di Gus Van Sant
(USA, 2005)
Sinossi
Blake è una rockstar che sta trascorrendo un periodo di riposo in una casa immersa tra i boschi. Per lui le giornate si succedono vagando tra una stanza e l’altra, recandosi nel capanno degli attrezzi, provando senza convinzione canzoni, scendendo sul greto del fiume delle vicinanze. La monotonia non è rotta nemmeno dalla presenza di un gruppo di amici che condivide la casa con lui, ma dai quali il giovane si tiene alla larga, né da alcune visite estemporanee, come quella di un venditore di spazi pubblicitari delle Pagine Gialle o di una coppia di gemelli mormoni che intendono illustrare regole e attitudini della loro chiesa posta nelle vicinanze. La casa discografica lo cerca per l’organizzazione di un tour, un detective è sulle sue tracce, ma Blake si nega ad ognuno, continuando a fuggire anche da se stesso e ad annullarsi ora dopo ora in una completa mancanza di stimoli. Dopo aver suonato un’ultima sofferta canzone, Blake si chiude nel capanno degli attrezzi e si toglie la vita. La preoccupazione degli amici presenti nella casa è quella di fuggire per non essere coinvolti nelle indagini.
Introduzione al Film
La realtà narrativa frantumata Last Days fa parte della terza parte della carriera di Gus Van Sant, regista nato a Louisville, Kentucky, nel 1952, ma da anni residente a Portland, Oregon, ormai sua città di adozione. Dopo il lirismo metaforico della prima fase della sua filmografia, esplicitata dai film Drugstore Cowboy (id., Usa, 1989) e Belli e dannati (My Own Private Idaho, Usa, 1991), e la perfetta confezione hollywoodiana di lavori come Will Hunting – Genio ribelle (Good Will Hunting, Usa, 1997), Last Days si propone come terzo capitolo di una nuova tendenza linguistica inaugurata con il misconosciuto Gerry (id., Usa, 2002), avventura esistenziale di due giovani smarritisi nella Death Valley, lato californiano, proseguita con successo con il film della svolta, Elephant (Id., Usa, 2003), fredda restituzione del massacro del liceo Littleton, a Columbine, Colorado, ma trasposto nel liceo Whitaker di Portland, lavoro che, ponendosi sullo stesso versante drammatico del Bowling a Columbine (Bowling for Columbine, Canada/Usa/Germania, 2002) di Michael Moore, fu trionfatore al festival di Cannes e fece conoscere al grandissimo pubblico il nome del suo autore. In questa fase della carriera, Van Sant si affida all’attenta osservazione dei corpi, alla restituzione fedele dei loro movimenti, dei singoli atti, scavando nelle forme, nei volti e nelle espressioni con cura fenomenologica, giungendo al risultato di introdursi negli oscuri labirinti di drammi individuali, evidenziati attraverso l’essenza stessa dei personaggi. Anche in Last Days (che, rispetto ai citati Gerry ed Elephant, è certamente il meno riuscito, probabilmente a causa della ripetitività dell’assunto ma anche per una stilizzazione che non sempre risulta compiuta) la macchina da presa si sofferma con interminabili inquadrature sulla consunzione progressiva del personaggio di Blake, rockstar depressa, ispirata alla figura di Kurt Cobain, chitarrista e leader dei Nirvana (a dispetto della didascalia che al termine del film nega questa eventualità), suicida dopo uno stato di profonda prostrazione il 5 aprile del 1994 a Seattle, Washington. Per restituire il fondamento di questa crisi in atto, Van Sant estremizza quello che aveva già mostrato nei due film precedenti e sceglie un registro capace di frantumare la narrazione in lunghi piani su corpi che si afflosciano progressivamente, privi di una vitalità che possa essere in qualunque modo volitiva, miscela le carte della componente tempo intrecciando i riferimenti e capovolgendo le prospettive, rendendo soffocanti gli ambienti e gli esterni rispetto alla statura del protagonista, sempre più preda di un universo che lo soffoca e lo relega verso un nulla assoluto.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Una fine annunciata C’è un segmento che più di tutti gli altri riassume, da solo, tutto il senso del film e della crisi in atto nel biondissimo personaggio di Blake, rockstar in crisi profonda che ha da tempo abbandonato il volo degli angeli per una caduta vertiginosa che non ha ancora visto la sua fine. In uno dei tanti momenti vuoti di una giornata che non ha alcun riferimento se non l’oscurità che ad un certo punto si sostituisce alla luce del giorno, la macchina da presa, collocata esternamente rispetto a una delle finestre della grande casa di campagna in cui Blake si è rifugiato in compagnia di qualche amico, osserva il protagonista alle prese con alcuni strumenti musicali. Il suono è distorto, volutamente sgradevole, elettrico e ossessivo, quasi opprimente. Il movimento di Blake nella stanza è casuale e tende all’irrazionalità: non è dettato da una linea melodica, ma dall’umore, dalla schizofrenia del momento. La macchina da presa si allontana progressivamente, sempre di più, lungo una continuità che è insieme distacco e separazione ulteriore. Blake si