Il fenomeno dell’immigrazione, comparso come condizione statisticamente di rilievo almeno dall’ultimo trentennio del XIX secolo, quando ingenti flussi migratori cominciarono a segnalarsi in spostamento dalle zone preda di una grave crisi agraria alle nazioni più sviluppate come Stati Uniti, Canada, Argentina, Brasile o la parte centro-settentrionale dell’Europa, pare essere diventato negli ultimi quindici anni un serio problema, oggetto, in alcuni casi, di riflessione profonda, in altri, di isterismi e pregiudizi contro coloro che lasciano il proprio paese d’origine nella speranza di garantirsi un po’ del benessere propagandato dalle società occidentali. A seguito dell’illusione seguita alla decolonizzazione africana degli anni Sessanta, al superamento degli ultimi brandelli del socialismo reale franati insieme al muro di Berlino nel corso del 1989 e alla fuga coattiva da regimi militari oppressivi e illiberali proliferati sul suolo dell’America Latina negli ultimi trent’anni, si è formato in Europa un flusso diversificato e composito che è entrato in contatto con la popolazione locale, originando nel migliore dei casi comprensione e solidarietà, ma provocando spesso tensioni, conflitti, netta divisione sociale, quando non addirittura aperta ostilità. Nel movimento dal Sud al Nord del mondo si giunge ad una sorta di unione inscindibile tra due termini, “Noi” e “Loro”, spesso in aperto contrasto tra loro. La dialettica tra questi due termini – talora comprensibilmente acutizzata per aumentarne gli effetti drammatici e fare presa sul pubblico – è una delle direttrici più interessanti del cinema europeo contemporaneo, molto sensibile a tematiche come lo spostamento, l’attrazione e la repulsione tra culture, la ricerca di una società perduta, il conflitto tra la tradizione e la modernità. La contrapposizione non è tuttavia limitata allo scontro più o meno violento con l’abitante del luogo cui si è approdati, ma investe una specie di gerarchia dell’umanità che considera e pretende alcune etnie superiori alle altre sulla base oscura di un pregiudizio pronto a moltiplicarsi ingiustificatamente. Così, come illustrato sintomaticamente da Città nuda del greco Costantinos Yannaris (1999), può capitare che i giovani immigrati originari del Kazakistan e stabilitisi nel quartiere di Menidi, estrema periferia ateniese, in seguito alla dissoluzione dell'impero sovietico, pur avendo grossi problemi di integrazione sociale a causa dell'imperfetta conoscenza della lingua e del loro restare ai margini, nutrano un disprezzo profondo nei confronti di gruppi da loro considerati al gradino più basso dello sviluppo umano, come gli albanesi. Pregiudizio, differenze culturali (nell'accezione sociologica di insieme di prodotti condivisi da una determinata società), abitudini diversificate, contrapposte visioni del mondo e bisogni antitetici trovano nei luoghi di approdo dell'umanità ferita, disagiata e speranzosa, il terreno di scontro di una conflittualità spesso occultata, ma mai completamente assente. Nell'immagine cinematografica proposta dal cinema europeo, lo scenario d'ambientazione si trasforma spesso in un'autentica arena in cui lo scontro è soltanto procrastinato fino al cruento finale drammatico, in cui si palesa la più desolante frustrazione dell'aspirazione iniziale. Il luogo d'approdo dell'immigrato, sia che si tratti del posto in cui si vive stabilmente da tempo, sia che rappresenti la meta cui giungere dopo un viaggio disperato e avventuroso, ammantato di speranze, si tramuta in luogo estraneo cui tentare una difficile sopravvivenza, fino a pervenire al momento in cui ogni prospettiva tende ad azzerarsi, ribaltando più o meno tragicamente gli assunti di partenza. Si pensi, ad esempio, alle aspirazioni tristemente attuali del sedicenne afgano Jamal in Cose di questo mondo di Michael Winterbottom (2002): partito da un campo profughi nei pressi di Peshawar, dopo un'odissea durata all'incirca un anno con l'avventuroso attraversamento di Pakistan, Iran, Turchia, Italia e Francia, lasciando dietro di sé una scia luttuosa di compagni di viaggio morti durante il tragitto, il ragazzo giunge infine nell'agognata Inghilterra dalla quale, quando il sogno sembra ormai felicemente realizzato, viene espulso al compimento del diciottesimo anno d'età perché non gli è stato concesso il diritto d'asilo. Il caso mostrato da Winterbottom rappresenta, tra l'altro, una situazione particolare all'interno dei flussi migratori, perché racconta e in qualche modo stigmatizza il traffico di esseri umani che personaggi senza scrupoli organizzano a fini di cinico lucro. L'atto d'accusa sulla vicenda risulta evidente anche se lo stile documentario del regista si pone a distanza di sicurezza da qualsiasi giudizio morale sulla storia di Jamal, emblematica per il suo stesso doloroso progredire e non in virtù di interventi forti della regia che possano in qualche modo influenzare il giudizio dello spettatore facendo leva sulla sua emotività. Il caso di Jamal, inoltre, introduce il tema del minore emigrante non accompagnato da un adulto, aspetto su cui la regista palermitana Costanza Quatriglio, estremamente sensibile a problematiche relative ai minori (tra le sue pellicole anche L'insonnia di Devi, del 2001, accurata indagine sui ragazzi stranieri adottati da famiglie italiane), sta lavorando in questi mesi, raccogliendo materiale in previsione delle riprese di un documentario che vedrà presumibilmente la luce entro la fine del 2004.
