Le Regard
di François Villet*
Proponiamo la traduzione dal francese di questo articolo perché rappresenta uno dei pochi esempi in cui si è cercato di inquadrare la presenza dei bambini nei film da un punto di vista esclusivamente cinematografico. Le teorie sostenute da Villet sono interessanti perché mostrano i limiti ma anche le potenzialità di un tale approccio: tra i primi segnaliamo una certa propensione alla retorica, un metodo di avvicinamento alla materia molto partigiano, la rinuncia alla scientificità del discorso, la preponderanza per gli aspetti emotivi dell'analisi; tra le seconde evidenziamo una chiave di lettura che oltrepassa il confine tra genere e film d'autore, la capacità di delineare come il linguaggio cinematografico si modifica in presenza di un bambino, la centralità della fase scopica (il punto di osservazione e il momento dell'osservazione) per comprendere i meccanismi di rappresentazione dell'infanzia. Confidava qualche tempo fa Wim Wenders: «Mi sembra che se dovessi parlare dell'‘immagine che ho dell'infanzia' tradirei, già dal principio, ciò che mi aspetto da un bambino, quello che non hanno ancora perduto. Il loro sguardo, la loro capacità di osservare il mondo senza necessariamente averne un'opinione immediata o trarne delle conclusioni. Il loro modo di guardare corrisponde allo stato di grazia per un cineasta. È quello che dovrei attendermi da un bambino, questa apertura».1
In ogni autore per il quale l'infanzia ha un'importanza capitale si ritrova il senso della prima immagine del mondo, questo senso innato che è proprio dei bambini. Lumière aveva questo sguardo e dopo di lui: Méliès, Vigo, Feyder, Chaplin, Truffaut, Comencini, Tarkovskij, Wenders, per citarne solo alcuni. Anche altri cineasti, naturalmente, pur non mettendo i bambini al centro della loro filmografia, possiedono questa profonda affinità con il loro sguardo. C'è comunque un'estetica pittorica, espressiva, attorno a questi sguardi che vorremmo analizzare. Dinnanzi alla ricchezza e all'originalità del racconto, dimentichiamo, infatti, troppo spesso la forza e la purezza dell'immagine, nonostante essa agisca su di noi, nonostante l'infanzia sia anch'essa il risultato di un gioco di luci, di forme, di colori, in una verginità plastica che sprigiona le emozioni primarie della vita. Gli elementi basilari dell'affinità tra infanzia e cinema sono tutti qui. Il mondo è nato da uno sguardo. È nato perché un occhio si è posato all'interno di un vuoto illimitato. Lumière non filmava solamente un treno, una carrozza o un bebè, egli filmava senza saperlo il vuoto eterno che ha preceduto il passaggio di un treno o di una carrozza o il pasto di un bebè. Ogni film tende ad innalzare il mondo dal caos iniziale, dai limbi dell'assenza. Lo sguardo vergine dell'artista è alla base di ogni possibile creazione E il mondo rinasce nell'occhio di ogni bambino, come se prima non fosse mai esistito. […] L'arte dell'infanzia simboleggia la verginità prima del disinganno, prima della perdita del sé, prima dell'alienazione sociale. È una perpetua trasgressione della durata, un continuo anacronismo. […] L'infanzia è il punto di partenza di ogni cosa […] e il cinema, in quanto edificio costruito sopra la supremazia di uno sguardo, elegge così l'infanzia a sovrano della propria arte. […]
Cinegenia dell'infanzia