distacca definitivamente dal mondo facendo quello per cui è diventato famoso, motivo primo del suo successo e causa principale della sua definitiva caduta. Il suono non è più armonico, modulato, coerente, ma perso in una serie di suoni inarticolati, privi di senso e progressione. Il cambiare continuamente strumento può alludere a una disarticolazione della propria identità, che introduce il concetto di perdita del significato rispetto al proprio atto, alla creazione musicale. L’allontanamento della macchina da presa è il definitivo atto di separazione da un mondo da cui ci si è già divisi precedentemente, rifiutando il contatto con l’altro-da-sé, con il manager, con il resto della band, con l’ipotesi di un tour mondiale, con la propria famiglia, con la propria bambina. Senso di perdita, tumulto individuale, risolutiva separazione: è intorno a questi tre concetti fondamentali che si determina la crisi di un individuo e la sua completa dissoluzione. Blake, infatti, non si suicida, ma si dissolve e il suo atto definitivo e cruento non è mostrato da Van Sant, ma messo in un’ellissi la cui rivelazione si avrà soltanto nella mattinata successiva, in una giornata inauguratasi con un sole magnifico che pare non alludere in alcun modo ad una tragedia: il corpo senza vita del giovane viene trovato da un giardiniere ed è osservato a distanza, oltre la porta d’ingresso del capanno degli attrezzi sul cui pavimento è riverso. Distante, ancora una volta. L’inquadratura di Van Sant coglie il distacco, non la partecipazione della tragedia: in sovrimpressione, il corpo nudo di Blake si solleva dal suo corpo inerte e scompare definitivamente in quel nulla in cui il suo personaggio è sprofondato. La tragedia è teatralmente preannunciata (Blake si aggira costantemente per l’abitazione con un fucile che allude ed anticipa l’atto compiuto contro se stesso, secondo il famoso principio cechoviano per cui «Se all’inizio di un dramma c’è un fucile appeso al muro, quel fucile prima della fine del dramma sparerà»), supposta allegoricamente (Blake è costantemente schiacciato all’esterno dell’abitazione da alberi giganteschi rispetto alla sua esile sagoma ed è visto spesso attraverso soglie di porte o finestre che metaforicamente rappresentano un momento di passaggio tra due dimensioni differenti), ribadita spazialmente (la rockstar in crisi vive praticamente separata dai suoi estemporanei coinquilini): si procrastina nel tempo il momento, ma l’esito è chiaro nella sua precisa manifestazione (e non solo perché il film sottintende una vicenda fin troppo nota). La separazione di Blake è uno dei mille volti di una lancinante solitudine che accelera l’ipotesi di crisi personale: senza cimentarsi nella giustificazione di una depressione che ha cause troppo complesse per essere analizzate da una pellicola, per quanto accurata possa essere nella sua illustrazione, ciò che si nota esplicitamente è che i pochi contatti tra Blake e i suoi amici che condividono gli stessi spazi dell’abitazione avvengono in funzione del bisogno che questi ultimi hanno dell’intervento del loro più celebre e (apparentemente) realizzato amico, chiamato di volta in volta ad avallare l’acquisto di un generatore per il riscaldamento, oppure a risolvere i problemi di ispirazione di uno dei musicisti presenti in casa. L’atteggiamento dei presunti amici di Blake è poi evidente nel momento in cui si sparge la notizia del suicidio: nessuna disperazione per la fine del ragazzo, ma una fuga precipitosa per evitare che la loro presenza possa essere ritenuta in qualche modo collegata alla tragedia. Una condanna alla solitudine e alla separazione che è solo una delle giustificazioni possibili per una fine preannunciata attraverso i procedimenti linguistici adottati da Van Sant, ma inevitabile per sua stessa costituzione e progressiva consunzione.
Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici
Last Days si inserisce nel cospicuo filone di pellicole dedicate alle star della musica rock. Rimanendo soltanto nell’ambito di quelle che mettono al centro della loro narrazione protagonisti in crisi e in odore di una tragedia imminente, il film di Van Sant può rientrare in una filmlist che comprenda anche The Rose di Mark Rydell (id., Usa, 1979), ispirato alla vita sfortunata di Janis Joplin, Sid & Nancy di Alex Cox (id., Gran Bretagna, 1986), sull’esistenza ai margini di Sid Vicious, bassista degli scandalosi Sex Pistols, alfieri del punk più sfrenato, e The Doors di Oliver Stone (id., Usa, 1991), su un’altra leggenda eccessiva e sfortunata come Jim Morrison leader dei Doors. Interessante, in una ipotetica lezione di approfondimento su tali pellicole, notare, oltre alla crisi dell’individuo che nonostante il successo è preda di ossessivi furori che ne distruggono anima e psiche, tutta l’illustrazione delle rispettive epoche e il sottobosco culturale in cui tali fenomeni di idolatria per le rockstar prendono corpo, vivificano e rendono leggendarie figure altrimenti considerate marginali.