di Gavin Hood
(Gran Bretagna/Sudafrica, 2005)
Sinossi
L’adolescente Tsotsi e la sua banda muovono dal ghetto di Soweto – un milione di abitanti stipati alla periferia di Johannesburg – verso la città dei grattacieli, per le loro rapine e furti quotidiani.
La vittima designata è un uomo di colore che, borseggiato nel metrò, accenna a una reazione: Butcher, uno dei complici di Tsostsi, lo uccide senza pietà. Boston è l’unico della banda a ribellarsi, in nome della dignità, a questa esecuzione inutile; per tutta risposta, Tsotsi lo picchia ferocemente, per poi fuggire da solo, nella notte di pioggia battente. Davanti a una villa elegante, Tsotsi ruba una macchina, senza accorgersi che sul sedile posteriore c’è un bambino di pochi mesi. Dopo qualche esitazione, Tsotsi prende il bambino con sé. È l’inizio di un percorso di redenzione. Osservando il piccolo – a cui Tsotsi darà il suo vero nome, David – il ragazzo ritorna con la memoria ai momenti più duri della sua infanzia (la madre malata, il padre estraneo e violento), e s’interessa, forse per la prima volta, alla sorte di qualcuno più sfortunato di lui, un barbone paralizzato incontrato in metropolitana. Poi, non sapendo come nutrire il bambino, Tsotsi costringe una ragazza madre ad allattarlo; e con lei intreccia una goffa quanto inedita amicizia. Il ragazzo decide poi di tornare a casa dei genitori del bambino per tentare una rapina; in realtà, quello che vuole è vedere la camera del piccolo e prendere alcuni dei suoi giocattoli. Il padre del bambino però reagisce male; e per evitare che Butcher gli spari, Tsotsi è costretto a sparare a sua volta, uccidendo il suo compagno. Tornato a casa, ormai abbandonato da tutti i membri della sua banda, Tsotsi cerca di recuperare l’amicizia di Boston, curando le ferite che lui stesso gli ha inferto e offrendosi di pagargli la fine degli studi per diventare maestro. Alla fine, Tsotsi si rende conto di dover restituire il bambino alla sua famiglia: e nell’arrendersi alla polizia c’è forse, per lui, l’inizio di una nuova vita.
Presentazione Critica
Il regista sudafricano Gavin Hood ha lavorato, per questo film, all’adattamento dell’unico romanzo scritto dal drammaturgo Athol Fugard, anch’egli sudafricano, intitolato A Reasonable Man e pubblicato nel 1950, in pieno apartheid. Sceneggiatore e regista, Hood, la cui formazione cinematografica è statunitense, ha girato il suo film nella periferia poverissima e violenta di Soweto, vicino a Johannesburg, scegliendo attori locali che sapessero parlare il “tsotsi-taal”, il gergo delle bande criminali. La musica di accompagnamento nasce anch’essa dai luoghi reali del film: è la musica “kwaito”, una sorta di hip hop nato nelle periferie di colore. Il film possiede una struttura narrativa solida che lo avvicina senz’altro al film di gangster; i topoi del film – la lite con l’amico, poi recuperato; il progressivo smembrarsi della banda; l’accenno a una storia d’amore; il pentimento finale – sono quelli tipici del genere; e il percorso di redenzione di Tsotsi, che passa da una vita di eccessi e di violenza fine a se stessa a una comprensione maggiore di sé e degli altri, innescata dalla vicinanza del bambino, avvicina il film al classico romanzo di formazione che tante volte Hollywood ci ha raccontato. Quello che rende il film originale è l’ambientazione nel ghetto di Soweto, enorme periferia di Johannesburg, città vicina eppure lontanissima, con i suoi grattacieli che svettano luminosi nel cielo scuro, riflessi nelle lamiere delle baracche in cui vivono Tsotsi e i suoi compagni. Il ritratto di questo immenso sottomondo è penetrante e crudele, scandito dal ritmo incalzante della musica: gruppi di giovani vivono per le strade, bevendo birra e giocando a dadi, mantenendosi con furti e rapine; la violenza è il leitmotiv di ogni parola e di ogni gesto. Il regista sottolinea con forza l’isolamento di Soweto, il suo essere davvero un mondo