L’avventura di essere orfani
È davvero difficile rendere spettacolari, o per lo meno interessanti sotto il profilo drammatico, una serie di problematiche sottoposte a normative molto severe, dal complesso iter burocratico (variabile da nazione a nazione), soprattutto di recente acquisizione e in continua evoluzione, e per questo difficili da cogliere con esattezza perché prive di quei contrasti forti che ben si prestano a trasformarsi in film di finzione. Proprio perché si pone come tentativo di costruire ex novo una situazione di normalità (intorno al minore), l’adozione risulta poco attraente per il cinema che, per sua natura, è basato su una narrazione dinamica, interessata ai processi di disgregazione, alla contrapposizione dell’individuo alla società, più che alla creazione di un rapporto tra realtà distanti (una famiglia che accoglie un bambino sconosciuto) all’interno di un contesto che vede la stessa società favorire quel processo di integrazione. Probabilmente è per questi motivi che sono quasi assenti da una filmografia sul tema dell’adozione non solo film di denuncia (così come ne esistono sui temi dell’infanzia abbandonata, del disagio giovanile, del lavoro minorile), ma anche film che trattano questa tematica mettendone in luce le caratteristiche più specifiche, senza puntare direttamente agli aspetti sensazionalistici e più lacrimevoli. Tale tendenza verso il patetico oltre a essere insita nella natura stessa del mezzo cinematografico costituisce anche il lascito della tradizione del romanzo ottocentesco, ereditata prima dal cinema e successivamente dalla fiction televisiva (nel formato dello sceneggiato, della soap-opera, del film per la Tv) per un pubblico essenzialmente a carattere familiare, sensibile a una serie di tematiche di facile presa sociale. Di fatto, così com’è difficile “abbinare” un orfano e la famiglia che l’adotterà nel mondo reale, altrettanto arduo è farli incontrare sul grande schermo, creare intorno a queste due realtà delle strutture narrative forti che, al tempo stesso, affrontino seriamente gli aspetti più profondi del problema dell’adozione. L’orfano, cioè, affascina finché deve affrontare sofferenze e privazioni, ma quando riesce a trovare una famiglia che lo adotti diviene un bambino come gli altri. Per questo le storie che hanno per protagonisti gli orfani sono avventure nel senso letterale del termine. Si pensi, ad esempio, ai film tratti dal romanzo Le due orfanelle di Adolphe-Philippe d’Ennery ed Eugène Cormoni o da Senza famiglia di Hector-Henry Malotii. Lo schema è quello del feuilletton: un continuo affastellarsi di viaggi, peripezie e disavventure che rimandano il più possibile lo scioglimento della vicenda. La figura dell’orfano, infatti, conosce la sua più grande fortuna letteraria nel corso del XIX secolo, l’epoca d’oro del grande romanzo d’avventura. Moltissime le trasposizioni cinematografiche dei romanzi di Charles Dickens o di Mark Twain, nei quali la figura dell’orfano, anche se in contesti culturali profondamente diversi, è sempre centrale: si va, nel caso dell’inglese, da Grandi speranze a Le avventure di Oliver Twist a David Copperfielde, in quello dell’americano, da Le avventure di Tom Sawyer a Le avventure di Huckleberry Finn e, come è facile notare, tre fra questi cinque esempi contengono nel titolo proprio il termine “avventura”. Spesso, al di là del carattere avventuroso della narrazione, ad animare i romanzi era un sincero spirito di denuncia (frutto, nel caso particolare di Dickens, di un’attenta osservazione della realtà degradata del suo tempo) verso una piaga sociale di fronte alla quale gli strati più abbienti della popolazione e coloro che avevano in mano le leve del potere – proprio coloro cui i racconti erano diretti – si mostravano indifferenti. La questione dell’infanzia abbandonata (insieme a quella del lavoro minorile) si impose nel dibattito dell’opinione pubblica della Gran Bretagna, che sperimentava per prima le contraddizioni portate dallo sviluppo industriale, anche grazie alle avventure dei piccoli orfani. In questo breve e, per forza di cose, incompleto excursus sul rapporto tra cinema e tematiche legate all’adozione, si cercherà di tracciare un parallelo tra l’adozione in quanto riflesso dei cambiamenti occorsi nella società e nella mentalità occidentale dal XIX secolo a oggi e le forme narrative che il cinema ha utilizzato per rappresentarla. Anche se spesso, come emergerà, a essere privilegiati sono gli aspetti più superficiali ed “eccessivi” di questo fenomeno, è possibile tuttavia affermare che, se interpretati correttamente, anch’essi possono fornire chiavi di lettura valide a comprenderlo.
