di Bahman Ghobadi
Sono giovani, hanno una passione viscerale per la musica, vogliono fondare una band di indie rock e fantasticano su una loro possibile carriera musicale.
Qualche speranza la covano, perché diversi musicisti apprezzano il loro lavoro e cercano, per quanto possibile, di aiutarli. Hanno anche qualche invito per partecipare a piccoli festival indipendenti in Inghilterra e in Francia. Bazzicano nelle sale prove o in cantine insonorizzate alla meglio della loro città, incontrano altri coetanei, si scambiano cd, “consigli per gli acquisti”, assistono a concerti. Si incuriosiscono per vecchi e nuovi generi musicali e immaginano le possibili contaminazioni che si potrebbero innescare con il loro “sound”. Organizzano un piccolo concerto per amici e parenti e così cercano un locale a poco prezzo, per poi addobbarlo e colorarlo alla loro maniera. Nel tempo libero compongono nuovi brani, li arrangiano (aiutandosi con software e pc), li provano, li cantano, li ricantano, li modificano.
Vivono, insomma, la loro giovinezza come meglio non si potrebbe con il sogno, peraltro raggiungibile, di poter esprimere e raccontare sé stessi attraverso la musica, il canto, i concerti, le serate e le alchimie che innescano.
Nulla di strano o sconveniente ci sarebbe se i giovani musicisti di cui parliamo abitassero a Roma o a Madrid, a New York o a Tokyo. E invece la loro provenienza è – almeno in rapporto alle nostre “limitate” aspettative – sorprendente e straordinaria, essendo questi giovani musicisti originari di Teheran, capitale di una Repubblica islamica che vieta la musica occidentale in tutte le sue possibili manifestazioni (concerti, feste private, festival ecc.) perché potrebbe violare le leggi di ispirazione coranica e, più in generale, corrompere i costumi e le regole sociali.
Qui sta l’eccezionalità della storia di Ashkan e Negar, i due giovani musicisti della cui storia vi abbiamo dato conto poco sopra e che sono i protagonisti del film I gatti persiani, ultima fatica del regista curdo-iraniano Bahman Ghobadi in questi giorni nelle sale italiane. Ciò che vi abbiamo taciuto sono i tanti “intoppi” (è un eufemismo) in più che i ragazzi di Teheran sono costretti ad affrontare rispetto ai loro coetanei europei o americani: qualche giorno di prigione per aver assistito a un concerto illegale; la ricerca di un visto e un passaporto falso, pagato a caro prezzo, per poter uscire dal paese; la necessità di provare i propri brani o ascoltare quelli dei loro colleghi in luoghi nascosti e ignoti all’autorità, siano essi cantine, soffitte, stalle in campagna, palazzi in costruzione nelle periferie urbane; il rischio di una retata della polizia con l’arresto e il sequestro dei loro strumenti musicali ecc.
Lo stesso Ghobadi, per “pedinare” i personaggi (tutti veri e propri musicisti che eseguono il proprio repertorio musicale in una sorta di docu-fiction che sprigiona un alto gradiente di realtà), si colloca nella loro medesima posizione precaria, costretto a girare senza autorizzazione governativa, nei pochi giorni che gli rimangono prima della emigrazione reale dei due attori all’estero (che oggi vivono e suonano a Londra), con una piccola videocamera digitale e una troupe ridotta all’osso.
A differenza di quanto avviene di solito nei film (e anche nei documentari) Ghobadi non ha tempo e possibilità alcuna di mettere in scena, ricostruire, scenografare, re-inventare, manipolare alcunché. Da qui la decisione di dare ampio spazio alla musica e alle esecuzioni dei vari musicisti che incontrano Ashkan e Negar nel loro viaggio alla ricerca degli altri componenti della band. Da qui anche un certo disordine e una certa slabbratura della narrazione che prende direzioni e poi le muta improvvisamente, che accumula dati e indicazioni e poi li abbandona. Che si piega, in ultima analisi, alle ragioni e all’urgenza della testimonianza, quella che giunge dalle esecuzioni musicali di band che da un momento all’altro potrebbero sciogliersi per ragioni di “forza maggiore”, senza troppo preoccuparsi della confezione.
Un altro aspetto straordinario del film (almeno rispetto ai tanti plasticosi film musicali per teenager che vengono distribuiti sempre più spesso nelle sale) risiede, inoltre, nella possibilità di rompere con alcuni luoghi comuni o almeno di smussarne gli angoli.
Per quanto il contesto sia opprimente e soffocante e la possibilità di cadere in un abisso particolarmente concreta (lo conferma il finale), è anche vero che l’Iran de I gatti persiani offre di sé un’immagine sfaccettata, cosmopolita, piena di contraddizioni ma anche di talenti e di gioventù vive, attive, partecipi. Si pensi alla rete di protezione e di sostegno che si crea attorno ai musicisti, vera e propria comunità senza gelosie o competizioni; si pensi ai sogni dei ragazzi, così simili a quelli dei loro coetanei europei o americani (Ashkan ad esempio vorrebbe andare in Islanda, per vedere dal vivo i Sigur Rós); si pensi alla qualità mediamente alta delle esecuzioni musicali di gruppi e cantanti che compongono, alla fine, un panorama musicale ricco e policromo.
È insomma per merito di una solarità che si impone in un quadro buio e cupo e che si traduce in location quasi mai claustrofobiche e in momenti di rara intensità espressiva, che I gatti persiani merita di essere visto e ascoltato, anche più di una volta.
Marco Dalla Gassa
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