Presentato all’interno della sezione Orizzonti di una Mostra del Cinema di Venezia particolarmente attenta alla rappresentazione dei più giovani (ne parleremo in un prossimo articolo), L’intervallo di Leonardo Di Costanzo è già nelle sale cinematografiche dalla scorsa settimana. Ed è un bene, perché è – senza ombra di dubbio – una delle opere più interessanti programmate al Lido, pluripremiata (tra gli altri riconoscimenti il premio FIPRESCI e quello Pasinetti), dedicata ad un tema più volte affrontato dalla nostra cinematografia eppure raramente con questa delicatezza e precisione. Com’è noto, la contestualizzazione dell’adolescenza all’interno di un certo universo degradato napoletano, fortemente condizionato dalla presenza camorristica nella città, è quasi una sorta di sottogenere, tanti sono i titoli importanti che annovera. Possiamo ricordare ad esempio film come Scugnizzi (1989) di Nanny Loy, Vito e gli altri ( 1995), Luna rossa (2001), L’amore buio (2010), La guerra di Mario (2005), tutti firmati da Antonio Capuano, Certi Bambini (2004) di Andrea e Antonio Frazzi, Domenica (2001) di Wilma Labate, Gomorra (2008) di Matteo Garrone, Fortàpasc (2009) di Marco Risi e così via, molti dei quali sono stati studiati dal team di ricerca del Centro Nazionale e disponibili alla visione presso la Biblioteca Innocenti-Library.
La novità e peculiarità del film di Di Costanzo – peraltro già abituato a lavorare con i ragazzi napoletani, in ambienti chiusi e “fuori dal mondo” come quello scolastico (si veda il suo precedente documentario intitolato proprio A scuola (2003) – è quella di raccontare questa realtà partenopea senza mai veramente mostrarla, per sottrazione insomma, dal momento che tutto il racconto è ambientato all’interno di un enorme edificio fatiscente (una vecchia scuola, un casolare, un ospedale o una fabbrica abbandonata?), potenzialmente collocabile in qualsiasi spazio urbano, abitato per alcune ore da due adolescenti di periferia. Veronica, una quindicenne che si comporta come una donna matura e spregiudicata, viene infatti “reclusa” nella struttura per aver intrecciato una relazione con un ragazzo che appartiene a un clan nemico e attende di essere “processata” da Bernardino, il boss del quartiere; Salvatore, invece, sedicenne schivo e un po’ impacciato, venditore ambulante insieme al padre, viene costretto dagli uomini della cosca ad abbandonare il proprio carretto e trascorrere la giornata con Veronica per controllarla e non farla scappare in attesa dell’arrivo serale del boss. Con il trascorrere delle ore, tutte le diffidenze e le maschere “adulte” indossate dai ragazzi vengono progressivamente meno, sostituite dal riaccendersi di sogni, fantasie, emozioni proprie di una adolescenza che, nella quotidianità, i due non possono vivere appieno. D’altronde è proprio questo lento processo di denudamento emotivo, questo senso improvviso e inaspettato di libertà e complicità che li investe, a raccontarci, indirettamente, la durezza, la fatica, l’angoscia che deriva dalle prove cui sono sottoposti fuori dalle mura dell’edificio e che impone loro un atteggiamento disincantato, disinibito, atterrito, da cui ovviamente è difficile liberarsi.
La distanza, l’ “intervallo” tra il fuori e il dentro è acuita dal fatto che il dentro progressivamente acquista nuovi e inaspettati caratteri. All’inizio del film Veronica e Salvatore si trovano all’interno di stanze spoglie, sporche, con i muri scrostati e rifiuti di vario genere abbandonati sul pavimento. Nel momento in cui i due ragazzi decidono, per varie vicissitudini, di esplorare tutti gli spazi di questo enorme edificio, si aprono al loro (e al nostro) sguardo luoghi oscuri ma in qualche modo incantati, come un bosco dalla fitta vegetazione, dei sotterranei semiallagati che assomigliano a una grotta marina, una serra che assorbe e rilancia le luci del meriggio, un tetto che offre un panorama mozzafiato sui grattacieli del Centro Direzionale di Napoli. L’ambientazione diventa, così, poco per volta, metaforica e allusiva, si sentono, nei paesaggi, nell’uso raffinato dei suoni, nella fotografia nitida di Bigazzi, gli echi di un cinema metafisico come quello di Tarkovskij, mentre la macchina da presa si muove con leggerezza e discrezione trovando di sequenza in sequenza la giusta distanza rispetto ai protagonisti e alle loro sempre più intime emozioni.
Il “risveglio” è inevitabilmente brusco, preparato da un titolo – L’intervallo – che è anch’esso essenziale, preciso, afflittivo nella misura in cui non sembra offrire un motivo di speranza di cambiamento nella vita dei due protagonisti. Quella che vivono è insomma una pausa certamente preziosa, ma destinata a concludersi; una sospensione del tempo e dello spazio, una sorta di levitazione che prevede però l’inevitabile ripresentarsi di una forza di gravità che li spingerà a terra; una tregua, precaria e pacificatrice, in una guerra continua tra un desiderio di normalità e le logiche della prevaricazione criminale.
Spunti di visione e suggerimenti per un uso formativo delle immagini
Il film è altamente consigliabile per scolaresche (medie superiori), gruppi di ragazzi (dopo scuola, comunità, ecc..), nonché per figure professionali come gli insegnanti, gli psicologi e gli psicoterapeuti, gli assistenti sociali. Nell’ottica di una visione preparata e laboratoriale del film, si possono sviluppare diverse piste di lavoro:
- sulle modalità di sviluppo ed espressione dei sentimenti adolescenziali (vissuti in un tempo lento, condiviso, esclusivo diverso da quello comunemente sperimentato dai ragazzi),
- sul milieu criminale in cui sono inseriti i protagonisti (l’evidenza della cultura mafiosa a partire da battute, dialoghi, situazioni drammatiche che improvvisamente irrompono nella storia),
- sulla rappresentazione della città e di un certo immaginario (degradato e insieme poetico) del meridione italiano.
- sulle forme di racconto che mescolano e integrano elementi finzionali ed elementi propri del film documentario.
Marco Dalla Gassa