Vecchia e nuova adozione nel cinema
Se le trasposizioni dei romanzi ottocenteschi sono il risultato più immediato e ovvio della fascinazione del cinema nei confronti delle storie di orfani, esistono anche film ispirati da atmosfere, situazioni e personaggi dickensiani ma non per questo tratti dai romanzi del celebre scrittore inglese. È il caso del capolavoro del muto Il monello (1921), primo lungometraggio di Charlie Chaplin: come spesso accade nei romanzi dello scrittore vittoriano, gli uomini dell’assistenza sociale sono raffigurati come occhiuti burocrati pervasi da una morale borghese totalmente ipocrita, insensibili verso il legame affettivo venutosi a creare tra il vagabondo e il bambino. Il monello è il più celebre film muto che, grazie all’abile mescolanza di patetico e comico tipica di Chaplin, tocca i temi dell’abbandono, dell’adozione, dell’atteggiamento delle istituzioni di fronte al problema, rivelandone alcuni degli aspetti più scottanti come il diritto irrinunciabile del minore a un legame affettivo stabile in un’ottica che, per l’epoca, era sorprendentemente moderna. L’adozione così come la conosciamo oggi, infatti, è un fenomeno molto più recente di quanto si creda, che risale alla seconda metà del Novecento, quando una serie di profondi cambiamenti nella società occidentale portarono a una differente sensibilità verso l’infanzia abbandonata e, soprattutto, a una concezione diversa della famiglia. Si pensi che in Italia, fino alla seconda metà degli anni Sessanta, il minore non veniva neanche consultato in merito all’adozione, che si riduceva in buona sostanza a un patto tra la famiglia dell’adottato (o l’istituzione che lo aveva in carico) e quella adottante. È quanto emerge dal film di Gianni Amelio del 1979 Il piccolo Archimede, nel quale si narra il caso del piccolo Guido, figlio di una poverissima famiglia di contadini toscani, adottato da una nobildonna dopo che il professor Heines, un intellettuale inglese residente in Italia, scopre il suo sorprendente talento per la musica. Il piccolo viene sottratto alle condizioni di povertà in cui avrebbe dovuto vivere, ma subisce anche lo sradicamento da un contesto affettivo fondamentale per il suo sviluppo. Questa vicenda, ambientata negli anni Trenta, ha un epilogo tragico (Guido si toglie la vita), ed è illuminante perché mette in luce la vera natura della maggior parte delle adozioni dell’epoca: prendendo con sé il bambino, la nobildonna mira ad accrescere il proprio prestigio sociale come mecenate di un talento altrimenti sprecato. Questi e altri aspetti della “vecchia adozione” emergono con altrettanta evidenza in Cronaca familiare (1962) di Valerio Zurlini, nel quale il minore di due fratelli viene adottato da una ricca famiglia borghese in seguito alla morte della madre. La forte differenza di classe tra la famiglia originaria e quella d’adozione è, insieme all’indissolubilità dei legami di sangue, uno degli elementi cardine del racconto. Divenuto maggiorenne, il giovane Lorenzo preferirà il rapporto più sincero e affettuoso con il fratello maggiore all’agiatezza economica e ai modi raffinati acquisiti in seno alla nuova famiglia, benestante ma decisamente fredda nei suoi confronti, considerato pur sempre una sorta di corpo estraneo. Quanto emerso dagli esempi appena citati è un tipo di adozione inteso più come atto consensuale delle due famiglie, un gesto di filantropia da parte dell’adottante (che l’adottato avrebbe ricambiato assistendolo nella vecchiaia), un evento fortuito o eccezionale (solo l’incontro accidentale con un lontano parente o il gesto magnanimo di una famiglia ricca mettevano fine alle sofferenze del bambino) che come diritto irrinunciabile del minore a essere inserito stabilmente in un nucleo familiare, più come atto volto a dare un figlio a chi non l’aveva che una famiglia a chi ne aveva bisogno. Nella migliore delle ipotesi per la maggior parte degli orfani non rimaneva che la soluzione dell’orfanotrofio fino alla maggiore età, un’istituzione che oggi può apparire superata ma che fino ai primi decenni del XX secolo rappresentò un’acquisizione di civiltà in tutto il mondo occidentale. È soltanto a partire dal secondo dopoguerra che prende vita una concezione di adozione nuova: una serie di importanti cambiamenti nella società (l’aumento del benessere, il calo del tasso di natalità la conseguente diminuzione dei casi di abbandono, una nuova sensibilità verso i problemi dell’infanzia) mettono in crisi l’adozione “vecchio stampo” per affermare il diritto del