Se il cinema è il solo mezzo che riproduce fedelmente le emozioni del mondo infantile, esso è anche l'unico che testimonia i tempi dell'infanzia, il suo avanzamento e la sua caduta, la natura del suo sguardo, la qualità dei suoi silenzi, gli spazi personali che celebrano lo sguardo e il silenzio, giardini immaginari, onirici e segreti della vita. Grazie al cinema, noi osserviamo al ralenti questo mondo chiuso, le sue trasformazioni più intime, le sue ferite nascoste, la presenza dei sogni e delle loro evanescenze come un entomologo studia una comunità di formiche o un etnologo studia una tribù dell'Africa tropicale. Ma una domanda è lecita: cosa sappiamo realmente di questo piccolo universo che noi frequentiamo ogni giorno, ogni istante? E cosa apprendiamo su di esso dal cinema? […] Il cinema con i suoi movimenti, le sue rivoluzioni, i suoi ritorni alle origini, inventa – reinventa – l'infanzia, e l'infanzia si reinventa al cinema. «Inventa o ti divoro», minacciava la Sfinge. Sono questi giochi di specchi, di identificazione, di origini confuse, di anime gemellari, che occorre affrontare. Senza l'invenzione permanente, la vita si irrigidisce, si perde, affonda nel fango del niente o del vuoto. L'infanzia lo sa, forse solo per propensione all'intuito, e non smette mai di saperlo. Il cinema a compreso che deve ispirarsi ad essa per rinnovarsi e per evitare la propria scomparsa. La liaison cinema-infanzia funziona dunque in entrambi i sensi: il cinema prende in prestito dall'infanzia la sua specificità, la sua forza visiva, le sue virtù silenziose, il suo potere immaginativo, di contro, riceve in cambio il privilegio di essere la forma di espressione, la disciplina artistica che riesce meglio a riprodurre e far vivere il mondo dell'infanzia. «Il bambino – scriveva André Bazin – non può essere conosciuto che dall'esterno, egli è il più misterioso, il più appassionante, il più sconvolgente dei fenomeni naturali. Una sorta di animale prediletto che noi intuiamo essere abitato dagli dei. […] Possiamo pretendere che la cinecamera possa infine rivelarci il viso enigmatico dell'infanzia? Tutti questi volti macchiati di rosso come l'acqua dello stagno dalle foglie morte, questi occhi sfrontati che si offrono a noi, che spiano e sfuggono come gli scoiattoli nel bosco, questi gesti imprevisti e necessari come la natura nella sua espressione più vera, solo il cinema poteva captarli nei suoi filamenti di luce, e per la prima volta, metterci innanzi il vero volto dell'infanzia».2
C'è, evidentemente, una posizione privilegiata che occupa l'infanzia nei confronti della nostra società e della sua storia. Essa si situa al confine; nel limbo. Il suo sguardo è il mezzo più prezioso e puntuale per svelarne gli errori e i fallimenti. «Essa permette essenzialmente – afferma Bille August, il regista di Pelle alla conquista del mondo – di offrire una visione nuova, e spogliata dall'ipocrisia, del mondo. Portare i bambini sullo schermo equivale a girare il coltello nella piaga».3
Due modalità diverse di realizzare film si impongono: una parziale e frammentaria, che adotta un punto di vista caotico e immerso nel presente perché troppo impregnata di cose da rappresentare; l'altra totalmente esteriore, uno sguardo che non appartiene né alla società né alla Storia, che ha il dovere e il privilegio di giudicare entrambe in un modo nuovo e rinnovato. […] Si tratta di un'efficace visione dei Tempi […] spazializzati, non più lineari e continui. Il vero sguardo dell'infanzia– liberato da tutte le pressioni educative e sociali – è capace così di abbracciare […] la superficie di una moltitudine di elementi o di fondersi al loro interno. Per il bambino, l'occhio precede l'intelletto. E non c'è niente che assomiglia allo sguardo di un bambino che guarda attraverso l'obiettivo di una macchina da presa. «I bambini – ricorda Wim Wenders – rappresentano una sorta di punto di vista ideale, e questo ha molto a che fare con il realizzare film, perché i film cercano di avere una certa disposizione nei confronti di ciò che mostrano».4
