A quasi quarantacinque anni dal suo ingresso nell’industria cinematografica giapponese e a quasi trenta dal suo esordio come regista di un lungometraggio d’animazione (era il 1979 quando realizzava Lupin III – il castello di Cagliostro), dopo una carriera piena di premi e riconoscimenti, Miyazaki oggi è universalmente riconosciuto come il più grande regista di film d’animazione degli ultimi decenni. In occasione dell’uscita nelle sale italiane del film sul celebre ladro-gentiluomo, proviamo a rileggere la sua produzione, utilizzando una prospettiva di analisi forse bizzarra nella sua banalità, ma certamente originale: trattandolo come un comune regista di cinema dal vero, come uno che scandisce le fatidiche parole “Ciak, motore, azione!”, che stabilisce quando iniziare e terminare una carrellata, come montare due fotogrammi o che tipo di recitazione pretendere da un attore. Forse fuorviante o riduttivo, l’approccio che abbiamo scelto può rappresentare un buon modo per affermare la pari dignità del cinema d’animazione rispetto a quello “in carne ed ossa”, in un contesto culturale come quello italiano che continua a considerare – salvo rare eccezioni – il linguaggio disegnato (compreso quello dei fumetti) figlio di un Dio minore. Chi ha visto, ad esempio, Il mio vicino Totoro (1988) del nostro regista e Le vacanze di Dongdong (1984) di Hou Hsiao-hsien e ha percepito la ricchezza di una eventuale analisi comparata tra i due film, sa che non è così. È lo stesso Miyazaki Hayao, d’altronde, a richiedere, forse quasi a pretendere, parallelismi cinematografici. Curando personalmente la maggior parte delle fasi produttive (sceneggiatura, storyboard, “riprese”, montaggio, postproduzione), sembra, infatti, reificare il sogno della politique des auteurs: guidato da urgenze di natura estetica prima ancora che economica, egli rincorre, proprio come Truffaut o Godard, ossessioni e topoi personali, offre una propria visione del mondo (e del cinema), rilegge i generi, rielabora esperienze autobiografiche, letture, vicende storiche traducendole in uno stile di racconto inimitabile. Più semplicemente egli resta un artigiano, un amante della tecnica e della tecnologia al servizio dell’immaginazione dell’uomo, di cui il cinematografo è, senz’altro, una delle più efficaci realizzazioni. In fin dei conti, come giustamente ricorda Gianni Rondolino, l’etimologia del termine “cinematografo” significa “scrittura del movimento”, una definizione che calzerebbe a pennello anche per la sua opera che, come vedremo, non è solo disegno, ma anche grammatica, ortografia e calligrafia.
Meccanismi oliati
Nella prima sequenza di Porco Rosso (1992), Marco Pagot va alla caccia di una banda di pirati dell’aria che ha appena rapito un gruppo di chiassose bambine. Il suo aereo fa le bizze, perde olio, ha il motore singhiozzante e la cloche dura. L’aviatore è sereno, convive con i problemi tecnici (salverà senza problemi le piccine) e non perde il sonno nemmeno quando, qualche sequenza dopo, viene abbattuto da Donald Curtis, un aviatore suo avversario, proprio a causa di un guasto meccanico. Sa di non essere il solo a fare di necessità virtù: quando Pazu, in Laputa, il castello nel cielo (1986), viene arruolato nella nave pirata di Ma Dola insieme all’amica Sheeta, viene spedito sottocoperta ad aiutare il nonno alle prese con un’avaria al motore; anche ne Il castello errante di Howl (2004) l’omonimo ramingo fortilizio ha i suoi bei problemi di movimento quando Kalsifer, il fuoco che lo alimenta, viene spento dalla Strega delle Lande. Non è finita qui: analoghi guasti “tecnici” affrontano la protagonista di Kiki’s Delivery Service – La ragazza delle consegne (1989) alle prese con una scopa che non vuole volare, e il suo amico Tombo in sella alla sua scalcinata bici volante. Per tutti loro