minore abbandonato (o, più spesso, vittima di abusi) a una nuova famiglia, dunque a una dimensione affettiva stabile, oltre che al puro e semplice sostentamento e all’istruzione minima. Tuttavia, se da questo momento la società percepisce il bambino abbandonato come un soggetto le cui esigenze sono da mettere al centro dell’iter adottivo, paradossalmente la rappresentazione del minore in quei film che parlano di adozione sembra rifarsi ancora a quella che abbiamo chiamato “vecchia adozione”. Il piccolo Archimede è uno dei rari casi nei quali il tema centrale è l’equilibrio psico-affettivo del minore: nella maggior parte dei film sull’adozione il bambino è l’oggetto di aspre contese da parte degli adulti, unici a calcare la scena con i propri travagli interiori, cui raramente si accompagnano quelli dei minori. Il bambino, cioè, resta una pura e semplice presenza strumentale alla performance di grandi attori che si contendono il monopolio dei primi piani all’interno di ben calcolate scene-madri. È il caso, ad esempio, di La signora acconsente, un film di Mitchell Leisen del 1942, nel quale Marlene Dietrich interpreta il ruolo di una celebre attrice ricattata per aver adottato illegalmente un bambino: il piccolo, gravemente malato, viene curato da un pediatra che la diva, nel finale, sposerà. Come è evidente l’adozione è un semplice pretesto per far sì che l’azione porti una serie di cambiamenti nella vita dei personaggi adulti. Un film come Mammina cara (1981, regia di Frank Perry), tratto dall’autobiografia della figlia adottiva della famosa attrice hollywoodiana Joan Crawford, invece, è divenuto celebre per aver mostrato i molti vizi e le poche virtù di una diva, in altre parole per il suo “valore” scandalistico, volto a mettere in scena le miserie di una donna molto conosciuta, molto meno per aver descritto la sofferenza di un minore vittima del successo della madre. Più frequentemente viene descritto il conflitto tra legami di sangue o biologici e quelli che potremmo definire “legami legali” o adottivi (ma si potrebbero definire, più correttamente, “affettivi”), proprio ciò che nella realtà le istituzioni preposte a gestire il percorso adottivo cercano in tutti i modi di evitare: una volta venuta meno l’adozione in quanto atto consensuale di entrambe le famiglie, è logico che il nodo drammatico attorno al quale si strutturano molti film, quello dell’identità del bambino adottato (una questione che, come si vedrà, diviene fondamentale nel caso dell’adozione internazionale), divenga centrale. A volte è il genitore biologico a tornare sui propri passi, pretendendo indietro il figlio (o soltanto chiedendo di poterlo rivedere), magari cresciuto e che ormai lo considera come un estraneo; altre volte è il figlio adottivo a voler conoscere il proprio passato, i genitori biologici. È il caso di Decalogo 7 – Non rubare, settimo capitolo del Decalogo di Krzysztof Kieslowski, nel quale lo scontro tra genitore adottivo e genitore biologico diviene paradossale: tutte le figure coinvolte nella disputa sono unite da legami di sangue, dato che l’oggetto della contesa è una bambina le cui madri, adottiva e biologica, sono a loro volta madre e figlia. Ciò, tuttavia, non impedisce che il conflitto scoppi ugualmente e che, anzi, emergano con maggiore evidenza quelle contraddizioni insite nell’atto adottivo. Il medesimo intreccio è alla base di un melodramma di Delmer Daves del 1961 dal titolo Qualcosa che scotta: in questo caso, al posto delle atmosfere rarefatte e del rigore nella messa in scena (tesi a rendere ancora più esemplari le vicende narrate) tipici del grande regista polacco, troviamo i toni accesi e il turgore sentimentale propri del cinema hollywoodiano, volti a mettere in luce efficacemente i guasti prodotti dall’ipocrisia del perbenismo borghese. Un ritorno del genitore biologico tutto sui generis è quello di Paris, Texas (1980) di Wim Wenders: in questo caso il minore è co-protagonista a pieno titolo della storia narrata insieme al padre naturale. Quest’ultimo, riemerso da un passato di perdizione, dopo aver recuperato il rapporto con il figlioletto (adottato, ancora piccolissimo, dagli zii paterni), parte con lui alla ricerca della madre naturale, anche lei persa in una vita di abbrutimento, fino al ricongiungimento finale. Tutto sembrerebbe indolore in questa storia fatta di silenzi e paesaggi statunitensi di struggente e desolata bellezza (gli zii si adoperano per favorire l’incontro tra padre e figlio); invece, pur senza ostentare i sentimenti dei