estrema sincerità. Potrebbe portarlo con sé a San Francisco (è lo stesso Jay a domandarglielo) ma preferisce riconsegnarlo al nonno, per permettere alla nonna malata di passare un po’ di tempo con il nipote prima della sua morte.
Introduzione al Film
Pulito Il film si apre con una serie di immagini del distretto industriale di Hamilton: ciminiere, centrali elettriche, nebbia, fumi, stabilimenti petrolchimici. È il paesaggio contemporaneo, fotografato con una pellicola leggermente sgranata che esalta i colori freddi, il grigio, il nero, le tonalità del blu. È il paesaggio interiore della protagonista, di Emily, presentata da subito allo spettatore – mentre litiga con il produttore discografico del marito, colpevole, a suo modo di vedere, di svendere i diritti delle sue canzoni – nel suo aspetto più antipatico, più sferzante, più insopportabile. Inoltre, la donna non è esente da responsabilità per la scomparsa del compagno: gli ha procurato la droga (anche se il passaggio narrativo non è chiaro) e, dopo l’ennesimo litigio, lo ha abbandonato a sé stesso, proprio la notte in cui morirà di overdose. Il processo di catarsi che consente ad Emily di riavvicinarsi al figlio incomincia, quindi, nel modo cinematograficamente più tradizionale: la droga come scoria fisica e simbolica da eliminare (il termine Clean, ossia “pulito”, può indicare, anche in inglese, sia le persone perquisite e prive di droga sia gli ex-tossicodipendenti), la morte di un amico/compagno/parente come evento potenzialmente rigenerativo, il viaggio come primo passo verso la rinascita. Nondimeno, Olivier Assayas, ex critico cinematografico dei Cahiers du Cinéma e quindi grande conoscitore di cinema, invece di tirare i fili tradizionali del melodramma, asciuga il racconto da ogni sussulto emotivo o retorico e cristallizza la situazione di partenza, rinunciando a qualsiasi progressione narrativa che porti, lentamente, Emily tra le braccia del figlio. Chiede a Maggie Cheung – sua ex moglie e celebre attrice di mélo hongkonghesi – di annullare ogni carica erotica e ogni fascino esotico dalla sua recitazione e dal suo make-up per incarnare un’artista tossicodipendente priva del fascino maledetto che solitamente emanano le star in declino; sembra suggerire a Nick Nolte di esprimersi più con le rughe che con le parole (nella versione originale si possono “assaporare” i toni bassi, soffusi e caldi toccati dalle sue corde vocali), e di portare in scena un personaggio sensibile e severo al tempo stesso. Il cineasta si affida pertanto solo alla macchina da presa (sempre a spalla, sempre in movimento, sempre in cerca di penetrare la superficie degli oggetti e delle persone), agli ambienti “acustici” (la colonna sonora ha la stessa importanza della colonna video) e ad un montaggio antiritmico per alterare qua e là il refrain monotono della storia e per preparare pazientemente l’atteso e, insieme, improvviso incontro tra Jay ed Emily. Se il film diventa poco per volta un inno alla possibilità umana di cambiare, di recuperare dagli errori del passato, di invertire la rotta rinunciando all’autodistruzione, il merito è da attribuire quasi esclusivamente all’atto di fiducia che Albrecht ripone nella donna, consentendogli di rivedere Jay. Le parole dell’uomo – ad un certo momento del film, in un caffè, rivolto a Emily afferma “Io credo nel perdono. La gente cambia. Se c’è bisogno cambia” – sono per Emily una vera epifania: un atto costretto dagli eventi (la malattia di Resemary, l’impossibilità di accudire Jay da solo e per sempre), non miracoloso (Emily non cambierà improvvisamente, tanto che alla fine del film è accarezzata dall’idea di rapire Jay senza dire nulla ai nonni), eppure capace di infondere un senso vitale che prima era del tutto assente. Quasi come una doccia fredda che pulisca il corpo, senza cancellare le cicatrici e i dolori più intimi.