di Pawel Pawlikowski
(Gran Bretagna, 2002)
Sinossi
Londra, aeroporto di Stansted. Una giovane donna russa, Tanya, arrivata insieme al figlio Artiom, viene respinta dai poliziotti dell’immigrazione: ha troppi pochi soldi con sé e nessun recapito in città, dato che il fidanzato, tale Mark, non è venuto a prenderla all’aeroporto come promesso. Mentendo, Tanya dichiara di essere una rifugiata politica e chiede asilo per sé e il figlio. Nell’attesa che la sua domanda venga esaminata (e ci vorrà, le dice l’impiegato, non meno di un anno), Tanya e Artiom vengono portati in una cosiddetta “residenza assegnata”: uno squallido appartamentino in un enorme e cadente palazzone grigio a Stonehaven, una piccola località sul mare. Da qui Tanya non può andare via (ci sono poliziotti e telecamere a sorvegliare ogni accesso; non può lavorare (non ha il permesso di soggiorno), né tantomeno tornare a casa, in Russia, quando si rende conto che Mark non ha intenzione di aiutarla in alcun modo. A darle una mano è invece Alfie, giovane gestore di una sala giochi di giorno e impiegato in una sala bingo di sera. L’uomo insegna l’inglese ad Artiom e le fa una corte discreta. Un giorno, Tanya viene contattata da uno strano personaggio, che le propone di girare video hard; la donna accetta, ma al momento di girare scoppia a piangere. Mentre la relazione tra lei e Alfie sembra farsi più seria, Artiom conosce un gruppo di ragazzini e passa il suo tempo con loro, tra alcol, sigarette e piccoli furti. L’uomo dei video torna a contattare Tanya; la donna rifiuta di tornare a lavorare per lui, ma Alfie intuisce di che cosa si tratta e ne è amareggiato. Anche Artiom è deluso, tanto da prendersi la prima sbronza della sua vita. Nonostante la delusione, Alfie promette a Tanya di aiutarla a scappare da Stonehaven: i tre riescono a fuggire a bordo di una barca. Nonostante l’affetto che ormai lo lega alla donna e al bambino, Alfie capisce che Tanya deve tornare a casa per ricominciare: i tre si salutano lungo l’autostrada, dove un camionista accetta di dar loro un passaggio fino a Londra.
Introduzione al Film
Primo lungometraggio del documentarista polacco naturalizzato inglese Pawel Pawlikowski, Last Resort si inserisce appieno nella tradizione narrativa del miglior cinema inglese, che ha il suo nome più importante in Ken Loach. Il film appartiene al filone del cosiddetto docudrama: un tipo di film che affronta tematiche sociali con esattezza e precisione documentaria, ma lo fa attraverso una storia di fiction che serve ad attirare e tenere desta l’attenzione dello spettatore. È una tradizione cinematografica che trova le sue origini nel film inglese degli anni Cinquanta, a partire dal cosiddetto Social Problem Film, e poi viene sviluppato, nel decennio successivo, da quei registi legati alle atmosfere del Free Cinema come Karel Reisz (Sabato sera, domenica mattina [Saturday Night and Sunday Morning, Gran Bretagna, 1960]) e Tony Richardson (I giovani arrabbiati [Look Back in Anger, Gran Bretagna 1958]): entrambi i movimenti coniugano l’attenzione alla realtà sociale e l’analisi critica dei fenomeni che la attraversano, con un occhio di riguardo per la condizione di disagio giovanile, con una vena narrativa forte e coinvolgente. È poi la televisione, e in particolare la BBC, a coltivare questo tipo di film. così non stupisce che sia BBC Films a produrre l’opera prima di Pawlikowski, che affronta, questa volta con il respiro del lungometraggio, il problema dell’immigrazione dai paesi dell’Est verso l’Inghilterra. In particolare, Last Resort ripercorre la storia di una giovane donna russa, Tanya, che lascia il suo paese per l’Inghilterra allo scopo di raggiungere un uomo, il suo fidanzato, che però la abbandona al suo destino. Così la ragazza si trova sperduta, in un paese che non è il suo e in compagnia del figlio, preda delle lungaggini burocratiche che la imprigionano in uno squallido palazzo e la costringono a cercare con ogni mezzo di guadagnare i soldi per il