di Ken Loach
(Gran Bretagna, 1971)
Sinossi
La giovane Janice Baildon ha dei tormentati rapporti con la propria famiglia, di mentalità poco aperta verso le istanze giovanili e schiava delle apparenze. Janice è rimasta incinta e la madre insiste affinché abortisca, nonostante la ragazza mostri di voler tenere il bambino. Convinti che la figlia sia preda di un forte disagio psichico, la famiglia Baildon accompagna Janice da uno psichiatra che tenta di guarirla scavando nella vita e nelle abitudini di tutti i componenti del nucleo familiare. Il dottor Donaldson si trova quindi di fronte una madre preda delle convenzioni sociali che stabiliscono indissolubilmente ciò che è giusto e ciò che è sbagliato fare e un padre incapace di leggere le diverse situazioni familiari ed inappagato sessualmente. In mezzo alle frustrazioni e alla mediocrità si situa Janice, la quale diventa un autentico campo di battaglia in cui i genitori cercano di ovviare alle loro inconsce insoddisfazioni. I metodi all’avanguardia del dottor Donaldson trovano però un fermo ostacolo nei superiori di questi: Janice verrà sottratta alle cure del giovane dottore e internata in clinica per un certo periodo di tempo, nella speranza che la ragazza possa trovare quella pace che pare aver smarrito. Uscita dalla clinica psichiatrica, i rapporti tra Janice e i suoi genitori non migliorano di certo e la ragazza entra nuovamente in un aperto e distruttivo contrasto con il mondo circostante. Anche la visita della sorella Barbara – la quale, nonostante sia riuscita a conquistare la sua personale emancipazione, dopo pochi istanti inizia a litigare furiosamente con il padre – non porta giovamento alla ragazza, sempre più in crisi. Urge un nuovo ricovero, nel corso del quale il malessere di Janice peggiora ulteriormente quando la ragazza si rende conto che le è preclusa, perché sconveniente, anche la possibilità di passeggiare nel giardino con Paul, un giovane paziente della casa di cura. Fuggita insieme a Tim, un suo vecchio amico, Janice viene ripresa e riportata nell’ospedale, diventando un caso da studiare all’università. Ma a tutte queste situazioni Janice decide di reagire con l’afasia totale, opponendosi con il silenzio alla volontà cieca del mondo di non comprendere.
Introduzione al Film
Dalla parte del più debole Ken Loach è regista famoso per il suo impegno politico e sociale: le sue pellicole non sono mai semplicemente narrative, ma intendono sempre fornire uno spaccato delle contraddizioni che allignano nelle società opulente e neoliberiste. Loach, sulla scorta di quello che insegnò il Free Cinema nel periodo a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, è un cineasta che si pone sempre al fianco degli sconfitti per narrare la storia e la società dal loro personale punto di vista, una prospettiva che rischia di passare sempre costantemente sotto silenzio a causa dell’impossibilità per i deboli di avere uno spazio adeguato a sostenere le loro ragioni. Il cineasta inglese, invece, osserva e testimonia, parteggiando apertamente. I deboli nel suo cinema sono spesso gli operai, altre volte gli immigrati, altre ancora i profughi politici, alcune volte i minori, come nel caso di Ladybird Ladybird (1994), nel quale ad una madre vengono sottratti dai servizi sociali, uno dopo l’altro, quattro figli perché ritenuta inadeguata al ruolo di educatrice, o di Kes (1969), ritratto di un ragazzino che cerca di sfuggire ai suoi problemi familiari e scolastici dedicandosi alle cure di un falco che ha catturato. Family Life è invece un’inchiesta fredda e lucida, senza concessione alcuna allo spettacolo, come nello stile del regista, sui condizionamenti di una società, vista attraverso le sue istituzioni più importanti, che fanno precipitare nell’abisso della malattia mentale una ragazza come tante altre.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
