di Daniele Luchetti
Non sappiamo se La nostra vita, corroborato dal premio ottenuto a Cannes da Elio Germano per la miglior interpretazione maschile, costituisca effettivamente un piccolo punto di svolta nel cinema italiano, sempre alla ricerca di occasionali conferme della propria vitalità troppo spesso frustrata da assurde logiche produttive e distributive. Certo è che il ritratto iperrealistico e sempre a un passo dall’eccesso che il film ci dà del protagonista Claudio (capomastro romano che, in seguito alla morte della moglie, per compensare della perdita i tre figlioletti, decide di tentare il salto sociale ed economico improvvisandosi imprenditore nel capo dell’edilizia) si aggiunge a una galleria di uomini soli alle prese con nuclei familiari resi precari più che dalle contingenze della vita, da una serie di cambiamenti nella società impossibili da eludere.
Pensiamo alla solitudine del padre-padrone interpretato da Filippo Timi in Come Dio comanda di Gabriele Salvatores, a quella del padre putativo portato sullo schermo da Valerio Mastrandrea in Good Morning Aman di Claudio Noce, a quella del padre-allenatore interpretato da Sergio Castellitto in Alza la testa di Alessandro Angelini, a quella del padre divorziato e nevrotico ritratto da Silvio Orlando in Genitori e figli: agitare bene prima dell’uso di Giovanni Veronesi. Attraverso stili e generi diversissimi il cinema italiano tenta di fare i conti con una figura paterna totalmente da rivedere, specie in un Paese come il nostro che, proprio sulla distinzione e separazione dei ruoli tra uomini e donne, tra padri e madri, continua ostinatamente a fondare le proprie basi sociali e culturali. La controprova ci viene da La prima cosa bella di Paolo Virzì, ritratto di una madre coraggiosa e solare che, pur incapace di gestire la propria vita sentimentale (e spesso anche quella quotidiana della famiglia), riesce comunque a tirare su i propri figli e a esser loro accanto fino alla fine. La storia di questa donna, retrodatata agli anni Settanta-Ottanta (ma accostabile per molti versi ad alcune figure femminili portate sullo schermo già durante gli anni Sessanta dalla Commedia all’italiana), fa da contraltare nostalgico a un’attualità che difficilmente si lascia fermare su pellicola, specie se a essere protagoniste sono le madri di oggi, personaggi forse perfino più difficili da incasellare rispetto a quelli dei padri (si pensi all’eccentricità di una figura come quella di Maria in Lo spazio bianco di Francesca Comencini).
Rispetto alle altre figure paterne poc’anzi ricordate, precarie e a un passo dall’autodistruzione, quella di Claudio ha delle certezze incrollabili, radicate proprio in quel retroterra culturale italiano che ha sempre assegnato con precisione a ciascuno dei due sessi i rispettivi compiti: le donne sono troppo brave a fare i figli per andare a lavorare, gli uomini possono anche essere affettuosi e concedere piccoli spazi di iniziativa alle consorti ma devono mantenere il proprio ruolo di capifamiglia ben saldo. Ecco perché, quando la moglie muore dando alla luce il suo terzogenito, le alternative per Claudio sono due: ripiegarsi su se stesso in un ruolo di padre attento ai sentimenti dei figli che non riuscirebbe comunque a incarnare, oppure tentare di rafforzare una figura paterna vecchio stampo che, solo attraverso il potere del denaro e del successo sociale riesce a compensare agli occhi della prole una perdita irreparabile come quella della madre, anche a prezzo di compromessi morali sempre più grossi. Claudio elabora il lutto in maniera tutta sua, buttandosi a capofitto nel lavoro (anzi, negli affari), decidendo di mettersi in proprio, tentando quel piccolo salto sociale da lavoratore dipendente che trova continue conferme al proprio ruolo nella perfezione di un focolare domestico in cui tutto (o quasi) è come avrebbe desiderato (l’arredamento a buon mercato, la settimana di vacanza in Costa Smeralda, eccetera), a piccolo imprenditore che può dare ai propri figli non solo tutto ciò di cui hanno materialmente bisogno ma anche il superfluo, ciò che può contribuire a creare quell’immagine (consumistica e costosa) di un successo che compensa ogni perdita.
Del resto, quelle caratteristiche che potrebbero comporre il mosaico di un padre davvero all’altezza della situazione si ritrovano sparpagliate nelle altre figure maschili del film presenti in La nostra vita: l’umanità del fratello di Claudio, la modestia del cognato, la generosità dell’amico e vicino di casa testimoniano quanto sia difficile elaborare quella formula che riassuma in un unico personaggio un prototipo di genitore ancora tutto da costruire. Non è un caso se Claudio riuscirà a ritrovare la retta via assumendo su di sé il ruolo di padre adottivo nei confronti del figlio adolescente di un immigrato morto sul cantiere (una delle tante morti bianche che restano nell’ambito di quel sommerso non solo fiscale ma anche morale che purtroppo contraddistingue il nostro Paese). Forse pecca di ingenuità Lucchetti nel dividere il suo mondo in stranieri sensibili e italiani disillusi, apatici e freddi, ma è significativo che il bilancio umano del film si riequilibri proprio attraverso un rapporto “padre-figlio” costruito da zero, nel quale i ruoli si ribaltano, con il giovanissimo rumeno che impartisce una lezione di maturità all’adulto italiano disorientato dal luccichio di un successo che è un’apparente scorciatoia per la felicità.
A dispetto di un finale forse troppo consolatorio nel quale tutti riescono in qualche modo a “sistemarsi”, La nostra vita offre un bello spaccato antropologico di una Capitale (e di un’Italia) che è sempre di più quella degli irraggiungibili quartieri dell’estrema periferia urbana – piccoli alveari affollati di esistenze in bilico tra povertà e “successo”, esteriormente dignitosi ma in realtà totalmente sprovvisti dei servizi essenziali per la vita sociale – dei centri commerciali che sorgono nel bel mezzo del nulla, proprio come il palazzo preso in subappalto da Claudio, costruttore di case signorili all’apparenza ma con il deserto intorno.
Fabrizio Colamartino
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