di Nanni Loy
(Italia, 1962)
Sinossi
All’indomani dell’8 settembre 1943 la popolazione di Napoli insorge spontaneamente contro gli occupanti tedeschi. Per quattro lunghi giorni gli abitanti della città si battono con ogni sorta di mezzo, sopperendo alla disorganizzazione e alla mancanza di armi grazie all’entusiasmo e alla propria proverbiale arte di arrangiarsi. Tra le molte storie narrate dal film spiccano quella di un gruppo di ragazzini fuggiti dal riformatorio e aggregatisi spontaneamente ai combattenti e quella di Gennarino Capuozzo, un bambino di soli dodici anni, morto nel tentativo di fermare un carro armato nazista.
Introduzione al Film
Articolato secondo le cadenze dell’epica popolare, mosaico di episodi collegati da un tenue filo narrativo all’interno dei quali spiccano una serie di personaggi volutamente anonimi, descritti per tratti sommari ma caratteristici, Le quattro giornate di Napoli, nel tentativo di presentare l’insurrezione come fenomeno spontaneo ed unanime, resta entro i limiti abbastanza ristretti della descrizione cronachistica di avvenimenti minori. Girato da Nanni Loy a un anno di distanza da Un giorno da leoni (1961) – sempre incentrato su vicende della resistenza all’indomani dello sbandamento causato dall’armistizio dell’8 settembre del 1943 – il film è imperniato per lo più su vicende che hanno per protagonisti adolescenti e bambini. Una scelta, questa, sicuramente dettata oltre che dalla fedeltà a fatti realmente accaduti – il film è dedicato proprio a Gennaro Capuozzo, medaglia d’oro al valor civile – anche da un’iconografia consolidatasi nell’immaginario del pubblico, quella di molti film del neorealismo che avevano spesso per protagonisti dei bambini al fine di mettere ancor meglio in evidenza gli orrori della seconda guerra mondiale. Il ricordo va, naturalmente, a film come Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica, Roma città aperta (1945), Paisà (1946) e Germania anno zero (1947) di Roberto Rossellini. Ma, se in questi ultimi lo sguardo dei registi si posava sulle vicende narrate ora con freddo distacco (pensiamo in particolare a Germania anno zero), ora con attenzione commossa (è il caso di Sciuscià), rendendo tangibile l’assurdità del coinvolgimento di bambini e adolescenti all’interno di un conflitto, nel nostro caso la scelta è quella di esaltare acriticamente l’eroismo degli scugnizzi al fianco degli insorti. L’intero film, del resto, punta sull’uso in chiave celebrativa di una sorta di patetismo legato sempre a figure di giovani e di adolescenti. L’uccisione di due ragazzi durante una sparatoria con i tedeschi dà il via al moto di rivolta popolare quando gli insorti, distesi sul tetto di una macchina i corpi dei due, prendono a girare la città incitando la gente a scendere in strada e a combattere. L’episodio del carcere minorile, poi, è emblematico: sono i ragazzi, con la loro incoscienza, a coinvolgere il direttore del riformatorio nella battaglia. Quest’ultimo da severo carceriere si trasforma in padre amorevole e protettivo nei confronti dei giovani insorti, restando ferito durante uno scontro a fuoco con i nazisti. Allo stesso modo la morte di Gennarino Capuozzo rappresenta la nota acuta, all’interno del dramma corale, che dà il via a una serie di gesti eroici determinanti ai fini della vittoria. Del resto, l’immagine stessa del bambino che, quasi a mani nude, fronteggia il carro armato, vuole assurgere a simbolo dell’intero popolo napoletano che, valorosamente si batte contro un avversario decisamente superiore. Probabilmente, se la presenza di così tante figure di minori nel racconto trova fondamento in quella realtà miserabile del Sud di cinquant’anni fa, all’interno della quale i figli costituivano per chi era povero l’unica garanzia di sopravvivenza, è tuttavia possibile interpretarla anche come metafora di un popolo eternamente bambino che, proprio nella sua incoscienza e grazie al suo entusiasmo spontaneo sa ritrovare dentro di sé delle insperate risorse per opporsi ad un odioso regime. Senza riuscire ad approfondire più di tanto il rapporto tra i bambini e la guerra, il film diventa in certi punti perfino fastidioso a causa dell’uso spregiudicato e strumentale che fa delle figure di questi piccoli martiri all’interno di un racconto strutturato disinvoltamente, secondo i ritmi della cronaca spicciola e sui moduli scanzonati e superficiali del bozzetto, che a volte sfocia addirittura in macchietta, prendendo a pretesto qualsiasi situazione possa dar vita ad una serie di stereotipi, tanto consueti quanto abusati, di Napoli e dei suoi abitanti. Fabrizio Colamartino