di Antonio Capuano
(Italia, 2001)
Sinossi
In qualità di pentito, il giovane Oreste Cammarano racconta a un giudice i fatti che, nel corso degli anni, hanno portato allo sterminio della famiglia camorrista della quale è l’ultimo discendente. Siamo a Napoli, negli anni Novanta: al suo ritorno da un regolamento di conti con un altro clan nel quale ha perso la figlia Elena, Amerigo (padre di Oreste) prende il potere all’interno della famiglia Cammarano dopo aver eliminato il suocero e capoclan Tony. Ma alle spalle di Amerigo tramano la moglie Irene e il cugino Egisto, che sono segretamente amanti e che ben presto riescono astutamente a eliminarlo. Morto il padre, Oreste, insofferente per il ruolo da gregario nel quale è stato relegato, stanco e annoiato nei confronti di una realtà cui sente di appartenere sempre meno, decide di abbandonare il rifugio/fortezza dei Cammarano, spinto dalla sorella Orsola, presaga della lotta intestina che si scatenerà tra i parenti per prendere il potere all’interno del clan. Su tutti prevale Antonino, un cugino di Irene che riesce a mettere d’accordo i componenti della famiglia su come spartirsi la gestione delle estorsioni nell’interland napoletano. Trascorrono sette anni durante i quali la famiglia consolida il proprio potere, quando improvvisamente gli affari dei vari membri del clan incominciano a subire dei duri colpi: gregari uccisi a tradimento, alleanze con altre famiglie che vengono meno, attentati incendiari alle varie attività che fungono da copertura ai traffici illeciti. Ben presto Oreste rivela di essere l’autore delle azioni e compie la propria vendetta per la morte del padre sterminando tutti i membri del clan, compresa sua madre Irene, risparmiando soltanto la sorella Orsola.
Analisi
La tragedia di Eschilo in salsa postmoderna
Luna rossa si presenta apertamente (e, all’apparenza, anche spregiudicatamente) come una rielaborazione in chiave postmoderna del mito classico di Oreste, personaggio dal quale il protagonista della pellicola, oltre a prendere il nome, mutua anche gran parte delle proprie prerogative e caratteristiche. In realtà Antonio Capuano rispetta la celebre trilogia di Eschilo (Agamennone, Le coefore, Le eumenidi) pressoché alla lettera, seguendo fedelmente le tappe di un percorso tragico che porta il protagonista a operare una serie di scelte drammatiche e dal valore fortemente simbolico. Se è vero che, come affermato da Raffaele Cantarella in un volume sui grandi tragediografi greci, “è vano chiedersi quale fosse il personaggio reale, mitico o storico, trasferito nella maschera tragica” e che “la sola realtà è quella del poeta, del suo tempo, della sua concezione della vita, della forma in cui l’esprime nell’arte”, allora l’operazione del regista partenopeo appare del tutto legittima, anzi l’unica possibile per riproporre rendendolo attuale un personaggio fondamentale per comprendere l’evoluzione della civiltà occidentale che, da quella della Grecia classica, prese le mosse decine di secoli or sono.
L’affermazione del giovane protagonista: “Le nostre gesta rappresentano il racconto popolare dei quartieri poveri” risulta, dunque, del tutto credibile e rende l’idea di come, ai miti classici che popolavano l’immaginario collettivo di un tempo, si siano via via sostituite, purtroppo, le figure tragiche della società contemporanea che, all’interno della realtà difficile dei quartieri degradati di Napoli, sono rappresentate da coloro che detengono il potere (quello vero, molto simile al diritto di vita o di morte degli antichi tiranni nei confronti dei propri sudditi) e che, più facilmente dei “comuni mortali” possono essere accecati dalla propria hybris, ovvero dalla tracotanza, dall’orgoglio che portano l’uomo a credersi onnipotente. Così, la casa-fortino dei Cammarano che si contrappone all’interland napoletano è l’equivalente del palazzo reale che domina la città di Argo della tragedia eschilea, le notizie di morti e attentati portate dai gregari del clan all’interno della casa corrispondono agli annunci recati dai messaggeri di Agamennone, l’eliminazione di uno dei membri della famiglia mentre assiste a una corsa all’ippodromo potrebbe risultare del tutto credibile anche all’interno di un contesto antico.