Il sogno infranto
Al di là dello sfruttamento subìto e indipendentemente dal fatto che il minore sia accompagnato o meno da un adulto, il “sogno infranto” è uno dei motivi dominanti nelle pellicole che parlano del problema dell’immigrazione. Il canovaccio narrativo prevede in alcuni casi una certa dose di cinismo (si pensi alla bambina che nell’Albania mostrata da Gianni Amelio in Lamerica [1994] balla ai ritmi filtrati dal televisivo “Non è la Rai”, immagine dell’Italia spensierata e facilona d’inizio anni Novanta), più spesso un amaro risveglio dalle illusioni cullate. Il piccolo Jamal, protagonista del già citato Cose di questo mondo, si troverà costretto a rubare i soldi necessari all’acquisto del biglietto per il treno che gli garantisca l’attraversamento del nord Italia e della Francia per non trovarsi immobilizzato in quel limbo rappresentato dalla città di Trieste, nella quale si è ritrovato senza compagni d’avventura e senza alcuna disponibilità finanziaria. In La promesse (Luc e Jean-Pierre Dardenne, 1996), Assita giunge dal Burkina Faso a Liegi, in Belgio, con il figlio in fasce, per ricongiungersi con il marito Hamidou, ma quest’ultimo cade da un’impalcatura per sottrarsi ad un’ispezione dell’ufficio immigrazione e muore, senza che la moglie sia a conoscenza dell’accaduto. Ciò che per Assita era in principio la possibilità di una vita serena e dignitosa, ricongiunta ai suoi affetti più cari, si trasforma in asprezza esistenziale (la donna, che crede il marito fuggito a causa di debiti di gioco, è costretta a lavorare duramente con il figlio piangente adagiato sulle sue spalle), in tragica inconsapevolezza e in realistica minaccia (la donna subisce un tentativo di violenza – con il figlioletto piangente a fare da commento straziante alle immagini – organizzato dal datore di lavoro del marito con lo scopo di esortarla ad abbandonare il Belgio e a non cercare, di conseguenza, di ritrovare il legittimo consorte). Anche il Penhan de Il tempo dei gitani (Emir Kusturica, 1989) parte per l’Italia dalla natia Jugoslavia a seguito del capo del suo accampamento Rom, Ahmed, ma la realtà che dapprima osserverà e poi dovrà obbligatoriamente perseguire è fatta di violenza (la banda di Ahmed stupra delle adolescenti per insegnar loro il mestiere della prostituzione), sfruttamento (bambini acquistati da giovani puerpere, costrette a disfarsene per questioni di onore, e rivenduti al miglior offerente) e abuso (bambini indotti a fingere di essere menomati per guadagnare più soldi). Tuttavia, nel suo personale percorso di formazione – condotto con modalità di messa in scena lunari, proprie del registro poetico di Kusturica – Penhan non rifiuterà il ruolo che gli è stato assegnato, ma anzi lo perseguirà con grande determinazione, arrivando a non far rimpiangere l’ex capo Ahmed, e giungendo addirittura a palesare l’intenzione di vendere il figlio della sua sposa perché convinto che non si tratti del frutto del suo seme. Il ribaltamento della prospettiva iniziale può culminare nella tragedia: questo è il momento in cui risulta maggiormente evidente il conflitto esistente tra immigrato e residente, tra l’inconciliabilità delle rispettive culture e l’impossibilità nel trovare un equilibrio tra le parti e una serena convivenza. Le situazioni descritte da Kusturica si collegano idealmente alla vicenda della sedicenne Lilia, protagonista del film Lilia 4-Ever (2002) del regista svedese Lukas Moodysson. Una ragazza di un piccolo paese dell’ex Unione Sovietica s’illude di trasferirsi negli Stati Uniti con la madre, ma in realtà la donna ha previsto che il mutamento radicale di vita riguarderà soltanto se stessa. Lilia, infatti, rimarrà intrappolata nello squallore di una vita senza speranze, senza soldi, con l’unico conforto di un amico undicenne su cui convergono significati simbolici ben precisi (il bambino si trasforma in una sorta di angelo custode). L’emigrazione comparirà anche in questo caso sotto il segno della falsa speranza, accordata da un ragazzo che intende portarla con sé in Svezia, salvo, successivamente, farla sprofondare negli abissi della prostituzione, ribaltando dolorosamente le speranze cui Lilia si era aggrappata entusiasticamente per ovviare alla traumatica mancanza materna. L’abisso in cui precipita il minore immigrato può riguardare perfino l’annullamento della sua stessa esistenza, in seguito ad una conflittualità tra culture cieca e violenta, determinata