di Paolo Virzì
Torna ai sapori, alle inflessioni dialettali, al folclore della sua terra Virzì con La prima cosa bella e lo fa in un film che, proprio come il suo modello di riferimento Ovosodo, mette al centro della scena la storia dolceamara del fallimento di una vita, dell’incapacità di far lievitare il proprio talento, in una società fossile e sclerotizzata che non cambia nella sua sostanza nonostante il passare degli anni.
Là erano le vicende di Piero a interessare il regista di Livorno: figlio di operai, brillante studente di letteratura, il ragazzo si vedeva costretto dopo varie disavventure amorose ad accettare un posto da operaio non specializzato nella ditta del padre, ripercorrendone la strada paterna in una ciclicità che non prevedeva riscatto sociale.
Qui, sono le vicende di Bruno (Mastrandrea) a fare da filo conduttore dell’affresco generazionale e famigliare, un insegnante di lettere tossicomane, in perenne crisi sentimentale con una fidanzata forte e serena (nonostante tutto), isolato dal resto della propria famiglia. Anche lui come Piero era un ragazzo brillante, intelligente, pronto per “fare il salto”, anche lui ora si accontenta – “nel mezzo del cammin di nostra vita” – di un’esistenza monotona e ripetitiva.
C’è una grande differenza tra i due film: Piero era orfano di madre, Bruno invece è solo scappato da una figura materna ingombrante e, insieme, affascinante (Anna interpretata dalla Sandrelli) che dovrà rivedere una volta ancora, perché malata terminale, e che lo aiuterà, grazie alla sua vitalità e al suo entusiasmo, a saldare insieme i cocci di una storia personale difficile e dolorosa. L’incontro con la donna sul letto di ospedale farà emergere poco per volta i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza di Bruno consentendo allo spettatore di rivivere la sua esistenza e soprattutto quella di Anna, giovane madre, con un marito violento e all’antica, con un sogno di successo nel cinema che la accompagnerà fino alla vecchiaia. Sempre solare, positiva, coraggiosa, Anna dimostra, nondimeno, un’incapacità cronica nel gestire la propria vita sentimentale: abbandona la casa dopo l’ennesima lite con il marito portandosi via i figli e facendoli vivere in un misero albergo; intreccia una relazione con un conte che le promette una carriera da attrice sfumata dopo una comparsata finita male e dopo un’accusa di violazione di domicilio; si avvicina a un avvocato sposato e ancora innamorato della moglie accettando di aiutarlo in una sua richiesta anomala (che non sveliamo perché fonte di colpi di scena finali); riallaccia una storia clandestina con l’ex marito, nel frattempo risposatosi con la sorella di Anna.
Sono passaggi, eventi e scelte, questi, che si ripercuotono inevitabilmente su Bruno e sulla sorellina Valeria, contesi a colpi di rispettivi rapimenti, da entrambi i genitori, in preda a vergogna e insofferenza per le malelingue che sparlano continuamente di loro e della loro madre. Così lo sguardo di Bruno bambino e adolescente si fa di giorno in giorno più cupo, dolorante, arido, fino alla sua fuga dopo l’ennesima pazzia di Anna, uno sguardo che il Bruno adulto non ha perduto e che – come dicevamo poc’anzi – solo la malattia terminale di Anna riuscirà a sciogliere.
Dalla descrizione appena svolta, il lettore che non ha visto il film può immaginare una piccola-grande tragedia, quando in realtà Virzì compone un leggiadro affresco familiare, con molti momenti divertenti e un’amarezza temperata da situazioni assurde e da un happy end abbastanza convincente. Peraltro le presenze di Mastrandrea e della Sandrelli si rivelano necessarie e puntuali per coniugare il registro comico con quello drammatico, il tocco lieve con una profondità delle cose solo allusa.
La prima cosa bella si dimostra, al di là di tutto, un’elegia della forma-famiglia, indipendentemente dalla sua composizione (classica, monoparentale, allargata, in affidamento, come diventa di volta in volta quella di Bruno) e dai danni commessi dai suoi membri. Un elogio soprattutto dell’amore e dei buoni propositi che animano i genitori anche quando determinano degli errori che, se commessi a fin di bene, paiono sempre, in qualche misura, recuperabili. Da questo punto di vista il regista sembra compiere un passo in avanti rispetto a Ovosodo, poiché la nostalgia per un tempo che non c’è più, per un’Italia più umana e vera (quella degli anni Settanta e Ottanta) non viene cancellata con la crescita e l’età, ma resta silenziosamente attiva nell’animo delle persone, come brace pronta a riaccendersi magari quando la vita volge alla sua fine. E da questo punto di vista l’esempio di Anna, capace di essere madre anche sul letto di morte, senza rinnegarsi e rinnegare niente del proprio passato, è una fonte di riscatto e di sollievo per le migliaia di genitori che, guardandola sul grande schermo, probabilmente in lei si riconoscono. In fondo basta cantare una canzone tutti insieme per ritornare a sentirsi famiglia. La prima cosa bella sei tu.
Marco Dalla Gassa