Tutto (o quasi), insomma, rimanda a un testo classico solo apparentemente stravolto da un bagno nella triste realtà quotidiana della Napoli degli ultimi decenni. Del resto, Capuano riesce a raffreddare la materia narrata proprio attraverso l’eccessivo di turgore degli atteggiamenti dei personaggi che si trasformano in vere e proprie maschere tragiche, enigmatiche e ieratiche allo stesso tempo. Proprio l’ibridazione di forme di rappresentazione “basse” con il contenuto nobile della tragedia di Eschilo è ciò che sottrae la pellicola alla stanca routine del tradizionale “film sulla mafia”: la chiusura dello spazio scenico all’interno della casa della famiglia, gli squarci improvvisi del paesaggio bellissimo e desolato delle periferie di una Napoli sfuggente e niente affatto connotata, l’insistenza sui primi piani dei protagonisti (che sembrano così ridotti a figure da soap-opera), l’uso dimesso della macchina da presa e quello assolutamente anti-illusionistico degli effetti speciali adoperati per simulare spari ed esplosioni sono le cifre di uno stile inconfondibile, che riesce a dare nuova linfa vitale a un testo altrimenti impossibile da attualizzare.
Il futuro ipotecato di un giovane camorrista
Ma chi è, in definitiva, Oreste? E, soprattutto, cosa rappresenta la sua figura mitica, quale processo sottende la sua parabola tragica? Esistono varie letture di questo mito, quasi quante ce ne sono di quello di Edipo, che toccano i più diversi campi di studio, dalla psicoanalisi all’antropologia, solo per citare i due ambiti di ricerca più interessanti. Oreste si macchia del più orrendo dei crimini, uccide la propria madre Clitennestra (nel film, Irene) per vendicare la morte di suo padre Agamennone (Amerigo) che a sua volta ha sacrificato la figlia Ifigenia (Elena) alla causa della guerra contro Troia (nel film, un regolamento di conti tra cosche). Ma Oreste è anche colui che, mettendo fine alla propria disgraziata stirpe interrompe con il suo agire la lunga scia di sangue della vendetta: toccato l’abisso dell’abiezione con il matricidio, compiuto un atto tanto orribile quanto inevitabile, l’eroe, grazie alla sua spontanea umanità si assume tutta la responsabilità delle proprie azioni, giungendo a negare proprio quella legge del sangue alla base di una concezione primordiale della giustizia (occhio per occhio), ma che non basta più agli uomini desiderosi di leggi fondate sulla ragione. Allo stesso modo in cui nella tragedia originale, viene istituito da Atena un tribunale per giudicare l’eroe, un consesso civile definitivamente sottratto alla legge del sangue, fondato bensì sulle norme stabilite dalla polis, nel film Oreste Cammarano diviene un pentito, un collaboratore di giustizia (e al giudice si rivolge senza che il suo primo piano, lo sguardo fisso alla macchina da presa, abbia un controcampo, quasi che egli si ritrovi a confessare le proprie colpe di fronte all’intera società), compiendo il proprio cammino evolutivo di allontanamento da quei meccanismi sanguinari che hanno caratterizzato fino a quel momento l’agire dei propri familiari. Il mito di Oreste chiude, in pratica, un’era in cui gli uomini erano ancora abbastanza vicini agli dèi tanto da illudersi di potersi porre sul loro stesso livello, probabilmente si tratta dell’ultimo dei grandi eroi tragici dell’antichità: cresce predestinato alla vendetta ma accetta il proprio destino come una fatalità, compie le sue azioni senza passione e la stanchezza che lo coglie al termine della sua orribile impresa è il segno di un’umanità ormai definitivamente acquisita. Anche il giovane protagonista di Luna rossa nutre la stessa disillusione nei confronti del successo e del potere che tutti i suoi familiari perseguono: la serie di omicidi di cui si macchia nella parte finale del film non mirano a prendere il comando all’interno del clan, bensì a scardinare proprio quella logica che sottende il meccanismo della faida che, fino a quel momento, ha dominato. Ma soprattutto, tanto Oreste quanto sua sorella Orsola sono i rappresentanti di una generazione che sente l’angoscia di un’era che finisce e ha capito di vivere una vita che non gli appartiene, ipotecata da un futuro deciso da altri, data in pegno per un debito nei confronti di una società della quale difficilmente potranno far parte. Grazie alle atmosfere sospese create sapientemente da una regia che sa lavorare sui tempi morti della narrazione e frammentare gli spazi della rappresentazione, Oreste diviene un antieroe postmoderno capace di guardare con freddo distacco al vano affannarsi dei propri simili per la conquista del potere, l’unico in grado di prendere le distanze da un mondo cui sente di non appartenere.
Riferimento ad altre pellicole e spunti didattici
Antonio Capuano ha tracciato, seguendo un percorso personale, totalmente inedito nel panorama cinematografico italiano, un ritratto a tutto tondo dell’infanzia e dell’adolescenza nel degrado urbano della Napoli camorrista. Già nel 1991 con Vito e gli altri affrontava frontalmente, senza filtri di sorta, il tema dell’iniziazione alla delinquenza di un dodicenne; con Pianese Nunzio 14 anni a Maggio, invece, la delinquenza organizzata era lo sfondo sociale all’interno del quale erano ambientate le vicende di un giovane parroco impegnato contro la camorra e accusato di aver abusato di un adolescente. Fabrizio Colamartino