Né lo sguardo del bambino né quello della macchina da presa appartengono alle componenti dell'universo materiale. Slegato dal suo contesto, il primo è piuttosto un modo per circoscrivere l'esistente, per mettere in rilievo i dettagli, per abbracciare tutti gli angoli e le dimensioni, perché non c'è né luogo né posto che non sia osservabile. È per sua natura superiore all'oggetto della sua visione. Lo sguardo del secondo insegue invece quello dell'infanzia. La loro “verginità” comune, la loro mancanza di esperienza che li dispensa da qualsiasi patto o solidarietà con il mondo fisico, attribuiscono alle cose e agli esseri che essi colgono una catarsi pittorica, una purificazione al livello della sola rappresentazione. «E' del cinema tutto ciò che de-materializza il mondo» scriveva Henri Agel. Thierry Jousse avanza a proposito di Montalvo e l'enfant di Claude Mourieras «una verosimile ipotesi del cinema: lo sguardo è indissolubilmente legato al segreto, alla paura, dunque all'infanzia. Il bambino, pertanto, è un punto di osservazione, di accumulazione, di sensazione. Egli è una vedetta sensibile che osserva gli adulti senza comprenderli e capta l'origine dei movimenti».5
Afferrare da un punto di vista filmico il suo sguardo, considerarlo come un dono, significa ricostruire la geometria del suo contesto. L'ambiente che egli percepisce, per esempio, diventa gigantesco a causa della sua piccola taglia. « Ozu per filmare i piccoli protagonisti di Sono nato, ma… – ricorda Dominique Jamet – si attribuiva una sorprendente ingenuità, piazzando semplicemente la sua cinecamera all'altezza degli occhi dei bambini».6
Stesso approccio aveva Carol Reed per Idolo infranto: «La scena è alla portata di un bambino – spiega B. Catherine – non a quella degli adulti. Da qui le prospettive profonde, sfuggenti, che non possono che corrispondere alla realtà infantile».7
Più recentemente Deville ( La petite bande ) non solo si posiziona al posto del personaggio, ma sposa lo sguardo dello spettatore. E László Szabó in David, Thomas et les autres ricorda: «In questo film, la cinepresa è ad altezza degli occhi dei bambini. Avrei quasi potuto filmare tutti gli adulti in “contre-plongée” ». Un'altra inquadratura superba è quella di Ludo ( Les Noces Barbares di Marion Hänsel ) sequestrato nel solaio della casa famigliare che dà sul litorale. Egli scopre, dal cortile interno, la distesa del mare di cui non percepiva che il ruggito delle onde nell'oscurità. Ne Il signore del castello, Régis Wargnier e la sua troupe hanno sistemato, anche loro, la cinepresa ad altezza bambino. La regia – magistrale – rinforza gli stessi propositi del cineasta. […] Thomas, dieci anni, l'eroe del film, che porta dentro di sé il lutto per la scomparsa della madre, dimostra senso di responsabilità, serietà e inquietudine nei confronti delle attività professionali del padre. […] L'espressione che egli pronuncia nel corso del film – “Non si tratta più di vivere, ma di regnare” – annuncia non soltanto il regno di un bambino-adulto sopra una casa principesca e sulle terre che vi sono attorno, ma anche il regno, al tempo stesso sensibile e perentorio, di un bambino sopra la fragilità di un padre.