biglietto aereo di ritorno. Di conseguenza il primo bersaglio del regista è la pesantezza, e soprattutto la freddezza, della macchina burocratica inglese. Le persone che Tanya incontra all’ufficio immigrazione o alla residenza assegnata non sono scortesi né cattive: semplicemente sono del tutto anaffettive. Il loro aiuto agli immigrati è solo quello dettato dalle regole: eseguono il loro compito, niente di più. Nessuno sembra interessarsi veramente alla sorte di queste persone: una volta assolto il dovere di assicurare loro la sopravvivenza (un alloggio, un pasto caldo – che certo non è poco; ma non può essere tutto), gli immigrati vengono lasciati a loro stessi, con scarsissime possibilità di integrarsi nella società inglese che sembra tenerli volutamente al margine, in una prigione senza sbarre da cui non si può evadere. Così, le donne come Tanya – giovane e bella – divengono facilmente preda di sfruttatori e criminali di ogni tipo, come lo squallido personaggio che cerca di coinvolgere la protagonista in un commercio di video hard diffusi via internet. Fortunatamente, sembra dire il regista, ci sono anche persona come Alfie: non un santo né un devoto alla causa, solo un essere umano che s’interessa alla sorte di chi vive accanto a lui. Il film tratteggia con molta delicatezza il rapporto che s’instaura tra Alfie, Tanya e il piccolo Artiom, senza calcare la mano né abbandonarsi al patetico, ma cogliendo con tocco sensibile i piccoli gesti che vanno a costruire il legame fra i tre. Ma sono storie, queste, che non hanno un lieto fine, perché la durezza della realtà non lo consente: così Tanya e il figlio ripartono verso casa, abbandonando Alfie, che li ha aiutati a fuggire, alla sua esistenza monotona tra la sala giochi e il bingo, in compagnia di vecchie signore sole con le loro cartelle della tombola. E il film finisce come era iniziato, con Tanya e Artiom a bordo della navetta che collega gli aerei al terminal dell’aeroporto, lo sguardo perso di chi deve ricominciare a vivere un’altra volta.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Il ruolo di Artiom, dieci anni, che la madre Tanya porta con sé nel suo viaggio verso l’Inghilterra e la speranza di una vita migliore, è senz’altro centrale nel film. Lo vediamo per la prima volta, all’arrivo a Londra, osservare con curiosità il paesaggio che lo circonda: una periferia grigia e monotona, grandi palazzi anonimi. La curiosità iniziale e il gusto della scoperta di una realtà nuova – che lo porta a esercitarsi volentieri su un manuale per imparare l’inglese – si mutano in scetticismo quando vede la madre che, alle prese con l’ufficio immigrazione, dichiara mentendo di essere una rifugiata politica: «È pazza, ha già cambiato tre volte la sua storia» mormora il ragazzino, dimostrando così una notevole consapevolezza di ciò che accade intorno a lui. La stessa consapevolezza è dimostrata da Artiom quando l’uomo dei video hard avvicina la madre: subito il ragazzino si rende conto della situazione («Lo sai che quelli sono protettori, vero?», dice alla madre). In effetti Artiom è descritto nel film come un ragazzino estremamente maturo, come fosse cresciuto precocemente; il racconto non lo dice, ma possiamo intuire che l’essere cresciuto senza padre («Mio padre è morto», afferma perentoriamente e senza aggiungere altri particolari rispondendo a una domanda di Alfie) e in una situazione sicuramente non facile lo ha portato alla necessità di cavarsela da solo, interpretando a fondo la realtà che lo circonda e assumendosi responsabilità che di solito i bambini della sua età non hanno. Anche il legame con la madre Tanya è declinato secondo questo modello. Il loro rapporto sembra più quello paritario tra due adulti che non quello di dipendenza tipico delle relazioni madre/figlio. Se si esclude un piccolo sussulto di gelosia legato al rapporto della madre col fantomatico Mark, tra il bambino e la madre sembra esserci una relazione di forte sostegno reciproco. Così è Artiom a consolare la