di Patricia Cardoso
(USA, 2002)
Sinossi
Los Angeles. Ana, diciotto anni appena compiuti, di origine messicana, ha appena terminato la scuola superiore e non sa se iscriversi all’università o cercarsi un lavoro. La madre ha già le idee chiare in proposito: inizierà a lavorare nella sartoria gestita dalla sorella – che rischia di chiudere per problemi finanziari – e si preparerà a diventare una brava donna di casa. Di contro, il suo ex insegnante, l’ispanico Mr. Guzman, fa di tutto affinché la ragazza si iscriva alla prestigiosa Columbia University, dove potrebbe vincere una borsa di studio e garantirsi un futuro radioso. Ana, da parte sua, combattuta tra le ambizioni e il volere dei suoi familiari, non sa cosa scegliere, anche se si rende conto che è difficile lottare contro la testardaggine della madre e la povertà in cui versa la famiglia. Accettato, come impegno estivo, il lavoro in sartoria, Ana scopre poco per volta cosa vuol dire appartenere ad un microcosmo di donne immigrate che lavorano in pessime condizioni, all’ombra delle grandi industrie; comprende le paure e i sacrifici della madre e della sorella, impara a non giudicare con sufficienza un mondo fatto di ignoranza, tradizioni, cultura popolare, ma anche di tanta umanità. Rafforza, soprattutto, la propria autostima, facendo delle sue forme non certo filiformi – in contrasto sia con l’immaginario collettivo di bellezza (dove una donna deve avere al massimo una taglia 46 per essere accettata) sia con quello tradizionale (per il quale una donna deve essere magra per trovare marito e arrivare vergine al matrimonio) – un elemento di forza e non di handicap. Così, dopo aver aiutato la sorella a consegnare in tempo un carico di vestiti per un’importante boutique cittadina, aver conosciuto l’amore e il sesso grazie ad un breve flirt con Jimmy, ex compagno di classe, aver convinto il padre (ma non la madre) che lasciare la famiglia per l’Università è un’occasione che merita qualche sacrificio, Ana accetta la borsa di studio e si trasferisce a New York.
Introduzione al Film
All’ombra delle icone Come già messo in evidenza in altre schede (Sognando Beckham, East is East, Terza generazione) e in un percorso di visione dedicato al tema (Gli immigrati di seconda generazione e il cinema), le commedie etniche – di cui fa parte a pieno titolo anche Le donne vere hanno le curve – sono diventate negli ultimi anni una sorta di sotto-genere molto frequentato dal cinema europeo e statunitense. Il merito di questi film è di affrontare a viso aperto, ma con toni leggeri, uno dei problemi più caldi che le società contemporanee devono affrontare nell’epoca della mondializzazione: l’integrazione e il mescolamento delle diverse culture nazionali e religiose, senza che esse vengano diluite, stemperate e magari vadano perse, a favore di una cultura di massa fedele ad un solo sistema culturale/economico dominante, quello dei paesi più ricchi. In effetti, non può essere casuale la che la location del film dell’esordiente Patricia Cardoso sia proprio Hollywood, centro del mondo capitalistico, della quale si intravedono strade famosa (il Sunset Boulevard, tra tutte) e qualche fuoriserie, ma nessuna star, nessun set, nessuna scritta gigante che domini le colline della sterminata metropoli, nessuna delle icone che caratterizzano l’immaginario sulla città del cinema e dei sogni consumistici. All’ombra di Hollywood vive, al contrario, una comunità di origini messicane che rappresenta il modello contrapposto a quello del divismo: i suoi membri parlano prevalentemente spagnolo, viaggiano su vecchi fuoristrada, lavorano per rendere bello e lindo il mondo dei ricchi (la madre e la sorella cuciono vestiti per importanti stilisti, il padre di Ana fa il giardiniere nelle ville), si aggrappano alla solidità del nucleo famigliare per sopravvivere e affrontare le difficoltà del mondo (la sartoria a conduzione familiare). Le donne della comunità, poi, sono la negazione del modello di bellezza prevalente, visto che sono quasi tutte basse, corpulente, con lineamenti marcati e vestite umilmente, eppure di nascosto e controvoglia contribuiscono a renderlo dominante, cucendo abiti dalle taglie ridottissime per le boutique del centro. È questa fertile contraddizione che fa da substrato per i temi portanti del film: il conflitto intergenerazionale, l’accettazione di sé e del proprio corpo, la centralità dell’istruzione per sperare nell’emancipazione. Ana, pertanto, più che essere un personaggio che affronta un percorso di formazione verso l’età adulta, sembra catalizzare su di sé, o forse bisognerebbe dire “incarnare”, sia le contraddizioni latenti della sua famiglia e della società dei “ricchi” sia la loro possibile soluzione. Vediamo come.