di Abbas Kiarostami
(Iran, Francia, 2002)
Sinossi
Teheran, 2002. Il film, articolato in dieci sequenze prive di legami narrativi evidenti, si svolge all’interno di un’automobile: la telecamera, appoggiata sul cruscotto, alterna inquadrature del volto della guidatrice, Mania (una giovane donna), a quelle dei vari passeggeri che dialogano con lei. 10. Mania accompagna in piscina il figlio decenne Amin: il bambino è irascibile e rinfaccia alla madre di aver divorziato dal padre ed essersi risposata. La donna tenta di convincerlo della propria buona fede ma, giunto a destinazione, Amin scende dalla macchina ancor più nervoso di quando vi era salito. 9. Mania parla del comportamento di Amin con sua sorella Mandana: quest’ultima suggerisce di lasciare che il ragazzino vada a vivere col padre affinché il suo carattere non peggiori ulteriormente. 8. Mania offre un passaggio a un’anziana donna che le confida di aver dedicato tutta la propria vita alla preghiera. 7. Mania fa salire in auto per sbaglio una prostituta: dapprima diffidente, la donna confessa alla guidatrice che il proprio lavoro le piace perché la fa sentire indipendente da qualsiasi legame, a differenza delle donne sposate, che compatisce. 6. La protagonista offre un passaggio a una ragazza che ha incontrato per caso in un santuario dov’è andata a pregare: entrambe si dicono piacevolmente sorprese del senso di serenità provato durante quest’esperienza. 5. Mania è costretta ad accompagnare Amin (che ora vive con il padre) a casa della nonna: dopo l’ennesima discussione il bambino si rifiuta di dormire a casa della madre. 4. Mania è con un’amica che si dispera perché il fidanzato l’ha lasciata: la protagonista invita l’amica ad essere meno debole e a dimenticarsi dell’uomo. 3. Amin, affidato definitivamente al padre dal tribunale, non riesce a non rimproverare a Mania le sue scelte di donna emancipata. 2. Mania incontra nuovamente la ragazza che aveva conosciuto al santuario: anche quest’ultima è stata lasciata dal fidanzato ma non si dispera. Si toglie il velo e, per un attimo, mostra il capo rasato. 1. Amin sale sull’auto e chiede alla madre di essere accompagnato dalla nonna.
Presentazione del film
Per anni Abbas Kiarostami è stato uno dei pochissimi registi del panorama cinematografico iraniano ad ottenere una certa visibilità anche presso il pubblico occidentale: attraverso il proprio stile particolarissimo questo autore ha dato dell’Iran un’immagine di certo interessante ma che rifletteva solo in parte i cambiamenti sociali in atto nel paese. Quasi sempre ambientati all’interno di contesti rurali distanti dai ritmi convulsi dei grandi centri, i film degli anni Novanta che hanno dato la fama a questo autore (E la vita continua..., Sotto gli ulivi, Il vento ci porterà via sono alcuni dei titoli più importanti) si sono imposti come profonde riflessioni filosofiche sul senso della vita e del cinema proprio grazie alla rarefazione delle atmosfere e all’apparente minimalismo dei temi. Dieci divide con quei film ormai celebri molte costanti sia formali (l’ambientazione all’interno dell’abitacolo di un’automobile, al pari di E la vita continua..., l’uso di interpreti non-professionisti), sia tematiche (tra il minimalismo e la quotidianità dei dialoghi emerge una riflessione quanto mai profonda su temi alti quali la famiglia, il matrimonio, la religione), ma al tempo stesso se ne distanzia, calato com’è all’interno di un contesto decisamente urbano, contemporaneo, nel quale la predominanza assoluta della parola ci rivela storie e personaggi con una mentalità e degli atteggiamenti di stampo prettamente occidentale. Se in tutti gli altri film di Kiarostami (tanto in quelli “rurali” dei primi anni Novanta, quanto in quelli più urbani come, ad esempio, Il sapore della ciliegia), l’automobile era un mezzo di scoperta, anzitutto per lo stesso regista, di un paesaggio circostante che dava un senso profondo e quasi assoluto ai dialoghi dei protagonisti, in Dieci l’abitacolo della vettura diviene una sorta di prigione (anzitutto dello sguardo dello spettatore) all’interno della quale i personaggi, ai quali è preclusa ogni azione, sono costretti a convivere mettendo in campo i propri problemi e le proprie frustrazioni. A determinare tale mutamento è certamente una dimensione urbana che, paradossalmente, al contrario di quella rurale, forse proprio a causa dell’accumulo eccessivo di segni e di presenze umane, sconfina nell’indistinto, sfuma in una sorta di sfondo neutro che le telecamere digitali fissate sul cruscotto del veicolo per riprendere ora il volto della guidatrice ora quello del passeggero, inquadrano di sfuggita, relegandola in una porzione dell’immagine decisamente limitata e del tutto incidentale. L’uso di questa tecnologia di ripresa (due telecamere digitali non professionali) fa parte di una serie di scelte attuate progressivamente da Kiarostami nella direzione di una sempre maggiore semplificazione del proprio lessico cinematografico (che, al di là dell’apparente minimalismo delle scelte, resta comunque estremamente raffinato), ma anche e soprattutto di un’economia della strumentazione tesa a diminuire quanto più è possibile la distanza che separa la verità dell’impersonazione dei suoi interpreti non professionisti dall’immagine che il cinema restituisce frapponendovi, inevitabilmente, i propri filtri imposti dall’uso di pesanti apparati tecnologici e dal professionismo della troupe. Il regista si pone, in questo modo, come autore unico del film, tuttavia spogliandosi di tutte le caratteristiche canoniche di ogni regista, anzi proprio di quelle che ne connotano in maniera più peculiare il suo lavoro di autore (messa in scena e scelte di ripresa). Tale nuova figura divide l’onore e l’onere della riuscita del film con i propri interpreti il cui lavoro è valorizzato dall’uso di un sistema di ripresa che riesce, proprio grazie alla semplicità che lo connota, a restituire intatto il valore di una “performance” alla cui base è un lungo lavoro di preparazione durante il quale gli “attori” fanno propri i caratteri che andranno a interpretare.