È probabile che il motivo dell’estrema varietà di approcci adottati da Antonio Capuano per raccontare Napoli, scenario unico di tutti i suoi film, stia nel tentativo di sfuggire all’immagine di un luogo che, anche grazie al cinema, è diventato sempre meno concreto e, allo stesso tempo, sempre più ricco di figure “caratteristiche” e stereotipi pericolosamente abusati. Dalle sperimentazioni di Vito e gli altri ai virtuosismi di Pianese Nunzio, dal kitsch di Luna rossa all’impegno di La guerra di Mario, uno è, il filo conduttore delle sue opere, altrettanto (se non addirittura più) pericoloso dal punto di vista dei cliché: sono stati sempre (o quasi sempre) bambini e adolescenti i protagonisti e i portatori dello sguardo sulle realtà napoletane più o meno difficili affrontate dal cinema di Capuano. Uno sguardo che non ha nulla di ingenuo o curioso e neanche di furbo e smaliziato (com’è tipico della tradizionale raffigurazione dello scugnizzo) ma che è già spento e disilluso, capace tutt’al più di rivolgersi alla macchina da presa per interpellare direttamente lo spettatore, per sfidarlo e, implicitamente, accusarlo. Di fatto, fin da Vito e gli altri, il suo cinema sembra voler sfidare le regole della normalità: non solo quella cinematografica, adottando – un po’ come tutti gli altri componenti della scuola napoletana – uno stile ben lontano da quello del cinema italiano medio e delle sue regole di “bella scrittura”, ma anche quella sociale, strutturata attraverso leggi e doveri, tesa a inquadrare soprattutto bambini e adolescenti all’interno di ruoli definiti. Per raccontare queste storie il regista sceglie un linguaggio dissonante, materiali eterogenei, frammenti assemblati, senza seguire le consuete logiche della narrazione, ma prediligendo un ritmo interiore, apparentemente casuale, istintivo. Egli si affida a una logica “tattile” che restituisce l’universo proprio di tutti gli adolescenti, in particolare di quelli che, come i giovani protagonisti dei suoi film, hanno già abbandonato o sono stati abbandonati in giovanissima età dalla famiglia, dalla scuola, dalle istituzioni, e che nella realtà della strada si ritrovano letteralmente immersi senza alcun genere di indicazione etica, morale, culturale che possa mediare e ricondurre le singole esperienze a un orizzonte di razionalità. Nell’universo dell'adolescente Vito lo schermo del videogame e quello televisivo diventano dimensioni intercambiabili e parallele a realtà altrettanto se non ben più violente e squallide. Anzi, rappresentano forse una dimensione alternativa a quella reale in cui rifugiarsi e trovare una qualche forma di catarsi (anche attraverso la stessa violenza riprodotta in scala minore rispetto a quella subita) quando il mondo degli adulti diviene troppo invadente, proprio come fa il bambino protagonista di La guerra di Mario. Un mondo degli adulti che ha tante facce: la variante “normale”, familiare, “borghese” (quella scelta, alla fine, per Mario dal giudice tutelare in La guerra di Mario) che spinge precocemente il bambino dentro un universo regolamentato che riproduce le convenzioni di una società al cui interno il futuro individuo dovrà agire conformemente alla legge; quella istituzionale cui i ragazzini vengono affidati nell’assenza di una dimensione familiare (assistenti sociali, avvocati, psicologi, giudici tutelari) nel vano tentativo di colmare un vuoto irreparabile; quella “alternativa”, corrispondente ad un universo di degrado e criminalità più o meno esteso (in Luna rossa è la stessa “famiglia” a riprodurre le dinamiche di potere e sopraffazione del mondo esterno) e che si propone come unico “habitat naturale” per quei bambini e adolescenti cui è stato negato il diritto a vivere la propria infanzia e che non hanno alternativa ad una crescita prematura, ad una maturità indispensabile per sopravvivere. Quest’ultimo spazio d’azione dei protagonisti, tra l’altro simile a quello dei videogame più o meno violenti ai quali giocano Vito, Nunzio e Mario, non è privo di regole, anzi – come suggerisce provocatoriamente e non senza ragioni Capuano – si propone come portatore di una “morale” propria e autosufficiente (si vedano, a tal proposito, il decalogo formulato attraverso le interviste-dichiarazioni ai ragazzini in Vito e gli altri e gli “insegnamenti” del nonno di Luciano in La guerra di Mario). La scelta del regista, dunque, è quella di restituire ambienti e situazioni dove l’a-moralità non è indifferenza ma impossibilità di stabilire, in una società basata su presupposti etici troppo fragili, cosa sia realmente giusto e sbagliato. Ecco, dunque, la preferenza per quelle figure di adulti profondamente contraddittorie come don Lorenzo, il prete anti-camorra con tendenze pedofile di Pianese Nunzio o Giulia, madre affidataria incapace di porre un freno a Mario (La guerra di Mario) che, tuttavia, sono anche le uniche in grado di stabilire con bambini e adolescenti un rapporto affettivo sincero, una forma di comunicazione che non sia mediata esclusivamente dalla coercizione e dalla violenza o, altrimenti, dal paternalismo o, peggio, dalla commiserazione. Entrambi i personaggi, pur nella loro incoerenza, sanno vedere nei giovani protagonisti ciò che gli altri adulti non intuiscono nemmeno: una bellezza che, prima ancora di essere interiore, è fisica, un amore (malsano quello di don Lorenzo, disperatamente materno quello di Giulia) per i loro volti e i loro corpi che si propone come principio etico e al tempo stesso estetico, uno sguardo che è anche quello del regista “rapito” letteralmente dai propri personaggi-interpreti e che nella loro bellezza sa trovare qualcosa che può elevarli al di sopra delle brutalità subite e consumate. Fabrizio Colamartino