suoi protagonisti, questo film riesce a descrivere il faticoso percorso di riavvicinamento di un padre al figlio e le dinamiche che sottendono i rapporti di sangue e quelli d’adozione. In Italia un esempio abbastanza recente di film che tratta il problema della ricerca dei genitori naturali è La regina degli scacchi (2001): sulla struttura del giallo psicologico si sviluppa il tema del bisogno del tutto istintivo e irrazionale di conoscere il proprio passato, anche quando questo può causare traumi e forti disagi. Pur con alcune incertezze e ingenuità, malgrado qualche eccesso, questo film di Claudia Florio rende palpabile lo smarrimento di chi deve improvvisamente confrontarsi con una parte di sé impossibile da cancellare con un semplice atto legale. Un altro personaggio alla ricerca della madre biologica è la protagonista del film di Mike Leigh Segreti e bugie (1996), nel quale vengono rappresentati – con ben altra sensibilità rispetto al film della Florio – la trafila burocratica affrontata dalla giovane per conoscere l’identità della madre naturale (in Gran Bretagna la legge consente ai figli adottati di rintracciare, una volta maggiorenni, i veri genitori), il disagio della famiglia d’origine (disgregata da piccoli, assurdi risentimenti) di fronte alla sua ricomparsa, infine l’effetto benefico di questo trauma grazie al quale il gruppo riacquista una dimensione affettiva completa.
Desiderio di “genitorialità” e adozioni internazionali
Contraccezione e modelli di vita diversi da quelli del passato (l’apertura del mercato del lavoro alle donne, ad esempio) hanno portato a un calo demografico che se da un lato ha abbattuto il numero degli abbandoni e dunque dei minori ospitati negli istituti dei paesi industrializzati, dall’altro ha creato un desiderio di “genitorialità” molto forte, dovuto essenzialmente all’impossibilità di avere un figlio per via naturale. Col crescere del numero delle offerte di adozione da parte di famiglie senza figli, poi, s’è affermata sempre più la pratica delle adozioni internazionali. Paradossalmente, se la regolamentazione dell’adozione avvenuta circa cinquant’anni fa voleva dare al bambino bisognoso di cure una famiglia e non un bambino alle coppie prive di figli, la domanda di “genitorialità” emersa nel corso degli ultimi decenni è divenuta l’espressione di un bisogno psicologico che prescinde dall’offerta disinteressata di affetto e cure a chi è nato svantaggiato, pur non possedendo più quel carattere utilitaristico che era proprio del vecchio tipo di adozione. Un film che ben esprime questo desiderio e i pericoli che esso nasconde è A. I. Intelligenza artificiale (2001) di Steven Spielberg, nel quale un automa-bambino (dotato di emozioni e sentimenti forse più ingenui ma altrettanto profondi e radicati di quelli umani) “adottato” da una coppia per sostituire il figlioletto in coma viene abbandonato quando il suo coetaneo reale guarisce. Dietro l’apparato spettacolare del film di fantascienza (che, tuttavia, specie nella parte centrale, ricorda molte di quelle storie dickensiane cui abbiamo accennato) A.I. costituisce un ottimo esempio, per quanto paradossale, della caratteristica fondamentale dell’adozione, ovvero la sua irrevocabilità, e costruisce un “prototipo” di minore abbandonato che, come tutti gli altri orfani (e malgrado la propria natura seriale), afferma la propria unicità e insostituibilità. Piccola peste (1990, regia di Dennis Dugan) affronta, al contrario, proprio questo difficile aspetto dell’adozione attraverso i toni dissacranti del film comico: il piccolo Junior, infatti, viene restituito all’orfanotrofio in cui è cresciuto da ben trenta coppie prima di trovare una famiglia che, malgrado la sua natura pestifera, decida di tenerlo con sé. Questa “piccola peste” è il simbolo dell’orfano che, purtroppo, non corrisponde alle caratteristiche desiderate da chi vuole un figlio pur non potendolo avere e che, dunque, costruisce attorno a questo desiderio un’immagine ideale che molto difficilmente corrisponde alla realtà. Esemplare, a tal proposito, è la figura della madre putativa che confessa di aver adottato il bambino per avere la possibilità di integrarsi meglio nella vita sociale della sua cittadina. Se in questi ultimi due casi abbiamo parlato di coppie che, messe di fronte alle proprie responsabilità e alla “fatica” di fare i genitori, decidono di rinunciare all’adozione, il cinema ha rappresentato anche bambini in cerca di nuovi genitori perché insoddisfatti della propria famiglia d’origine. Nel poco