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Una finta donna vera Fin dalle prime sequenze del film, Ana è perfettamente consapevole dei suoi limiti, delle sue potenzialità e degli ostacoli che intralciano le sue aspirazioni. Sa di essere intelligente, ma sa anche di non poter andare all’università perché troppo povera, non vuole seguire le orme della sorella e intende cercarsi un lavoro che la renda indipendente, non condivide la visione della donna promossa dalla madre (più volte ribadisce che non è importante arrivare al matrimonio vergini o magre, ma che conta la testa, il carattere, la profondità di una persona) e vive la scoperta del sesso e dell’amore in maniera serena e consapevole (è lei che compra i preservativi per fare l’amore con Jimmy). In altre parole è una ragazza già matura, fiera di sé, lontana dalle insicurezze e dalle fragilità dell’adolescenza. Il suo apprendistato in sartoria – determinato dalle difficoltà economiche della sorella Estela – diventa così un’esperienza di testimonianza più che di formazione, di certo un modo per conoscere più da vicino l’umanità delle lavoranti di origini messicane, ma anche un’occasione per trasmettere i propri valori a donne di un’altra generazione (madre compresa). Particolarmente riuscita è la scena in cui, su suggerimento di Ana, le lavoranti si spogliano mostrando cellulite, forme abbondanti, rotoli di grasso e affermando in tal modo il proprio orgoglio di “donne vere”; altrettanto significativa è quella in cui la protagonista accompagna la sorella in una lussuosa casa di moda per chiedere un anticipo di pagamento ad un committente, convinta del fatto che si deve lottare per mitigare le disuguaglianze economiche tra le lavoranti immigrate e i ricchi datori di lavoro. Se la sua presenza in sartoria serve dunque da “evidenziatore” delle contraddizioni insite nella società e nella comunità ispanica, contemporaneamente Ana rappresenta anche la loro possibile soluzione. Grazie alla sua intelligenza, alla caparbietà, all’insistenza di un bravo maestro – non a caso l’ispanico (dunque consapevole della situazione in cui vive) Mr. Guzman – e alle possibilità di realizzare i propri sogni che la società americana offre a ogni suo cittadino (umili e immigrati compresi), Ana vince una borsa di studio alla Columbia University e si trasferisce a New York. Si tratta senza dubbio del primo passo verso una sicura emancipazione dalla povertà, dai valori tradizionali (e ottusi) testimoniati dalla madre e da un sistema economico ingiusto che rischia di vessare le minoranze etniche, un passo che – come conferma anche la medesima soluzione narrativa presente in Sognando Beckham – è possibile solo con l’abbandono (momentaneo) del nucleo famigliare e l’inizio di un iter scolastico di eccellenza. In ultima analisi, la regista realizza un film in cui il personaggio principale è bidimensionale, forse poco verosimile, la cultura messicana è tratteggiata in termini probabilmente un po’ vaghi e schematici (soprattutto per quanto concerne le motivazioni che spingono la madre ad opporsi alla fortuna della figlia), ma nel quale il messaggio non solo è universalmente valido, ma anche decisamente controcorrente, almeno a quelle latitudini: con quella passeggiata curiosa per le vie di Manhattan, Ana afferma, infatti, che per diventare “vere donne”, ossia adulte, bisogna prima saper essere “donne vere”, ossia capaci di accettare sé stessi, compresi i propri “presunti” difetti estetici.
Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici
Le donne vere hanno le curve è una commedia divertente, adatta ad ogni tipo di pubblico. Se all’interno di un percorso tematico/didattico sulle problematiche dell’integrazione potrebbe costituire un esempio poco profondo e incisivo (per maggiori informazioni rimandiamo ai percorsi di visione dedicati al fenomeno dell’immigrazione), in un lavoro sui modelli di bellezza e successo proposti dai media, il film della Cardoso potrebbe rappresentare un interessante caso di analisi, soprattutto se messo in relazione con altre pellicole in cui il successo delle giovani protagoniste deriva essenzialmente da determinate qualità estetiche o atletiche (si veda ad esempio i recenti Save the Last Dance di Thomas Carter o Honey di Billie Woodruff).