di Kevin Bacon
(USA, 2005)
Sinossi
Emily Stoll è una donna giovane, economicamente indipendente e priva di relazioni stabili. Il suo unico desiderio è avere un figlio, a prescindere da un legame stabile con un uomo. Per ottenere questo viaggia in continuazione concedendosi a uomini ogni volta diversi, per poi scomparire subito dopo. Dopo diverso tempo, Emily riesce a rimanere incinta e ad allevare tutta sola Paul, il suo piccolo “loverboy” come Emily chiama affettuosamente Paul. Gli anni passano e l’educazione di Paul da parte di Emily procede alternandosi con le immagini dell’infanzia della donna, caratterizzata dal rapporto problematico con i genitori, da cui si sente poco considerata. I genitori di Emily vivono in un mondo tutto loro, isolati nel loro rapporto esclusivo e incapaci di comprendere i desideri e i bisogni della loro figlia, che, dal canto suo, trova rifugio nell’affetto di una vicina che elegge a sostituta della propria madre, fino al momento in cui la donna scompare misteriosamente. Durante una recita scolastica la piccola Emily canta una canzone esprimendo tutto il suo disprezzo per i genitori che rimangono sconvolti dal comportamento della loro figlia. Dopo poco tempo Emily tornando a casa trova i genitori morti per suicidio. L’unico messaggio che i genitori lasciano alla loro figlia è quello di cercarsi una passione. Ed Emily decide allora di avere un bambino per donargli tutto l’amore che sente di non aver avuto dai genitori. Nel corso degli anni costruirà quindi un rapporto morboso ed esclusivo con il figlio Paul. Emily viaggia lungo tutto il Paese cambiando casa in continuazione per evitare che il rapporto esclusivo con Paul possa essere oggetto di interferenze da parte delle autorità, dei vicini curiosi o di incontri non previsti. Anche un possibile amore di Emily per un uomo conosciuto durante le sue peregrinazioni viene sacrificato per proteggere il suo rapporto esclusivo con “loverboy”. Tutto procede per il meglio finché Paul inizia ad andare a scuola e il rapporto di Emily con il figlio inizia a vacillare. Decisa a non perdere il bambino, Emily decide di suicidarsi insieme a lui, ma all’ultimo momento un vicino riesce a salvare il bambino.
Introduzione al Film
Vincoli ossessivi
La seconda regia di Kevin Bacon – dopo il film per la televisione Losing Chase (t. l. Caccia perdente, USA, 1996) – conferma gli interessi dell’attore sperimentatosi regista per la forma del melodramma che indaghi i sentimenti di personaggi solitari, estremi, apparentemente normali ma attraversati da tensioni e nevrosi profonde. Affidatosi per la seconda volta al volto enigmatico di Kyra Sedwick, il giovane regista costruisce su di lei lo sviluppo della narrazione attraverso un cambio graduale e appena percettibile di tono e di atmosfera. Se tutta la prima parte del film è infatti giocata sul tono della commedia – attraverso la rapida successione degli amanti occasionali di Emily e le gag legate ad ogni incontro (l’enorme e kitsch camera d’albergo di Las Vegas, l’incontro sessuale sotto la pioggia sul cofano di un’auto a Kansas City) e attraverso la rappresentazione parodistica e grottesca dei genitori di Emily (rappresentazione accentuata dalla scenografia, dalla recitazione dello stesso Bacon e di Marisa Tomei nel ruolo dei genitori, nonché dall’uso ripetuto di obiettivi deformanti), la seconda parte abbandona gradualmente la struttura da commedia dai toni lievemente surreali per addentrarsi nella struttura sempre più soffocante dell’ossessivo amore di Emily per Paul. Il ragazzo viene chiamato continuamente dalla madre “loverboy”, letteralmente “amante-ragazzo”, a sottolineare la dimensione quasi incestuosa che circonda il rapporto tra madre e figlio. Tuttavia, man mano che il film procede (e che Paul cresce), l’appellativo diventa sempre più inviso al ragazzo che spesso si ribella di fronte alla madre, ripetendole che il suo vero nome è Paul. Allo stesso modo, attraverso un continuo ricorso al montaggio alternato, anche i flashback relativi all’infanzia di Emily perdono il tono leggero dell’inizio per rivelarsi rappresentazioni deformanti di una famiglia chiusa e incapace di comprendere i turbamenti e la solitudine di Emily. Il tentativo della regia è quello di mantenere su un piano poetico la descrizione di un rapporto morboso e coatto come quello dei due protagonisti, soprattutto nel finale, quando Paul, ormai adolescente, porta una ragazza sullo stesso prato dove la madre gli aveva insegnato ad ascoltare la voce delle pecore. La delicatezza dei temi trattati fa sì che la regia sia particolarmente attenta alla costruzione dell’inquadratura, alla qualità della fotografia (che utilizza quasi sempre toni tenui e mai contrastati), a non turbare troppo lo spettatore con esplicite rappresentazioni, rischiando però – in più di un passaggio – di non andare fino in fondo, di lasciare troppo in sospeso tutti gli elementi del film e di ripetere ossessivamente gli stessi gesti e gli stessi elementi narrativi. Alla fine del film, dunque, il passaggio graduale e sottile di tonalità è completamente avvenuto: dalla commedia si è passati al dramma e alla tragedia, senza però che il linguaggio utilizzato sia cambiato drasticamente. I paesaggi naturali ed umani attraversati dalla coppia non presentano anomalie, non vengono inquadrati come luoghi pericolosi o inquietanti. L’america provinciale del film è un luogo tranquillo e ordinato, simmetrico e fedele a se stesso: l’inquietudine e la tragedia provengono dall’interno di se stessi, come non smette di sottolineare il film, finanche nell’ultima sequenza.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