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Paris - San Francisco Sebbene affronti con rigore e sensibilità il tema della maternità, Clean è uno dei pochissimi film che rinuncia quasi del tutto a mostrare insieme e all’interno della stessa sequenza madre e figlio. Gli attimi di vita passati uno accanto all’altra dai due personaggi durano, infatti, lo spazio di un week-end e, dal punto di vista della durata del film, appena dieci minuti dei complessivi cento e quattro: Emily abbraccia Jay all’otttantaquattresimo minuto e si congeda da lui al novantaquattresimo. Eppure Clean è uno dei film più intensi che affronta il tema della maternità e del rapporto tra madre e figlio. A parità di profondità di contenuti, si può forse rinvenire un’analoga bassa percentuale di “contatto” tra genitore e figlio solo in Paris Texas di Wim Wenders, anche se nell’opera del cineasta tedesco il rapporto di assenza/presenza tra madre e figlio era “bilanciato” dalla presenza fisica (e altrettanto problematica) del padre, qui invece del tutto assente. Le assonanze tra i due film non si riducono soltanto all’analogia nei tempi della narrazione: in entrambe le pellicole c’è una figura maschile che rinuncia al proprio ruolo di genitore, “consegna” il bambino alla madre e poi sparisce, ci sono figure femminili che svolgono un ruolo inviso e malvisto dalla società (l’una spogliarellista, l’altra ex rockstar tossicomane), e il cui ricongiungimento filiale suggerisce una possibile palingenesi grazie al riconquistato ruolo materno. Esiste però un elemento di diversità tra i due film che li pone su binari contenutistici diversi: nel primo caso la madre compare solo nelle ultime sequenze, recuperando una presenza fisica che per tutto il corso del film non aveva; nel secondo è la protagonista assoluta del racconto, perno centrale attorno al quale girano le altre figure, compresa quella di Jay. Non è, come si evince, una differenza di poco conto. Emily è il soggetto preferito dall’occhio della cinepresa che indugia sui suoi silenzi, sui suoi sguardi, sui suoi pianti, che insegue in tutti i suoi movimenti e in tutte le sue fughe. È un occhio che implacabile la costringe ad espiare le sue colpe: quella di aver abbandonato il figlio ai nonni appena nato e quella di aver ucciso (ma Emily nega sempre la responsabilità) il suo compagno. Più dei dieci minuti impiegati per descrivere l’incontro tra i due, Assayas carica quindi di significato gli altri novantacinque nei quali la madre è sola. La sua solitudine si esplica non nel silenzio o nell’assenza di relazioni, ma nell’impossibilità di aspirare ad uno spazio domestico proprio, ad una casa, ad un luogo di stabilità e di protezione. Anche perché costretta a vendere la casa di Londra per ripianare alcuni debiti del marito, Emily non può far altro che abitare spazi altrui (stanze d’albergo, stanze offerte dagli amici, abitacoli di automobili, celle di una prigione), che non cerca assolutamente di personalizzare con suppellettili, oggetti del passato, arredamenti che sappiano in qualche modo comunicare emozioni e calore. In questo modo assume ancora più importanza la sequenza che precede l’arrivo di Jay, quando Emily mette in ordine la propria stanza e compra un orsacchiotto da sistemare in bella mostra sul letto. In questo ingenuo tentativo di rendere confortevole ciò che confortevole non è risiede tutto il senso di impotenza e, insieme, di voglia di ricominciare che pervade la donna e anche tutta la fatica che ogni tentativo di riscatto richiede. La madre è impacciata, i suoi comportamenti non seguono una direzione chiara, ma appaiono un vano divincolarsi. Certo, il tempo è dalla sua parte, prima o poi ricostruirà il rapporto con il figlio, ma il suo ruolo di madre è lungi dall’essere istintivo, immediato, “naturale”, anche se è l’unico che permette di dare qualche significato ad un’esistenza che non ne ha più. Qualche giorno dopo l’incontro con Jay, non appena terminata a San Francisco l’incisione di un nuovo disco, la donna scoppia in lacrime. Le sue non sono lacrime di felicità per un sogno realizzato. Sono lacrime di impotenza, di vuoto affettivo, di disorientamento. Di madre che non è e che, forse – anche vivendo anni con il figlio – non sarà mai.
Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici
Film freddo, asciutto, poco narrativo, tutto costruito attorno all’interpretazione di Maggie Cheung, Clean è un’opera che può essere utilizzata in contesti educativi o scolastici, ma solo dopo un’attenta preparazione della classe. Più interessante – perché lascia molto spazio all’interpretazione e all’inserimento dei vissuti degli spettatori – l’uso formativo della pellicola, il suo possibile inserimento in setting di formazione, specie se dedicati al ruolo della donna e della maternità. Oltre al film di Wenders Paris, Texas, consigliamo a chi volesse seguire un itinerario cinematografico dedicato forti figure materne la visione dei seguenti film: Bellissima di Luchino Visconti, Ladybird Ladybird di Ken Loach, Mamma Roma di Pier Paolo Pisolini, e i recenti La guerra di Mario di Antonio Capuano e Respiro di Emanuele Crialese. Marco Dalla Gassa