di Piet De Rycker e Thilo Graf Rothkirch
(Germania/Bulgaria, 2004)
Sinossi
Laura, sette anni, si trasferisce dalla campagna in una grande città in compagnia della mamma, del papà e del fratellino Tommy. L’impatto con la vita metropolitana è tutt’altro che facile per la bambina, che prova nostalgia per i luoghi natali e gli amici di sempre; così Laura finisce ben presto con il chiudersi in se stessa, e passa intere giornate nella sua camera in compagnia degli amati giocattoli. Laura è però dotata di una fervida immaginazione, e spesso sogna di volare sopra i tetti della città a bordo di un’astronave di cartone e in compagnia dei suoi pupazzi. Una notte, mentre Laura sta osservando il cielo dalla sua camera, una stella cadente precipita proprio nei pressi di casa sua. La bambina accorre sul luogo e trova una piccola stella “infortunata”, che nel cadere ha rotto una delle sue cinque punte. Con l'aiuto di Max, un suo coetaneo e vicino di casa, intervenuto a sua volta in soccorso dell’astro, la bambina conduce la stella in casa sua e le pratica un bendaggio alla punta ferita. Per sdebitarsi, l’inferma utilizza un po' della sua polvere luminosa per animare i pupazzi di Laura, e per condurla realmente in un giro turistico aereo sopra la città. Ben presto, però, Laura si accorge che la stella sta perdendo gradualmente luminosità: la lontananza dal suo habitat naturale, ovvero il firmamento, la sta debilitando. Serve una “cura ricostituente” fra le stelle disegnate di una quinta teatrale, poi per le due amiche sarà il momento di separarsi.
Introduzione al Film
Uno sguardo dal cielo
Tratto da un brevissimo - una trentina di pagine - libro illustrato per bambini dello specialista Klaus Baumgart, La stella di Laura è diretto dal veterano dell’animazione tedesca Thilo Graf Rothkirch - che produce con la sua Rothkirch Cartoon Film - e dal belga Piet De Rycker, e rappresenta uno dei prodotti di maggior successo di una delle “scuole” di cinema di animazione più fertili e feconde del panorama contemporaneo, se si eccettuano quelle americana e giapponese. L’animazione tedesca, infatti, nell’ultimo decennio ha fatto passi da gigante, anche - se non soprattutto - sul piano “mercantile” e della distribuzione internazionale, lavorando in controtendenza rispetto ai colossi provenienti da Stati Uniti e Giappone: lontani dall’opulenza, ma anche dalla raffinatezza metalinguistica, delle più evolute produzioni made in USA, e al tempo stesso ugualmente distanti dalla cifra barocca e ipertrofica dell’anime nipponico, in Germania i produttori di cartoons cinematografici hanno individuato un target di pubblico preciso, costituito perlopiù dalle fasce più basse di età, e hanno elaborato intorno a esso un format, o se vogliamo un “genere”, dal profilo identitario perfettamente definito. Narrazioni dal tono naïf, spesso mutuate dalla sterminata biblioteca per ragazzi in lingua tedesca accumulatasi fra il Diciannovesimo e questo primo scorcio di Ventunesimo Secolo, si accompagnano a illustrazioni e “messe in scena” che attingono in misura quasi egemonica alle tecniche di animazione tradizionale, e per tramite di queste ultime ripropongono in forma animata i tratti delicati ed elementari tipici dei libri di favole per bambini. La computer graphic è presente nella misura in cui è necessaria ad arricchire graficamente e plasticamente l’impianto visivo del testo, oltre che in relazione alle risorse finanziarie messe a disposizione dei realizzatori, non sempre ingenti; poco male, i film sono pensati per farne a meno. La stella di Laura è, rispetto a questi parametri, un testo assolutamente paradigmatico, tra i più rappresentativi del panorama dell’animazione per ragazzi tedesca degli ultimi anni. Il tratto grafico dei personaggi rasenta la stilizzazione assoluta, riproducendo l’elementarità dei disegni dei bambini, e i fondali, spesso fissi, possiedono una cifra quasi pittorica, sacrificando a quest’ultima il dinamismo e la verosimiglianza (si veda il parco con le fronde degli alberi completamente immobili). L’animazione computerizzata, per contro, è presente e bilanciata nell'economia della narrazione, ma non ne orienta mai in maniera vettoriale lo sviluppo; piuttosto, serve ad alimentare l’elemento fantasmagorico e di meraviglia, come se si trattasse di un’attrazione ben studiata per calibrare i momenti di climax del racconto: nella fattispecie, interviene nell'illustrare e sottolineare le “magie” della stella (la polvere magica emessa dall’astro) e i suoi effetti (alcuni fondali che improvvisamente prendono vita), a voler sottolineare lo scarto fra il grigiore della norma su cui è adagiata la vita della piccola Laura e l’iniezione di vitalità scaturita dal fortuito incontro con la stella. Sia sul piano narrativo che su quello visivo, si registra una progressione graduale, dai toni dimessi della prima parte all'epifania dell'ultima, in cui la presunta ostilità della metropoli nei confronti di Laura si tramuta in un’apertura della bambina nei confronti del nuovo ambiente, che finalmente la accoglie e la avvolge. La ripartizione del plot in tre atti (il trasferimento di Laura in città e lo spleen della bambina; l’incontro e la successiva amicizia con la stella e il piccolo Max; la “malattia” della stella e il congedo da Laura e Max) è utile proprio a sottolineare questo avvicinamento fra il piano della realtà e quello della fantasia, i quali finiscono con il compenetrarsi per mezzo dell’intervento di un agente esterno.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Il trauma del distacco
