regia di Silvio Soldini
Sinossi
Elena, chimico quarantenne di una ditta di cosmetici, si imbatte, a causa di un incidente d’auto, in una vecchia donna di nome Anita, slava, che vive insieme ad un gatto in un buio appartamento di Treviso. La giovane donna diventa, per l'anziana ottantenne, l'unico contatto con il mondo esterno e quando quest'ultima muore, è Elena a dover sistemare e liberare la casa. Curiosando tra i mobili e le carte Elena scopre una lettera con un dentino e la foto di una bambina che vive nel sud d'Italia. Immaginando che sia la nipote, decide di andare a cercarla. Arrivata a Taranto, con un po' di difficoltà, trova sia la bambina, di nome Teresa, sia la mamma, di nome Maria, ma nemmeno loro sono imparentate con la defunta. Elena riparte delusa. Sia Elena sia Maria dimostrano un profondo male di vivere, incapaci di stare nelle loro vite. Quando, con la scusa di visitare il nord, Maria e la piccola Teresa vanno a trovare Elena, tutte e tre riscoprono un nuovo equilibrio, quasi come se l'incontro con l'anziana ed eccentrica slava le avesse avvicinate come con nessuno mai. Il viaggio verso il Monte Bianco, che Teresa voleva assolutamente vedere, diventa così un modo per tornare libere e per trovare una nuova voglia di vivere.
Presentazione critica
Silvio Soldini firma, con Le acrobate, uno dei film “dalla parte delle donne” più suggestivi, affascinanti, veri. Diviso in quattro parti, intitolate come i nomi delle quattro protagoniste del film (Elena, Anita, Maria, il viaggio di Teresa), la pellicola indaga le interdipendenze che incorrono tra le diverse età della vita, le aspirazioni mancate, l'insoddisfazione quasi congenita che colpisce “l'uomo” (ma bisognerebbe dire la “donna”, intendendo però il termine nel suo senso più universale) qualsiasi sia la sua età, la sua condizione sociale, la sua provenienza geografica: Elena, chimico trevigiano in carriera, con un compagno assente, un ex marito con il quale ha un buon rapporto e nessun figlio, si ritrova a piangere davanti alla televisione; Maria, trentenne donna del sud, madre di una bambina, con molte aspirazioni represse e un cattivo matrimonio, non sa più dove cercare la felicità, certamente non nella famiglia, né in un provino per andare in televisione; Anita, vecchia e sola, che vive con i gatti e non conosce nessuno, aggredisce le persone che incontra come se fosse giustamente in lotta con il mondo e con tutte le sue forme; Teresa piccola bimba curiosa, “scienziata” per quel voler fare sempre esperimenti, non vuole andare a scuola e, come dice la maestra, è sempre disattenta, confusionaria, irrefrenabile. Le quattro “acrobate” sono unite da un filo rosso che le tiene insieme nonostante le distanze, un filo rosso che ha la forma di un dentino, visto che è questo piccolo oggetto caduto dalla bocca di Teresa nelle mani della madre, spedito da quest'ultima a Treviso da Anita, trovato per caso da Elena in una busta in casa della vecchia slava e riportato di nuovo a Taranto e consegnato alla madre, ripreso dalla figlia e ricondotto al nord durante il viaggio a Treviso e sotterrato sotto la neve del Monte Bianco, che permette alle donne di incontrarsi, di conoscersi e di liberarsi finalmente di quest'angoscia esistenziale che, al di là dei motivi o delle ragioni da cui è cagionata, quasi inevitabile, “c’è”. L'irrimediabilità di questo sentimento si scontra contro il volere e le domande della bambina. Infatti, il personaggio di Teresa, attraverso il dentino perso, la sua voglia di scoperta, la curiosità, i suoi occhiali, finisce per diventare il centro del vortice relazionale delle due protagoniste, la benzina da mettere nel motore delle loro ricerche interiori. L'allontanamento dalla società - perché il viaggio finale è un evidente ritorno alla natura, spazio per la riscoperta dei sentimenti e del ritmo vitale di Elena e Maria - avviene solo grazie all'ossessione della bambina per il nord e il suo insistere per vedere il Monte Bianco. Ma il nord è una meta non tangibile e quindi simbolicamente non raggiungibile: c'è (quasi) sempre altro nord al nord raggiunto. Il viaggio, spesso acrobatico, faticoso, senza apparente fine, è uno stato imprescindibile della persona e solo l'incontro con l’altro può dare sapore e senso al procedere. Teresa è lo strumento di Soldini per rappresentare questo atteggiamento vitale, non contenibile, non marginabile, così come la bambina: non ci riesce la scuola, che non sa far altro che appioppare alla piccola false etichette (per la maestra la sua vivacità è causata da “problemi in famiglia”), non ci riesce la madre, che prova a trattenerne la foga per il nord o per gli esperimenti scientifici, né tanto meno Elena che non riuscirà a sorprenderla nel suo esperimento luminoso (Teresa rimane meravigliata, ma si attendeva che la luce si accendesse) né a raggirare il discorso dal suo richiedere continuo di un viaggio verso la montagna. Teresa, con cui si chiude simbolicamente il racconto, è depositaria del senso della vita e della sua inspiegabilità. Ce lo ricorda una battuta paradigmatica del film che si scambiano Elena e Maria: “Ma sono tutte così le bambine?” domanda la donna del nord. “Così come?” risponde l’altra. Ed è l’unica risposta possibile, perché è l’unica definizione che paradossalmente non applica, a questo concetto, dei confini.
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