Lo sguardo del bambino che giudica. Un altro tipo di sguardo è quello del Kid , il Monello , di Giuseppe ( Sciuscià ), di Victor ( Il ragazzo selvaggio ) o di Pixote ( Pixote, la legge del più debole ). È lo sguardo degli “scugnizzi” perduti, ma colmi di un'infanzia reale, grazie alla loro innocenza. In questi titoli, i gesti, i silenzi, i dialoghi si eclissano, diventano superflui o ausiliari rispetto ad una ferita attraverso la quale il bambino legge il mondo. Si tratta di uno sguardo avido, mai soddisfatto, come fosse presente un trauma che aleggia sopra tutti i tipi di silenzio. Quale potrebbe essere il loro ruolo nella messa in scena e quale la loro portata cinematografica? Una successione di due inquadrature basta a spiegare ciò che trenta pagine di un romanzo non saprebbero fare. Qui l'infanzia ha dimensione esclusiva ed “altra” rispetto quella degli adulti. Il regista, da un punto di vista tecnico, segna la dissociazione, montando una dopo l'altra due sole inquadrature: la prima che riprende il bambino che osserva, l'altra che sposa il suo sguardo, rispettando la distanza tra il protagonista e la scena che egli osserva. Gli esempi si contano a dozzine: Apu ne Il lamento sul sentiero di Satyajit Ray, Chaïpau in Salaam Bombay di Mira Nair, Leo in Messaggero d'amore di Jospeh Losey, ecc… Nondimeno la migliore illustrazione di una tale estraneità si trova senza dubbio in Visages d' enfants di Feyder. «In un insieme netto, tagliato con l'accetta come le travi portanti di un qualsiasi chalet, l'insicurezza e il progressivo complesso di colpa che pervade il piccolo Jean, trovano, nei momenti di crisi, una traduzione visiva anormale: una serie di plongée verticali, soggettive, precipitose, che fanno apparire, al piccolo Jean dispiaciuto e sconvolto, suo padre e sua madre come esseri minacciosi. L'immagine esaspera il romanticismo del cineasta per la variazione dei colori: il blu, il rosso, il verde, il seppia, l'arancio, si alternano e si impongono con insistenza».8
Questa dissociazione di sguardo è nettamente rimarcata in Truffaut , quando Victor, Il ragazzo selvaggio, guarda attraverso la finestra e scopre il mondo delle sue origini relegato nel passato, o quando Antoine ne I quattrocento colpi tagliando un giorno da scuola scopre la madre insieme al suo amante: tutto avviene nel silenzio. L'infanzia viene sconvolta nello spazio di uno sguardo. L'infanzia non sarà mai più la stessa. […] Un altro esempio proviene dal celebre western di George Stevens , Il cavaliere della valle solitaria, quando Joey si ritrova innanzi ai pugni rabbiosi di Alan Ladd. Il suo sguardo, questo visino dai grandi occhi pietrificati che si affaccia nell'interstizio della porta di un saloon, ha il suo corrispettivo in quello di Witness il testimone di Peter Weir (1984), nella sequenza, ancora più orribile, in cui Samuel assiste alla morte di un uomo dallo spazio esiguo e opprimente di un bagno pubblico. Qui il tempo è sospeso sopra il volto del bambino. La purezza dello sguardo e la violenza dello spettacolo rinviano allo choc della luce e del buio, all'immagine cardine di questo noir bucolico, ambientato in una comunità Amish dove le parole del vangelo si scontrano con la condotta profana delle “pecorelle smarrite”. Anche quando la camera registra gli choc, i contraccolpi dell'innocenza e della perdita del sapere, essa cerca le distanze nello loro rispettiva verticalità. Contre-plongée, effetti del plongée, sensazioni di vuoto: gli occhi si perdono, si arroccano, si nascondono, rompono gli ultimi veli del silenzio. Nella sinfonia dei pianti, delle implorazioni, le infanzie si sbriciolano al ritmo sfrenato delle immagini. Il cinema è il solo mezzo che riesce ad evidenziare questa spaccatura. Lo sguardo discreto e nascosto della macchina da presa libera i silenzi dell'infanzia, come un'ultima rivelazione, un ultimo rammarico. Il bambino si spoglia e mostra le proprie debolezze davanti ad occhi estranei, nel santuario oscuro della visione cinematografica. I bambini del