Chiaramente destinato alle fasce di età più basse, La stella di Laura restituisce l’impressione di essere stato realizzato tenendo presenti le teorie psicopedagogiche attualmente più diffuse. La piccola protagonista è, infatti, il paradigma dell’infanzia sradicata dal proprio milieu originario, e ripropone, ovviamente in una forma edulcorata e scevra da implicazioni perturbanti per i piccoli spettatori, il trauma della separazione dall’ambiente-guscio nel quale si sono trascorsi i primi anni della formazione di un’identità individuale, e i sintomi più frequenti dello stesso. Laura è una bambina introversa e tendente all’alienazione da tutto ciò che la circonda, il suo ripiegamento ombelicale in un’immaginazione tanto fervida quanto potenzialmente sconfinata suggerisce persino, fra le righe, alcune tracce di autismo latente; i giocattoli sono i suoi unici amici e il mezzo per fuggire, almeno in sogno, dai luoghi che la turbano; per contro, la grande metropoli è un luogo percepito da principio come ostile e pericoloso e, come tale, è tenuto da Laura al di fuori del proprio universo referenziale. La scaturigine di un tale comportamento è inquadrata con precisione certosina, e in funzione quasi didattica vengono eliminate in partenza tutte le possibili concause: Laura avrebbe tutto per essere felice, dei genitori amorevoli che si prendono cura di lei, un fratellino, una casa accogliente, una totale assenza di disagi sociali o psicologici tali da mettere in serio pericolo un sano percorso di crescita e formativo: l’unico trauma reso evidente dalla narrazione è dato dalla cesura rispetto a un luogo percepito dalla bambina come parte integrante della propria struttura identitaria. Per contro, gli agenti dell’emancipazione della bambina dal suo solipsismo sono assolutamente estranei al suo mondo. Uno di essi, il principale, ovvero la stella, è letteralmente una creatura ultraterrena, precipitata accidentalmente nel “mondo” di Laura. È grazie alla stella che la bambina transita dalla materializzazione delle sue fantasie – il volo sulla città, i pupazzi che prendono vita – alla scoperta dell’altro da sé. Un altro da sé che s’incarna nella stella medesima e in un secondo momento, in virtù di una sorta di processo di “gemmazione” restituito iconograficamente per mezzo della polvere luminosa che anima gli oggetti e in un certo senso rende più belle le cose, si estende all’intera città, che di colpo appare agli occhi di Laura tutt’altro che ostile. La stessa stella, pur non avendo alcuna fattezza antropomorfa – è priva di volto, non parla –, spesso assume a sua volta dei comportamenti da bambina, che vive lo stesso trauma dello sradicamento di Laura, in una forma in qualche modo ancora più violenta (è precipitata dal firmamento, è ferita). Il contatto con il trauma della stella, così simile al suo, nel quale specchiarsi, e la contestuale amicizia di Max, l’indigeno tutt’altro che ostile – peraltro coetaneo di Laura – e primo contatto di segno positivo con la nuova realtà metropolitana, la inducono ad abbassare poco a poco le sue barriere. È dunque il rapporto taumaturgico con le differenze e le alterità la chiave di volta interpretativa, e in un certo senso il “messaggio”, del film: la necessità di comprensione e compassione, e soprattutto la disponibilità ad attivare tali processi cognitivi e affettivi, abbattono le barriere comunicative e ridefiniscono il nostro rapporto con il mondo. Tuttavia, La stella di Laura non arriva mai, probabilmente per scelta degli autori, a farsi apologo morale: la sua dimensione rimane quella di una fiaba gentile a misura di infante, il cui messaggio di reciproca ed ecumenica comprensione trascende l’esaltazione di determinate virtù etiche per ripiegare su un discorso meramente didattico, più immediatamente recepibile dai giovani spettatori. La mimesi con l’immaginario infantile contemporaneo è garantita dall’aspetto grafico degli ambienti e dal look degli stessi protagonisti: in particolare il character design di Laura combina tratti somatici affini al disegno infantile – si ravvisano echi del tratto di Hergé, il creatore di Tintin – a un abbigliamento casual che colloca definitivamente la narrazione in un ambiente immediatamente e universalmente familiare. Anche per questo motivo, gli autori hanno preferito non connotare geograficamente l’ambientazione, limitandosi a illustrare scorci di una città-tipo di un qualsiasi paese del Nord-Europa.
Riferimento ad altre pellicole e spunti didattici
Tiffany e i tre briganti (Die Drei Räuber, Germania, 2007) di Hayo Freitag è un altro esempio di animazione tedesca recente che con La stella di Laura spartisce la giovanissima età della protagonista e un analogo messaggio di condivisione. Il tema dello sradicamento di un giovanissimo dal contesto ambientale a lui più familiare è lo stesso che informa Caterina va in città (Italia, 2003) di Paolo Virzì. L’incontro con l’altro come evento taumaturgico è al centro della narrazione di Il giardino segreto (The Secret Garden, USA/Gran Bretagna, 1993) di Agnieszka Holland, tratto dall’omonimo romanzo di Frances Hodgson Burnett. Sergio Di Lino