precipitare fa parte del gioco e non sempre produce danni: l’abitazione di Conan nella serie tv Conan il ragazzo del futuro (1978) non è forse costruita sulle macerie di una nave spaziale precipitata su un’isola deserta? Quando Nausicaä precipita con il suo deltaplano non termina forse in una cavità paradisiaca sotto la Giungla Tossica dove può respirare senza maschera a gas? Figlio di un costruttore di aeromobili (la ditta di famiglia forniva componenti all’aviazione militare giapponese), trasferendo la passione per la meccanica del volo dalla realtà alla carta e disegnando una vera e propria flotta di immaginifici oggetti volanti, Miyazaki non ha fatto altro che infondere alle proprie creature tecnologiche una congruenza fisica, un’efficienza ingegneristica, ma anche una congenita fragilità. Come avviene per la complessa struttura cubica che regola Laputa o l’enorme congegno che in Lupin III – il castello di Cagliostro governa l’orologio del castello e nasconde il segreto del Caprone, ogni ingranaggio, pur perfettamente funzionante, ha un suo punto di rottura che può condurre all’autodistruzione ma, anche, sorprendentemente, verso imponderabili e meravigliosi mondi: quando la torre campanaria crolla uccidendo il crudele Cagliostro, sotto di essa emergeranno le splendide rovine dell’antica Roma. È proprio a partire da questo credo estetico, già in nuce nel suo primo lungometraggio, che il cineasta giapponese erige la propria poetica. Da un punto di vista linguistico, infatti, i suoi film seguono alla lettera i dettami del découpage classico e, pertanto, prassi del discorso che prevedono chiarezza espositiva, fluidità narrativa e coerenza grammaticale. Qualcuno potrebbe obiettare che tali coordinate non conducono ad un territorio inesplorato, giacché l’animazione si fonda da sempre (Disney docet) sulle regole elementari del cosiddetto “montaggio invisibile”. Ciò che differenzia il suo lavoro da quello di altri colleghi è, a ben vedere, la consapevolezza che l’invisibilità del racconto non si ottiene con la semplificazione visiva, ma con l’elaborazione di una complessa e interdipendente architettura filmica. Viene in nostro soccorso, ancora una volta, la metafora dell’ingranaggio: più ampio, ingegnoso e articolato sarà il dispositivo, più sorprendente sarà verificare quanta energia veicola, a patto che – come la stanza di Kamaji nel complesso termale de La città incantata (2001) – resti lontano da occhi indiscreti . Facciamo un esempio: in una sequenza apparentemente secondaria de Il mio vicino Totoro – quella che vede impegnate Satsuki e Mei alla ricerca della scala che conduce al piano di sopra – il regista dedica all’investigazione delle due sorelline otto inquadrature, ideando otto modi diversi di costruire lo spazio diegetico che sfruttano, di volta in volta, la profondità di campo, i giochi di quadro nel quadro, la scala dei piani e soprattutto le possibilità offerte dall’entrata e dall’uscita di campo dei personaggi e dalla conseguente varietà dei fuoricampo ottenibili (tra cui anche alcuni interni). La corsa divertita delle due bambine risulta, così, perfettamente leggibile, nondimeno, grazie all’impianto complesso della mini-sequenza, si traduce nella coreografia di un balletto che amplifica efficacemente il senso di eccitante scoperta che deve provare chi si trasferisce in una nuova e misteriosa abitazione. È l’ampiezza espressiva al servizio dei processi d’identificazione dello spettatore, dunque, il fine che persegue il regista, anche se lo costringe ad un lavoro più lungo e complesso nella preparazione delle animazioni. La molteplicità degli angoli di ripresa (senza che venga mai infranta la regola dei 180°), l’uso frequente di dettagli nelle sequenze d’inseguimento per rendere comprensibile o avvincente un’azione, l’incatenamento di inquadrature