dopoguerra raccontati soprattutto dal neorealismo sono i primi artefici di un tale sguardo. Come se il mondo avesse troppo parlato, troppo sprecato, troppo confuso e complicato il senso delle cose, solo lo sguardo del bambino sembra poter ridare loro la semplicità originaria. «I bambini (che) ci guardano – ricorda Pierre Jouvet – sono il ragazzo di Ladri di biciclette che osserva suo padre scontrarsi con la società, sono quelli dei due Sciuscià che fissano i loro gendarmi attraverso le sbarre, sono il fratello e la sorella di Vivere in pace che guardano, inevitabilmente, gli adulti farsi la guerra, sono i ragazzetti siciliani di La terra trema che scrutano dappertutto e hanno fame. Solo il ragazzo di Germania anno zero non si guarda attorno. Non a caso si sta spingendo verso il suicidio». Il bambino di Germania anno zero – esattamente come Ivan de L'infanzia di Ivan – ha oltrepassato il punto di non ritorno, quello in cui la condizione infantile non è più recuperabile e nessuna grazia può venire concessa. C'è anche un altro sguardo, in Arrivederci ragazzi che potremmo definire “di troppo”: quello involontario di Julien che tradirà Jean e lo condurrà tra le braccia della Gestapo. Julien incarna perfettamente l'infanzia dello sguardo: un'avidità, un bisogno di comprendere, di interrogare gli altri attraverso lunghi silenzi e usando parole che sembrano solo apparentemente ingenue. Momo che veglia sul corpo di Madame Rosa in una camera ardente ( La vita davanti a sé , 1977, di Moshé Mizrahi ), Simon in lotta contro il signor Paul […] ( Ragazzo selvaggio de Jean Delannoy , 1951), François che cerca di suicidarsi ( Pel di carota di Julien Duvivier , 1932), Billy e il suo falcone morto ( Kes di Ken Loach ), Leo obbligato a osservare una coppia intenta nei loro giochi di seduzione ( Messaggero d'amore di Joseph Losey ), Christopher che si avventura nell' Impero del sole in guerra: in tutti questi casi i protagonisti subiscono un cambiamento di sguardo, un'alterazione dell'infanzia, una perdita del sé irreparabile. I verbi che potremmo usare sono incapaci di comunicare l'emozione. Si ritrova, in tutta la sua intensità e acutezza, l'immagine muta del cinema delle origini. Sono pellicole che si possono giudicare per quegli istanti privilegiati nei quali i protagonisti non parlano e non traducono il senso delle loro emozioni se non nei loro sguardi. Tutti i grandi registi che hanno osservato queste regole, portando sullo schermo i bambini, avevano assicurato parte del loro successo. Il dispositivo si divide e si sviluppa su due piani: il primo, tradizionale, della storia narrata, dialogata, che si indirizza essenzialmente verso la nostra coscienza; il secondo, più sottile, che agisce in profondità, attraverso la presenza visiva e silenziosa dell'infanzia. Poco a poco questa presenza si eclissa. L'intelletto, la forza del giudizio perdono spazio nei confronti delle facoltà sensoriali. Lo sguardo si fissa, la silhouette, il volto di un bambino evocano una statua con mutilazioni invisibili. Non un sussulto, non un movimento della palpebra tradisce le loro ferite. In quest'interminabile sospensione durante la quale il mondo interrompe la sua corsa, le cose si pietrificano e il bambino subisce il suo colpo mortale. Da un momento all'altro egli scopre la morta, la sua. Arte del movimento, il cinema cristallizza questa pausa, quest'ultimo minuto dell'infanzia Attende il nirvana dell'infanzia nell'instante in cui essa non c'è più. Lo sguardo ha perso orma la memoria e il sogno dell'infanzia. La memoria si insabbierà nei coni oscuri del soggetto, sarà evocata dal linguaggio, nel momento della confidenza. Di contro, il sogno, nel suo ripiegarsi in sé stesso, non avrà altro che il sonno e la notte per manifestarsi. Come per la memoria, la via dello sguardo e quella dell'infanzia gli saranno vietate.
*tratto dal testo di François Villet, L'image de l'enfant au cinéma, Les editions du cerf, Paris, 1991, pp. 111-120.
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Note