La doppia solitudine
Due sono le figure centrali di un film come Loverboy, due figure che si rapportano tra loro e che vengono continuamente messe in relazione nei meccanismi rappresentativi del regista. Da una parte c’è Emily, protagonista assoluta del film – anche perché la regia mantiene la struttura narrativa del romanzo di origine che è narrato in prima persona appunto da Emily – ragazza madre di cui lo spettatore scopre gradualmente la storia e le vicissitudini, nonché la dimensione patologica del suo amore per Paul. Emily bambina è vista da Bacon come un individuo apparentemente tranquillo, ma che cova dentro di sé una rabbia pronta ad esplodere (e che esploderà crudelmente contro i genitori durante la recita scolastica). La mancanza di affetto diventa per Emily la molla di un desiderio ossessivo (quello di avere un figlio tutto per sé) che non è però un desiderio compensatorio: Emily non ama Paul, lo possiede, ne reclama la proprietà assoluta, pronta a fuggire ogniqualvolta qualcuno o qualcosa minacci il suo legame esclusivo con il figlio. La rabbia di Emily trasforma l’amore in possesso, in autoesclusione del mondo e dell’altro in un rapporto totale e dunque patologico. Dall’altra parte c’è Paul che, nella relazione tra le due figure principali del film, è ovviamente quella più debole, meno articolata dal punto di vista della rappresentazione. Soprattutto nei primi anni di vita, Paul è pienamente identificato con “loverboy”, con il prodotto (letteralmente “prodotto”: il concepimento del bambino è rappresentato dal regista come una sorta di processo industriale) del suo desiderio. Paul segue la madre nel suo peregrinare, le obbedisce, gioca con lei, ride con lei: di fatto vive in simbiosi con la madre, ne costituisce una sorta di prolungamento. Ma tale simbiosi non può durare a lungo: contrariamente ad Emily bambina, assolutamente disinteressata al mondo esterno e totalmente dedita alla costruzione di un mondo familiare, protetto e chiuso in se stesso, Paul è curioso, proiettato verso l’esterno, ben disposto verso gli altri. Se Emily è chiusa nel suo mondo, totalmente concentrata sul suo ossessivo desiderio, Paul è invece aperto, desideroso di relazionarsi con gli altri (vuole avere amici, andare a scuola, giocare). I due movimenti opposti finiscono allora per rendere inevitabile la rottura tragica del legame tra madre e figlio e per decretare il destino dei due personaggi: da una parte Emily, che muore perché incapace di vivere oltre le sue ossessioni e dall’altra Paul, che vivrà anche se condizionato dal ricordo della madre.
Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici
Molti sono i film che hanno come nucleo tematico la relazione madre-figlio, ovviamente una delle relazioni parentali più esplorate non solo dal cinema ma da tutte le forme espressive: per quanto riguarda il cinema alcuni dei film più significativi sul rapporto esclusivo tra una madre e un figlio possono essere rintracciati all’interno di diverse cinematografie: in un film come Il mio piccolo genio (Little Man Tate, USA, 1991), esordio alla regia di Jodie Foster, l’intensità del rapporto tra un bambino dalla non comune intelligenza e una madre che soprattutto lo protegge e lo ama è ben delineato e sviluppato. Uno dei film che, in tempi recenti ha lavorato sui rapporti sempre meno codificabili della famiglia contemporanea è Transamerica (Id., USA, 2005) di Duncan Tucker. Su un piano decisamente più poetico e lirico si pone uno dei capolavori di Aleksandr Sokurov, Madre e figlio (Mat’ i syn, Russia, 1997), che rende visibili il rapporto d’amore tra una madre morente e un figlio che trascorre con lei i suoi ultimi giorni (storia che in Sokurov va al di là di un rapporto tra individui e diventa l’immagine dell’universo). Sempre all’interno del cinema d’autore moderno il rapporto madre-figlio è al centro di uno dei capolavori del primo Pier Paolo Pasolini, Mamma Roma(Italia, 1962). Una rassegna sui difficili rapporti madre e figlio, che metta in evidenza le dinamiche e le origini della ribellone adolescenziale non può non tenere in conto I quattrocento colpi (Les Quatre cents coups, Francia, 1959) di François Truffaut. Sempre sullo stesso tema, pur da prospettive diverse e all’interno di forme cinematografiche distinte, si possono segnalare titoli come Tutto su mia madre (Todo sobre mi madre, Spagna 1999) di Pedro Almodovar e Ladybird Ladybird (Id., Gran Bretagna, 1994) di Ken Loach. Daniele Dottorini