riuscito ma comunque significativo Genitori cercasi (1994, regia di Rob Reiner), un bambino decide di “divorziare” dai genitori: rischierà di finire in orfanotrofio nel caso in cui non riuscirà a trovare una coppia disposta ad adottarlo. In Matilda 6 mitica (1996, regia di Danny DeVito) la protagonista eponima (un’adorabile bimba di sette anni amante della lettura) riesce, dopo mille peripezie, ad abbandonare la propria famiglia d’origine (teledipendente, arruffona e grossolana) facendosi adottare da un’insegnante, una ragazza dolce e sensibile vittima anche lei di un destino avverso: il bello è che la sua famiglia si dimostrerà ben contenta di sbarazzarsi di lei. Al desiderio degli aspiranti genitori di adottare un bambino fa da contraltare, da quando esiste quella che abbiamo definito “nuova adozione”, il diritto del bambino ad avere una famiglia. Ma non solo: la legge italiana, ad esempio, indica come prioritario rispetto al percorso adottivo il diritto del bambino di rimanere con la famiglia d’origine, impegnando gli organi preposti alla tutela del minore a esperire tutti i mezzi affinché tale legame venga conservato (la salute del minore rimane ovviamente obiettivo prioritario). Il film più pertinente relativamente a questo tema è Mi chiamo Sam (2001, regia di Jessie Nelson), nel quale un uomo solo, con gravi ritardi mentali, si vede portare via per ordine dei servizi sociali Lucy, la figlioletta di sette anni. Attraverso l’analisi di un rapporto di profonda interdipendenza tra padre e figlia (intellettualmente Sam ha in pratica la stessa età della piccola Lucy), questa pellicola illustra la necessità di mantenere il più possibile inalterati i rapporti affettivi tra genitori e figli anche laddove ciò risulti molto difficile per una serie di ragioni di ordine pratico. Per completare questa parte del percorso dedicata al presente e alle prospettive future dell’adozione, un ultimo accenno deve andare all’adozione internazionale. In Italia, ormai da molti anni, una larga percentuale delle adozioni è di tipo internazionale, data la diminuzione degli abbandoni nel nostro paese. Che nei paesi ricchi e sviluppati vi sia un altissimo tasso di persone affette da sterilità e desiderose di avere comunque un bambino e che il Sud del mondo conosca una crescita smisurata e sconsiderata della popolazione infantile a fronte di risorse praticamente inesistenti per nutrirla, curarla, educarla è una delle contraddizioni più stridenti del pianetai. Straordinariamente profondo per la capacità di indagare i molteplici aspetti di questo delicatissimo tema è il documentario di Costanza Quatriglio L’insonnia di Devi (2001). La questione dell’identità, delle radici (culturali e affettive) di chi viene adottato, un bagaglio emozionale a volte ingombrante, comunque presente e che è inutile negare, è il nodo centrale del film. Seguendo un gruppo di ragazzi cui viene offerta l’opportunità di tornare a visitare gli istituti che li hanno ospitati subito dopo l’abbandono, il film, attraverso una serie di interviste ai diretti interessati, ai loro genitori, ai responsabili degli orfanotrofi e a esperti italiani sull’adozione riesce a illuminare le molteplici sfumature di questa pratica che, nella sua forma internazionale, trova la realizzazione più alta e, al tempo stesso, più complessa. Una pellicola di fiction che tratta il tema dell’adozione internazionale è Benvenuti a Sarajevo (1997) di Michael Winterbottom, che narra le vicende realmente vissute da un reporter inglese in missione durante la guerra in Bosnia. Mescolando immagini di repertorio con quelle di finzione girate per il film, il regista racconta la storia del giornalista che, dopo essersi adoperato in ogni modo per sensibilizzare l’opinione pubblica occidentale sul destino di un orfanotrofio a ridosso della linea di combattimento, al suo rientro in Inghilterra decide di portare con sé almeno uno dei bambini sfollati dall’istituto. Particolarissimo, infine, il caso di Bashu, il piccolo straniero (1989) di Bahram Beizai: ambientata durante la guerra tra Iran e Iraq, è la storia di un giovanissimo iraniano del sud che, dopo aver perso la propria famiglia in un bombardamento, riesce, grazie alla testardaggine della donna che lo adotterà, a farsi accettare dalla comunità di un villaggio del nord del paese. Anche se non tratta di vera e propria adozione internazionale, il film evoca con rara sensibilità il passaggio graduale dalla paura alla diffidenza alla graduale confidenza proprio di molti percorsi adottivi reali.