da una situazione sociale priva di sviluppo e prosperità. Nello squallore esistenziale della cittadina di provincia di Bailleul raccontato da Bruno Dumont ne L’età inquieta (il cui titolo originale è, sintomaticamente, La vie de Jésus, con allusione al sacrificio di un’umanità alla deriva), il giovane algerino Kader è ucciso selvaggiamente a calci e a pugni dalla banda di nullafacenti capeggiata dal protagonista Freddy a causa del semplice sospetto paranoico che il ragazzo arabo se la intenda con l’ex fidanzata Marie. In realtà, tale sospetto è soltanto la degna conclusione di un conflitto sulla diversità – narrato dal regista con estremo rigore e una freddezza raggelante – che ha contrapposto non due culture differenti, bensì un pregiudizio cieco (quello degli amici di Freddy) a confronto con un’esistenza (quella di Kader) la cui colpa è di non appartenere al gruppo chiuso dei nati nella cittadina. Ci si può imbattere in un caso analogo se si prende in considerazione Pelle alla conquista del mondo (1987) del regista danese Bille August (tratto dalla prima parte del romanzo di Martin Andersen Nexö), storia ambientata nella Danimarca della fine dell’Ottocento, ma con evidenti riferimenti alla contemporaneità. Seppure non si giunge all’improvvisa esplosione di violenza brutale e assassina come nel caso de L’età inquieta, resta – quale filo rosso del racconto – un’ingiustificata ostilità nei confronti degli immigrati svedesi fuggiti dalla loro nazione per una grave carestia. Contrariamente al padre pavido arresosi alle brutture della vita, Pelle, il piccolo protagonista del film, anch’egli vittima delle angherie e delle umiliazioni dei prepotenti aiutanti del fattore e dei dispettosi coetanei, riesce a sottrarsi alle delusioni patite grazie ad un personale percorso di crescita che lo porterà ad abbandonare la figura paterna e la Danimarca per scoprire il mondo, qualunque volto esso abbia. Egli non fugge, ma vive l’esperienza dell’ “andare oltre”, una condizione che esula dalla pura condizione esistenziale e che ascende direttamente a concetti più profondi come la libertà, il decoro e il rispetto dell’uomo in quanto essere vivente.
Ridere sull’integrazione
In questo breve excursus sul rapporto tra minori e immigrazione occorre accennare, infine, ad un fenomeno cinematografico recente che riflette sui modelli dell’integrazione e del conflitto tra culture, rifiutando, però, il “consueto” registro drammatico. Nel cinema inglese degli ultimi cinque-sei anni (ma non solo in quello britannico come lo svedese Jalla! Jalla! conferma), la diversità assume i connotati vivaci e farseschi propri della commedia di costume. Pellicole come Mio figlio il fanatico (Udayan Prasad, 1998), East is East (Damien O'Donnel, 1999) o Sognando Beckham (Gurinder Chadha, 2002), pur non essendo aliene da alcuni facili stereotipi, mostrano una società che ha già dato per acquisita la necessità dell’integrazione (nella fattispecie relativamente all’elemento indiano e pakistano) e ha spostato la conflittualità non più tra immigrati e “autoctoni”, ma tra le diverse generazioni di immigrati (la prima, quella dei genitori, che intende preservare le tradizioni del paese d’origine, la seconda, quella dei figli, che accetta il mutamento dei tempi e la modernizzazione dei costumi). In questi casi si assiste alla replica delle classiche dicotomie tradizione/modernità, passato/presente, società pretecnologica/ipertecnologia, trasferite però in culture lontane da quella occidentale. Il conflitto, proprio perché avviene in un contesto diverso da quello inglese (e più in generale europeo), origina divertimento e non tragedia: in Mio figlio il fanatico un figlio fondamentalista islamico rifiuta l’Occidente (senza le terribili implicazioni della recente cronaca, ovviamente), in East is East una prole pienamente parte della Swinging London anni Settanta si scontra con un padre che segue i rigidi criteri di osservanza musulmana, in Sognando Beckham una ragazza sfida i genitori per rincorrere il suo sogno di diventare una professionista nel calcio. In tutti e tre i casi citati ci troviamo innanzi ad un nuovo tipo di “commedia etnica” che, proprio come la tradizionale commedia di costume, produce contrasti generalmente innocui che appartengono all’intima sfera delle frizioni familiari e meno alle problematiche sociali legate ai fenomeni di immigrazione.
di Giampiero Frasca
(Cittadini in crescita n. 1, 2004, pp. 205-213)