a parte, isolato anche dalla lingua, un gergo incomprensibile parlato dalle bande criminali, rispetto al centro di Johannesburg, che vediamo solo per piccoli tratti: i vagoni impersonali della metropolitana e l’interno della casa elegante dei genitori del bambino involontariamente rapito da Tsotsi. È quello che della città possono intravedere Tsotsi e i suoi: è il mondo della ricchezza che non possono avere, certo, ma è anche l’esempio di una vita diversa, connotata da pulizia e affetto e non di sporco, polvere, cattiveria. Ed è quello che Tsotsi crede di intravedere nell’amicizia per Miriam, la ragazza cui chiede di allattare il piccolo; una piccola casa ordinata, i giochi di un bambino, la tenerezza materna. Sono spazi impenetrabili, segnati da confini invisibili ma impossibili da superare: a Tsotsi non resta che tornare nella sua baracca di lamiera circondata da strade polverose, a bere birra e giocare a dadi. Forse solo l’arresto da parte della polizia potrà dargli una nuova vita; o forse, scontata la pena, tornerà all’unica vita che conosce: il film lascia a noi la scelta.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Tutto il film è centrato sulla figura di Tsotsi – che in gergo significa “piccolo gangster” -, sul suo presente di capo di una piccola banda di delinquenti e sul suo passato segnato da lutti e violenze. L’inizio del film ce lo mostra assassino spietato e freddo, indifferente alle terribili conseguenze delle sue azioni; alle parole di Boston, che gli ricorda l’importanza di conservare la propria dignità, di non abbrutirsi, Tsotsi reagisce picchiando a sangue l’amico, in un rifiuto di ogni confronto che rispetta solo la legge del più forte. Poi, dopo una rapina anch’essa segnata dall’indifferenza per la propria vittima – il ragazzo spara senza esitare alla donna cui ruba l’auto – l’incontro inatteso con un bimbo di pochi mesi. In quella giovanissima vita Tsotsi sembra rivedere la sua; e, rubandola, è come se volesse riappropriarsi della sua infanzia, che gli è stata sottratta da un padre violento e da una madre malata e poi scomparsa troppo presto. Così, goffamente, esitando, il ragazzo cerca di ricostruirsi un’esistenza diversa. Confronta i suoi terribili ricordi d’infanzia – scappato di casa dopo l’ennesimo scontro col padre, ha vissuto per strada, avendo come unico riparo grandi tubi di cemento abbandonati – con la stanza del “suo” bambino, grande, ricolma di giocattoli, colorata e accogliente; ancora, confronta la tenerezza di Miriam verso i due bambini con la solitudine che ha sofferto. Così dà al piccolo il suo vero nome, David, quasi a volersi riappropriare di quell’infanzia felice che non ha mai avuto. Anche la sua indifferenza crudele nei confronti degli altri inizia a sciogliersi: s’interessa alla sorte del mendicante che chiede l’elemosina in metropolitana, cerca di curare l’amico Boston e di incoraggiarlo a riprendere gli studi. E, alla fine, il suo arrendersi alla polizia, dopo aver restituito il bambino ai legittimi genitori, è forse, da parte di Tsotsi, un lasciarsi andare alla speranza di poter entrare in quei luoghi che ha intravisto solo a brandelli, per inziare una vita diversa. L’idea di infanzia che emerge dal ritratto di Tsotsi è quella di una generazione abbandonata a se stessa, costretta a fronteggiare fino dalla più tenera età soprusi e sopraffazioni; un’infanzia che vive per strada, senza una famiglia o figure adulte di riferimento; un’infanzia che, tuttavia, sembra avere ancora in sé risorse per reagire e cambiare il proprio destino. Se nella rappresentazione del rapporto genitori/figli si sfiora un certo manicheismo (la violenza estrema del padre di David, la dolcezza assoluta di Miriam), cedendo talvolta alla retorica e al patetismo, il quadro che il regista ci propone resta comunque coinvolgente e di grande impatto, soprattutto grazie alla bravura del giovane interprete di Tsotsi. Presley Chweneyagae