L’affido al cinema: un caso molto particolare
Come anticipato nell’introduzione, se pochi sono i film che trattano con un minimo di serietà il tema dell’adozione, ancora meno sono le pellicole che toccano quello dell’affido familiare. Mentre l’adozione è una pratica antica ma in continua evoluzione dal punto di vista giuridico, quella dell’affido è certamente un’esclusiva della contemporaneità. Solo in tempi recentissimi, infatti, è stato possibile creare questa forma di “adozione transitoria” che consente al bambino in stato di abbandono di essere accudito e guidato fino all’adozione da una famiglia che lo accolga al suo interno come un vero e proprio figlio ma che non è dato per certo divenga il nucleo familiare che lo adotterà definitivamente. Un film molto recente e di grande successo, White Oleander (Oleandro bianco) (2002, regia di Peter Kosminsky), ha trattato questo argomento attraverso la narrazione delle tristi vicende di una quindicenne che, in seguito alla condanna della madre per omicidio, sperimenta per ben tre volte l’affidamento familiare, trovandosi costretta a calarsi in una serie di realtà familiari non molto migliori di quella in cui è vissuta. I toni sono quelli del dramma familiare – anzi, del vero e proprio melodramma – con un nucleo principale, quello della storia della giovanissima Astrid e sua madre, un’artista dal carattere egocentrico, e diversi satelliti, ovvero le varie realtà con cui la protagonista è costretta a confrontarsi fino alla maggiore età (senza riuscire a trovare una famiglia adottiva) in un singolare percorso di formazione. Se è davvero raro trovare al cinema l’affidamento familiare inteso come complesso di norme regolato da precisi meccanismi e competenze, molto più frequente è imbattersi in quelli che potremmo definire “affidi di fatto”. Il grande schermo è sempre stato particolarmente affascinato dal rapporto che poteva nascere dalla convivenza, spesso dettata da ragioni di forza maggiore, di un adulto con un minore affidatogli da uno dei genitori o, magari più semplicemente, dal caso. Si tratta di una situazione che “funziona” da un punto di vista strettamente drammatico (quasi sempre è la dimensione del viaggio a fare da sfondo in movimento a questi percorsi di formazione nei quali a imparare qualcosa non è detto che sia soltanto il bambino) ma che, allo stesso tempo, mette in evidenza le caratteristiche di un rapporto che si viene a instaurare in maniera arbitraria, innaturale, proprio come nel caso dell’affido o dell’adozione. Moltissimi sono gli esempii ma, tra i tanti, uno pare il più significativo oltre che il più pertinente: Il ladro di bambini (1992) di Gianni Amelio nel quale vengono messi fianco a fianco sulle strade di un’Italia allo sfascio un giovane carabiniere e due ragazzini che, al termine di un breve ma intensissimo viaggio, avranno percorso, non solo simbolicamente, tutte le tappe di un vero e proprio affido. Destinati a uno dei tanti istituti ancora presenti al Sud, malgrado la giovanissima età i due “orfani” probabilmente non avranno la possibilità di essere adottati per le orribili esperienze dalle quali sono stati segnati per sempre: la breve esperienza con il loro “genitore affidatario”, tuttavia, avrà dato loro almeno un po’ di speranza e di fiducia in se stessi e negli altri.
di Fabrizio Colamartino (Cittadini in crescita n. 2, 2004, pp. 206-223)