Miracolo a Milano

20/07/2009 Tipo di risorsa Schede film Temi Emarginazione sociale Titoli Rassegne filmografiche

di Vittorio De Sica

(Italia, 1950)

Sinossi

Totò, piccolo bambino nato sotto un cavolo, passa l’infanzia chiuso in un orfanotrofio per la precoce morte della madre, un’anziana e molto eccentrica signora. Uscito dall’istituto, il giovane si ritrova in una Milano sconosciuta, fredda sia nel clima sia nelle persone incontrate per la strada. Pieno di bontà e voglia di vivere, ma ignaro su come passare la notte, egli si ferma a dormire da un barbone. Nei giorni successivi, insieme a lui e ai suoi amici decide di costruire una baraccopoli dove tutti i “senza tetto” possono ripararsi. Messa in piedi con gli scarti della città, ben presto essa si popola di nuova gente in un clima di gioia e di fratellanza. Con la scoperta di un giacimento di petrolio nel villaggio iniziano però i guai. Il proprietario della terra cerca in tutti i modi di cacciare i vagabondi con il soccorso della polizia. Grazie all’aiuto di una colomba “realizza-desideri” datagli dal fantasma della madre, Totò riesce a respingere i primi attacchi, ma ben presto è costretto a capitolare, anche per la perdita temporanea della colomba magica. Ritrovata dalla compagna Edvige quando ormai tutti i barboni sono stati rinchiusi nei cellulari della polizia, al giovane ragazzo non resta che liberare gli amici, prendere le scope dei netturbini della città e volare con i propri compagni in cielo.

Analisi

La favola inizia con il fatidico “C’era una volta”. Subito dopo, nella prima scena, una vecchietta va a raccogliere in un campo di cavoli un bambino appena nato, lasciato lì da una cicogna. Passano gli anni e il piccolo Totò cresce. La vecchia madre gli insegna le tabelline e soprattutto l’immaginazione. In una sequenza successiva si vede, infatti, l’anziana donna costruire un piccolo mondo attorno ad una striscia di latte caduta inavvertitamente per terra, diventata per l’occasione un fiume. Alla sua morte il piccolo Totò entra in un orfanotrofio. La cinepresa ci fa vedere il suo ingresso dal portone principale e, senza apparenti stacchi di montaggio, la sua uscita alcuni anni dopo quando ormai è diventato un giovane uomo. Senza queste prime scene non sarebbe possibile comprendere l’importanza della dimensione infantile nel resto della fiaba. Totò all’uscita dall’istituto degli orfani è un bambino nei panni di un adulto e i suoi atteggiamenti lo confermano: saluta tutte le persone che incontra per strada, applaude la gente vestita bene, cattura il ladro della sua borsa lasciandogli però la refurtiva. Tra tutte le caratteristiche proprie dell’infanzia, Totò ha solo le più nobili, quelle cioè che negli altri film desichiani sui bambini non erano mai venute fuori e che solo in una favola (e quindi in uno spazio d’indagine non indotto a riprodurre puntualmente la realtà) potevano trovare asilo: il ragazzo possiede fantasia, forza, vitalità, gioia di vivere, un senso etico della giustizia, un amore incondizionato per le cose e per le persone. De Sica ci racconta così, sotto forma di favola, la vita di un bambino scaraventato, all’improvviso nel mondo dei grandi, in una Milano seria, lavoratrice e spinta verso il progresso. Egli si unisce a chi non esita ad accoglierlo (un senza-tetto), costruisce una baraccopoli con gli scarti della civiltà, s’innamora di una serva, in altre parole va contro ogni abitudine sociale. La scelta di questo soggetto, firmato non a caso da Cesare Zavattini, imprescindibile collaboratore del regista, ha un forte impatto polemico e un’innata carica eversiva perché ben presto si scopre che anche i barboni sono vincolati alla rigidità dei ruoli sociali e soprattutto al dio-denaro: nella baraccopoli, infatti, c’è una signora con tanto di domestica a seguito, ci sono due ragazzi impossibilitati ad amarsi per il colore della pelle (lei è bianca e lui è nero), esistono spettacoli a pagamento (il tramonto da osservare estasiati) c’è un barbone che mira alla borghesia (uno splendido Paolo Stoppa). C’è in ogni accattone un desiderio incondizionato di ricchezza, simboleggiato dal vecchietto che vuole essere più alto del suo metro e venti, una bramosia che porta inevitabilmente la comunità a sfaldarsi quando Totò, grazie alla colomba magica, regalerà agli amici tutti i beni che hanno sempre sognato. L’amarezza con cui viene descritta questa dipendenza dal denaro non toglie nulla all’amore degli autori nei confronti dei vagabondi. Scene splendide di dignità e poeticità umana rimangono impresse nella memoria come quella dello straccione che mangia un pollo vinto in premio ad una lotteria o come la scena mattutina dove i senza-tetto, per non morire di freddo, sono costretti a correre e a rincorrere i pochi raggi di sole che scalfiscono la nebbia cittadina. A cinquant’anni di distanza il film appare profetico, forse il più attuale tra quelli neorealisti, certamente quello che ha saputo indagare meglio, pur sotto forma di favola, gli ingranaggi della società e a rilevarne le storture e le ingiustizie. La fuga finale in cielo a cavallo delle scope, in definitiva, non rappresenta tanto un’evasione dalla civiltà quanto una solenne vittoria dell’immaginazione e della fantasia anche nel luogo in cui il meccanismo è più oliato e dove, come apostrofa la frase finale della favola, “un buongiorno (quasi mai) vuol dire veramente buongiorno”. Marco Dalla Gassa  

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