di Aurelio Grimaldi
(Italia,1992)
Sinossi
Aclà, un ragazzo siciliano di undici anni, viene ‘acquistato’ da Rocco Caramazza per lavorare in qualità di “caruso” in una miniera di zolfo. Per otto anni, dal lunedì al sabato, Caramazza disporrà a suo piacimento del ragazzo, il quale si trova improvvisamente sottratto alla sua numerosa famiglia e catapultato in una realtà dove dominano la fatica fisica, la coercizione, il terrore, la violenza punitiva e quella sessuale, accettata quasi per tacita intesa. Aclà si mostra insofferente verso la dura legge della zolfara: dopo l’ennesimo pestaggio nei suoi confronti, l’undicenne fugge alla ricerca di quel mare che, nella sua concezione geografica, lo separa dalla sorella residente in Australia, terra alla quale aspira come una sorta di liberazione dalla violenta logica che lo lega al mondo della miniera. Ma la fuga di Aclà è destinata a fallire miseramente: riacciuffato dai carabinieri, viene riportato a casa dove subisce la violenza del padre. Per Aclà riprende la dura vita lavorativa, mentre il mare si presenta soltanto come immagine onirica.
Presentazione critica
La discesa di Aclà a Floristella racconta per immagini quello che già Pirandello e Verga avevano raccontato nelle due novelle intitolate rispettivamente Ciàula scopre la luna e Rosso Malpelo (anche se in questo caso in luogo della zolfara l’ambiente di riferimento era una cava di sabbia). Il triste tema narrato è quello del lavoro minorile nella Sicilia di inizio secolo (da alcuni elementi - la canzone Faccetta nera, il quadro di Mussolini che campeggia nella caserma dei carabinieri - si comprende che l’epoca in cui si svolge la storia è quella del Ventennio fascista), mostrato nelle sue caratteristiche più crude, iperrealistiche ed anche un tantino compiaciute, visto l’estetizzante indugiare della macchina da presa sui corpi sudati ed acerbi dei ragazzi o l’insistenza quasi “voyeuristica” nelle situazioni più sgradevoli e amare. La miniera di zolfo di Floristella viene contraddistinta fin da subito come l’antro infernale in cui Aclà, “caruso” del picconiere Rocco Caramazza (il “caruso” è il manovale, quasi sempre un ragazzo, che sta accanto a ogni picconiere e trasporta il minerale che questi stacca dalla cava), è destinato a soccombere tra mille pene, violenze e situazioni incresciose. La zolfara è intesa come luogo altro, parallelo alla realtà e dolorosamente alternativo ad essa, in cui vigono regole e norme di tipo quasi tribale, sicuramente caratteristiche di chi vive lontano dalla società civile, in un microcosmo dedito a bisogni elementari e pulsionali, coacervo di dannati mostrati con afflato pittorico e legati a bisogni primari, istintuali, irrazionali. Aclà, simbolicamente, diventa la vittima di una situazione che si fa subito pesante, sia per la fatica fisica (l’obiettivo immediato che gli impone Caramazza è di arrivare a trasportare sulle spalle venticinque chili di zolfo), sia per il clima di terrore instaurato (lo stesso Caramazza, appena conosciuto il ragazzo, gli sferra uno schiaffo in pieno volto per dissuaderlo preventivamente da qualunque tentativo di fuga), sia per la elevata possibilità di trasformarsi in un oggetto sessuale da stuprare. Aclà è considerato un vero e proprio oggetto da tradurre in una dimensione differente, alternativa al mondo della famiglia e degli svaghi fanciulleschi: il mutuo accordo che lo lega al picconiere Caramazza è detto “soccorso morto”, una assodata transazione a causa della quale il ragazzo diventa di proprietà dello zolfataro (nel caso di Aclà il contratto dura otto anni per la somma di cinquecento lire), in pratica una sorta di schiavitù post litteram alla quale è impossibile sfuggire perché non basta la volontà del singolo se è destinata a scontrarsi contro una prassi comunemente accettata, anzi sollecitata per far fronte alla miseria incipiente. Infatti il destino di un Aclà, che si dibatte con tutte le sue residue energie per evitare di lavorare in miniera, è quello di arrivare soltanto a sognare il mare verso il quale tende nel corso della sua fuga. L’aspirazione è di congiungersi con il vero volto di quella natura che l’infernale miniera con le sue opprimenti viscere nega recisamente, annullando di fatto lo slancio vitale che Aclà mostra nella sua alacre ricerca. La fuga verso il mare, in quanto allegoria di libertà, è inoltre una precisa assunzione metacinematografica che fa esplicito riferimento all’altra e più importante fuga, quella di Antoine Doinel ne I quattrocento colpi di François Truffaut, nel quale la vastità della superficie marina diventava il simbolo evidente del tentativo di affrancamento dalla logica perversa della forzata realtà del collegio. Ma se nel film del compianto maestro francese la libertà veniva raggiunta, nel lavoro di Grimaldi il significato, per palese contrasto, si mostra ancora più doloroso di quanto non sia già stato mostrato fino a quel punto, perché l’aspirazione di Aclà viene frustrata e la libertà tanto agognata viene soddisfatta soltanto sul piano dell’illusione, per una traslazione del senso e l’implicita ammissione dell’impossibilità di sottrarsi alle regole imposte e supinamente accettate. Giampiero Frasca