donna dell’abbandono del fidanzato, carezzandole la testa, in un’evidente rovesciamento di ruoli. Anche da parte di Tanya c’è un atteggiamento di grande confidenza e fiducia nei confronti del figlio: la disavventura col magnaccia, che il bambino intuisce con molta lucidità, viene poi confessata con sincerità dalla donna come si farebbe con un fratello piuttosto che con un figlio. Ancora, come un adulto deluso, Artiom si sbronza quando capisce quale tipo di lavoro la madre ha tentato di fare; ma come un adulto ragionevole reagisce in seguito, ascoltando la confidenza della madre e comprendendone la disperazione. L’essere precocemente adulto di Artiom è evidente anche nelle sequenze che descrivono il rapporto di amicizia che il ragazzino avvia con altri bambini che vivono a Stonehaven. Nessun adulto (genitore, familiare, assistente sociale) sembra occuparsi di loro: e il gruppo passa il proprio tempo imparando a bere e a fumare, imbastendo piccoli traffici e furtarelli. I comportamenti della banda imitano gli unici modelli che vengono proposti loro: quelli di un’esistenza sbandata e senza regole, in cui domina la legge del più forte. È sconcertante vedere come Artiom e gli altri ragazzini assumano con naturalezza i (peggiori) comportamenti degli adulti: bevono, si ubriacano, fumano, rubano e trafficano con la stessa facilità con cui potrebbero giocare a pallone per le strade. Essere grandi, per Artiom e gli altri, è anche questo. L’idea di infanzia che emerge dal film è dunque quella di un’infanzia negata: un’età che dovrebbe essere quella dei giochi e di una lenta iniziazione alla vita viene presto superata e quasi cancellata per portare il ragazzino a una precoce comprensione e consapevolezza del mondo, segnata dall’esperienza dolorosa della separazione – prima quella, che non vediamo nel film, dal proprio paese, poi quella da Alfie, cui il ragazzo si lega come a un secondo padre – e dell’estraneità di ciò che lo circonda (Stonehaven è un luogo ostile, in cui nessuno, eccettuato Alfie, sembra prestare attenzione ai bambini). Da un lato – lo si vede particolarmente nel rapporto con la madre e con Alfie - Artiom è un ragazzino sensibile e maturo, capace di comprendere le esigenze e i sentimenti della donna e di rendersi conto del sincero affetto dell’uomo; dall’altro, il superamento frettoloso dell’innocenza infantile lo porta anche ad acquisire i modelli negativi e i comportamenti deviati che la società che lo circonda gli propone.
Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici
L’idea dell’infanzia negata e della precoce assunzione di responsabilità da parte dei bambini, fondante in Last Resort, è un tema che è al centro di molti film del neorealismo italiano: si pensi ai lavori di Vittorio De Sica come I bambini ci guardano (Italia, 1943) e Ladri di biciclette (Italia, 1948), in cui i bambini sono veri e propri piccoli adulti capaci di interpretare il mondo che li circonda anche nei suoi aspetti meno edificanti: nel primo film il piccolo Pricò è testimone silenzioso quanto consapevole del tradimento della madre, evento che porterà il padre al suicidio; nel secondo, Bruno, durante la lunga giornata che trascorre in compagnia del padre, disperato per la perdita della bicicletta che è il suo unico mezzo di sostentamento, acquisisce la consapevolezza della vita adulta ed è in grado, alla fine del film, di stringere la mano al padre da pari a pari, offrendogli comprensione e sostegno. Esistono poi una serie di film che, seppure declinati più in chiave di commedia, esaminano il rapporto tra la società inglese e i gruppi di immigrati dal punto di vista degli adolescenti: tra questi ricordiamo East Is East (id., Gran Bretagna 1999) di Damien O’Donnell ambientato in un sobborgo di Londra abitato in gran parte da pakistani, e Sognando Beckham (Bend It Like Beckham, Gran Bretagna, 2002) di Gurinder Chadha, in cui l’integrazione di una ragazza anglo-indiana passa attraverso il successo nel football femminile. Chiara Tognolotti