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Dieci episodi (o meglio, dieci semplici sequenze) nella vita di una donna di Teheran alla guida della propria automobile, il mezzo di locomozione più usato nella capitale dell’Iran, il microcosmo all’interno del quale milioni di persone trascorrono ore ed ore a causa del traffico sempre congestionato e dello sviluppo caotico di una metropoli che conta quasi dieci milioni di abitanti. Come sempre, nei film di Abbas Kiarostami il senso emerge dal confronto (spesso delegato per intero allo spettatore) tra le varie parti del film, tra i simboli messi in campo in maniera apparentemente casuale, in realtà frutto di un attento lavoro di preparazione. In Dieci la libertà lasciata dal regista al suo pubblico è pressoché illimitata, risultando le varie sequenze del tutto giustapposte, non comparendo alcun riferimento cronologico che attesti lo scorrere del tempo. L’unico elemento che fa da trait d’union concreto tra le varie storie è Mania (rispettivamente madre, sorella, amica, conoscente degli altri personaggi) e l’unica “storia” ad avere uno sviluppo sia pure minimo è quella relativa a suo figlio Amin che compare in ben quattro sequenze e che, dalla prima fino all’ultima, si stacca progressivamente dalla figura della madre. Un bambino diverso da tutti gli altri piccoli interpreti dei film di Kiarostami tranne che per la straordinaria bravura davanti alla macchina da presa: un bambino di città, non molto differente dai propri coetanei occidentali, con tutti i suoi impegni extrascolastici (piscina, incontri con amichetti, eccetera) anzi decisamente nevrotico, “vittima” delle scelte dei propri genitori ai quali non esita a rinfacciare quel divorzio che lo costringe a dividersi tra due famiglie. È paradossale che questo giovanissimo cittadino, figlio di una coppia appartenente alla borghesia della capitale iraniana si faccia portavoce di una concezione della famiglia basata su presupposti affatto tradizionalisti: Amin scarica l’intera responsabilità del divorzio sulla madre, la accusa di aver pensato più al lavoro che alla famiglia, le rinfaccia di essersi risposata e così via. Probabilmente i rigurgiti “integralisti” del ragazzino sono solo il frutto della necessità di individuare un capro espiatorio della disgregazione della propria famiglia, una necessità che si proietta su colei che nell’immaginario infantile (e non solo) è la depositaria dei valori e dell’unità del focolare domestico. Amin, in fondo, è un bambino come tanti, forse soltanto un po’ viziato, che come tutti i propri coetanei pretende (abbastanza legittimamente) le attenzioni dei genitori e una qualche stabilità familiare, soprattutto dal punto di vista della definizione e della certezza dei ruoli, proprio ciò che Mania ha infranto scegliendo autonomamente la propria strada. Attraverso questa figura di ragazzino così conformista e a tratti decisamente odiosa, Kiarostami ribalta molti degli stereotipi del racconto, anche e soprattutto cinematografico, che vede i bambini protagonisti di un percorso di crescita, di maturazione che si compie con la fine del film: una caratteristica, questa, che, oltretutto, connota profondamente molte delle opere precedenti di questo regista. La distanza del personaggio di Amin dai propri analoghi “rurali” si può misurare dall’affermazione di Mania che constata amareggiata quanto sia difficile per lei parlare con il figlio, tentare nei pochi minuti passati all’interno dell’autovettura di stabilire con il ragazzino una qualche forma di comunicazione. Al contrario, in un film come Dov’è la casa del mio amico vediamo il piccolo protagonista tentare inutilmente di farsi ascoltare dai propri interlocutori adulti che, semplicemente, ignorano le sue richieste di informazioni o d’aiuto. Diversamente, l’atteggiamento di Mania nell’ultima sequenza del film (ancora con Amin) è quello di colei che ha imparato ad accettare con distacco uno stato delle cose che ha capito di non essere in grado di mutare (la decisione del tribunale di affidare il figlio al padre, il rifiuto da parte del ragazzino di dormire a casa sua) e che sceglie semplicemente, per la propria serenità e per quella degli altri, di osservare serenamente quanto accade.
Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici
Molte le pellicole in cui i giovani protagonisti si ergono a tutori della solidità del nucleo familiare come il piccolo Amin: si va dal giovane Eric di Fate come se non ci fossi (2000) di Olivier Jahan che rimprovera alla madre di essersi rifatta una vita, all’adolescente protagonista di Colpire al cuore (1983) di Gianni Amelio, la cui ansia moralizzatrice (il ragazzo rivela alla polizia la doppia vita di suo padre, un professore universitario vicino all’eversione armata e amante di una terrorista) è frutto del timore verso un crollo delle certezze non solo all’interno del nucleo familiare ma nell’intera società.