La stanza del figlio

di Nanni Moretti

(Italia, 2001)

Sinossi

Ancona. Nulla sembra turbare la vita tranquilla e serena di Giovanni e della sua famiglia. L’uomo fa lo psicanalista, la moglie Paola lavora in una casa editrice, i figli, Andrea di diciassette anni e Irene di quattordici, vanno a scuola. L’unica preoccupazione che attanaglia i due genitori è l’accusa, rivolta al figlio e ad un amico, di aver rubato un fossile dal laboratorio di scienze. Per il resto, la loro vita procede monotonamente tra footing per le vie del porto, appuntamenti di lavoro, colazioni tutti insieme. Una domenica, tuttavia, un evento luttuoso sconvolge le loro esistenze: Andrea muore in un incidente in mare. Giovanni e Paola entrano in crisi profonda, allontanandosi l’uno dall’altra. Solo Irene cerca un modo per voltare pagina e superare tale perdita. Passato qualche tempo, arriva una lettera indirizzata ad Andrea: è di Arianna, una ragazza conosciuta in vacanza in campeggio, che gli scrive quanto si sia trovata bene con lui in quei pochi giorni di frequentazione. Giovanni e Paola, letto il messaggio, contattano la ragazza per avvertirla della scomparsa dell’amico e per invitarla un giorno a casa loro. E, in effetti, dopo qualche settimana, la stessa Arianna si presenta alla loro porta senza preavviso: siccome era diretta a Parigi in autostop con un amico, aveva pensato di andarli a trovare. Dopo una lunga chiacchierata chiarificatrice, vista l’ora tarda, Giovanni, Paola e Irene decidono di accompagnare i due ragazzi per un pezzo di strada. Ma quando arriva l’alba, la macchina è già giunta alla frontiera. Qui la strana compagnia si scioglie, mentre Giovanni e Paola si concedono una passeggiata sulla spiaggia prima di tornare ad Ancona.

Presentazione Critica

C’è un prima e c’è un dopo. Azioni apparentemente identiche acquistano significati del tutto diversi se si collocano anteriormente o posteriormente ad un evento spartiacque (come la morte di un figlio), capace di cambiare per sempre una vita, di rivoluzionare un’esistenza fino ad allora tranquilla e monotona. Una corsa per le vie del porto, una seduta di lavoro, una colazione al mattino: quanta differenza può esserci in un gesto ripetuto migliaia di volte e che ad un certo punto non ha più lo stesso valore di prima. C’è l’apparenza e c’è la realtà. Basta uno sguardo diverso, una prospettiva mutata, una soglia di attenzione più alta per scoprire quanto diversi siano gli oggetti da come li immaginavamo. Una teiera, considerata da sempre intatta e integra, rivela, ad uno sguardo più attento, una piccola crepa, rabberciata alla meglio, che parte dal beccuccio e scende fino al manico. Giovanni non se n’era mai accorto, ma è bastato cambiare il modo con cui vedeva le cose per rendere quella piccola imperfezione insopportabile ai suoi occhi. C’è il parlare e c’è il comunicare. Il parlare può essere vacuo, privo di veri messaggi, ripetuto nella banalità del quotidiano (un saluto al mattino, l’informarsi su come va la scuola), il comunicare è l’atto che precede la conoscenza, quell’azione che lo psicanalista Giovanni sa compiere con i propri pazienti, ma che non ha saputo attuare con suo figlio (tanto che egli può legittimamente crucciarsi di non aver mai “conosciuto” veramente Andrea). In mezzo a questi opposti dicotomici c’è un evento, la morte di un figlio, emblematicamente lasciata in fuori campo. Senza partire dalla dinamica del confronto – tra un prima e un poi, tra la superficie e la profondità, tra il silenzio e la parola, tra l’essere e il non essere – non si potrebbe analizzare La stanza del figlio nei suoi tratti fondamentali, quelli che riguardano la costruzione a tutto tondo dei protagonisti, vera novità stilistica di questo capitolo del cinema morettino e punto centrale del racconto. Senza avere coscienza che esiste un territorio altro dove si sta giocando la partita, i gesti banali con cui Giovanni, Paola e Irene affrontano la routine – sia essa quella di tutti i giorni o sia essa l’elaborazione del lutto – non sarebbero sufficienti per rappresentare il dolore profondo provato da quella famiglia. E invece Nanni Moretti vuole che siano proprio i piccoli atti quotidiani la porta attraverso la quale entriamo nella dimensione trascendentale della storia: prima della morte di Andrea, una colazione tutti insieme, le piccole bugie dei figli verso i padri (Andrea ha effettivamente rubato un fossile a scuola ma non ha avuto il coraggio di ammettere il furto davanti al padre), le corse sul lungomare del porto, le preoccupazioni dei genitori per l’andamento scolastico; dopo la sua morte, i pianti, le incomprensioni, gli scatti d’ira, i rimorsi per non aver fatto un gesto, per non aver detto una parola. Azioni comuni e senza immediata valenza simbolica che trovano senso se si leggono come movimenti impazziti e asincronici in un universo solo in apparenza ordinato, ma così fragile da poter implodere in qualsiasi momento. Come tanti Teseo sparsi, inconsapevolmente, in un labirinto senza uscita (si vedano le scene in cui Giovanni passeggia dentro la casa aprendo porte e seguendo corridoi che spesso non conducono da nessuna parte), con un Minotauro (il rimorso) pronto a divorare ogni sentimento umano, Giovanni, Paola e Irene vagano frastornati e senza direzione (si veda la passeggiata “sparsa” sulla spiaggia della Costa Azzurra) alla ricerca di un filo di Arianna che li possa far tornare a una vera quotidianità. La comparsa di Arianna (il cui nome non può essere casuale), ragazza con cui Andrea ha avuto un breve flirt in campeggio, diventa l’ancora cui si aggrappa la famiglia, non tanto perché riempie un vuoto emotivo quanto più perché rappresenta una seconda possibilità data a Giovanni e Paola per conoscere il figlio perduto: Arianna, con i suoi racconti e le sue foto, illumina una faccia che Andrea aveva sempre tenuto nascosta ai suoi famigliari. Tra i tanti temi sviluppati dal film, quello dell’inconoscibilità dell’altro appare il più sentito dal regista. Quanto si può conoscere veramente di una persona? Come si fa a scardinare il muro che un figlio erge per difendere la propria privacy – fatta di pensieri, dubbi, dilemmi, sentimenti – di fronte agli “attacchi” affettuosi dei propri genitori? Quanto possono diventare determinanti i mille e più “non detti” che costellano la quotidianità di ogni famiglia? Risposte che si cercano – spesso vanamente – nella stanza del figlio, tra i suoi oggetti più personali, sperando di trovare tracce di una vita vissuta e non raccontata, come una foto con un sorriso o una lettera, che possano aprire uno squarcio in questo buio. La notte del lutto sembra non passare mai. Tuttavia l’alba può arrivare all’improvviso, e sorprenderti in un posto diverso da quello in cui ti trovavi la sera prima (come ad esempio il confine con la Francia). Anche se poi il giorno ricomincia, la routine riprende e nulla è cambiato. Ma forse è questo il solo modo per superare un trauma. Marco Dalla Gassa

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