L’oppressione di una società A prima vista, Family Life potrebbe sembrare un attacco frontale nei confronti della famiglia e della sua formazione puritana che rende ciechi e sordi nei confronti di qualunque istanza mostri i suoi bisogni e le sue lecite aspettative; in realtà l’attacco è condotto verso le istituzioni ritenute maggiormente repressive e inadatte a recepire con sensibilità il grido di bisogno che le nuove generazioni (quelle dell’inizio degli anni Settanta) innalzano. Sulla pelle di una ragazza come tante altre alla sua età, in quella fascia a tratti inconsistente che separa l’adolescenza dall’età adulta, si gioca il destino di affermazione di una società retriva e stantia, incapace di accorgersi dei mutamenti in corso nel mondo. Il male di cui è vittima Janice non è la schizofrenia, che gli psichiatri troppo frettolosi intendono diagnosticarle per eccesso di tassonomia, ma l’incomunicabilità che non le permette di farsi capire dai genitori perbenisti e dai medici insensibili. La prova di questo malessere è fornita dall’ultima scena del film, quella in cui Janice, davanti ad una gremita aula magna della facoltà di medicina, si rifiuta di aderire al ruolo di malata mentale che le è stato assegnato, chiudendosi in un mutismo irriducibile ed infinito che i baroni della facoltà interpretano (a loro uso e consumo) come la prova irrefutabile del disagio della ragazza e che invece non è altro che il rifiuto di far parte di una società che non vuole sentire e non desidera assolutamente comprendere. Janice diventa quindi la paladina della lotta che vede impegnato l’individuo contro il superato sistema sociale (dell’Inghilterra in questo caso, ma la storia è soltanto un pretesto per rendere generale il problema). Le armi della società sono molteplici e tutte affilatissime, l’individuo ne ha soltanto una: il rifiuto. Ad un certo punto del film, durante una seduta del dottor Donaldson cui Janice prende parte, una paziente sostiene quasi ingenuamente: «se dicono che sei cattiva, l’unico modo di dimostrare che sei buona è quello di essere d’accordo che sei cattiva…così dicono che sei buona…non sei più cattiva se ammetti di esserlo…ma se loro dicono che sei cattiva e tu…tu non ammetti di esserlo, allora sì che sei cattiva davvero». La sproporzione è tra ciò che è vero e ciò che la società decide debba essere vero: le istituzioni, con le loro armi oppressive, hanno la possibilità di creare una realtà differente, docile ai loro voleri, ed estraniare così dal tessuto sociale l’individuo ritenuto pericoloso e destabilizzante. Janice è semplicemente una figlia della “Swinging London”: disinvolta nei costumi, desiderosa di esprimersi, assetata d’esistenza, ma queste caratteristiche all’interno di una società conservatrice e conformista sono ritenute dei reati imperdonabili, da metter al più presto al bando per non corrompere totalmente la gioventù sana ed equilibrata. L’importante è sempre l’apparenza, quasi a sottolineare l’ipocrisia della società e dei suoi falsi valori: la madre di Janice, saputo della gravidanza inaspettata della figlia, non esita un istante a costringerla all’aborto, nonostante la ragazza desideri tenere il bambino, nel tentativo, forse, di riporre nell’innocente creatura quelle speranze di umanità cui ancora aspira. Ma la madre di Janice, come successivamente faranno anche i medici, sottraendola dapprima alle cure non tradizionali del dottor Donaldson, poi relegandola in un ospedale all’interno del quale non può coltivare nemmeno una piccola amicizia, è in grado di eliminare dalla psiche della figlia anche la semplice speranza. Tra tradizione soffocante e tentativi di trasformazione, tra culto dell’apparenza e strenua ricerca dell’umanità, il rinnovamento e la sensibilità sono destinati a soccombere. Il rifiuto di quest’opera di coercizione può essere solo estremo e realizzarsi attraverso la resa incondizionata verso qualunque tipo di comunicazione.
Riferimenti ad atre pellicole e spunti didattici
Follie vere e presunte Il confronto con Diario di una schizofrenica di Nelo Risi (1968) potrebbe risultare interessante, anche se in questo caso il percorso della paziente risulta inverso rispetto a quello di Janice: a differenza di Family Life, che illustra un lento sprofondare all’interno di un baratro, nel film di Risi, la ragazza malata è aiutata dai puntuali e accurati metodi terapeutici a ritornare alla normalità Sul versante delle diagnosi affrettate, è invece utile la comparazione con Un angelo alla mia tavola (An Angel at my Table, Jane Campion, 1990), storia di Janet Frame, forse la più grande scrittrice neozelandese vivente, costretta a nove anni di manicomio per la sua eccentricità. A livello didattico, questi film possono risultare utili nel comprendere i diversi aspetti delle istituzioni, a volte adeguate al loro ruolo di miglioramento sociale, altre dannose perché immagine di una società incapace di comprendere i vari e diversificati bisogni dell’individuo. Giampiero Frasca