in base a raccordi di movimento o di sguardo con l’obiettivo di creare effetti di suspense, sorpresa o ritmo, l’insistente ricorso alle soggettive e ai flash back per illustrare i sentimenti e/o il passato dei protagonisti, così come molte altre soluzioni stilistiche del cinema classico, se sul versante produttivo richiedono un’enorme mole di illustrazioni e una certosina attenzione al posizionamento logico di oggetti e persone nello spazio profilmico (ricordiamo che Miyazaki disegna quasi tutto a mano), su quello poetico si dimostrano necessarie per modulare in maniera eterogenea e fluida il rapporto di polarizzazione che il pubblico istituisce con il racconto. Lo dimostra, ad esempio, la certosina attenzione che egli pone nel ricreare efficaci dispositivi di sdoppiamento dello spettatore: in tutti i finali, piccole comunità assistono agli eventi rappresentati (ad es. la sfida tra Porco rosso e Curtis o il salvataggio di Tombo da parte di Kiki), molte sequenze si basano sul principio voyeuristico della visione (la comparsa del Dio della Foresta mostrata con gli occhi del monaco Jikobo in Principessa Mononoke), spesso il pubblico è depositario di un sapere superiore rispetto a quello dei personaggi (come quando i genitori di Mei e Satsuki ignorano di essere osservati dalle figlie nel finale de Il mio vicino Totoro).
Terre di mezzo
Se nel cinema hollywoodiano il découpage classico serviva a rafforzare l’impressione di realtà, lo schema a domino del cineasta giapponese punta invece, paradossalmente, a creare momenti di frattura, d’avaria narrativa, che ci consentono di assistere ad improvvise e imponderabili estasi. L’affermazione non sembri in contraddizione con quanto affermato finora. In effetti, Miyazaki è celebre per la capacità di inventare mondi meravigliosi, epifanie immaginifiche, passaggi visionari. Ogni film ha i suoi lampi di lirica visiva: quando il Dio della Foresta cammina in mezzo ad un paesaggio da fiaba salutato dai Kodama (piccoli spiritelli bianchi che muovono la testa), quando Sheeta e Pazu attraversano la rigogliosa Eden di Laputa, quando Pagot lambisce il paradiso degli aviatori, quando le due sorelle e i Totoro assistono raggianti all’innalzamento repentino di un albero nel giardino di casa, quando Sophie incontra Howl bambino sotto un cielo di stelle cadenti, e così via. Ebbene, queste ed altre estatiche apparizioni non avrebbero una tale forza riverberante se non si verificassero con estrema naturalezza, con una spontaneità che può essere garantita solo dalla fluidità del linguaggio cinematografico e dall’ “impressione di incredulità” che un ingranaggio così ben oliato trasmette. In altre parole, i disegni stemperano la loro ricchezza formale dentro un’ingegnosità narrativa che infonde una forza normalizzante all’evento, come se appartenesse all’esperienza di tutti. Si pensi a quando Satsuki vede per la prima volta Ototoro alla fermata dell’autobus sotto una pioggia torrenziale: la comparsa dell’enorme troll avviene grazie ad una semplice e banalissima soggettiva della bambina che osserva, sotto l’ombrello, la mano unghiuta e paffuta dell’essere. Tutta la sequenza si delinea, invero, come una piccola scena di vita quotidiana: campi e controcampi, microeventi (l’ombrello imprestato, il rumore delle gocce), raccordi sull’asse, divertenti soggettive (quella di una rana che osserva l’episodio e se ne va). L’incanto del mondo – per dirla con una bella definizione di Anna Antonini – sembra seguire le stesse regole fisiche dell’unità di tempo più ordinaria. Il passaggio scorrevole dalla realtà all’immaginazione, dalla normalità alla straordinarietà (e ritorno) non può dunque che tradursi nelle raffigurazioni di soglie inconsistenti, materie vaporose, confini intangibili. L’ammasso di nubi che nascondono l’invisibile Laputa o il cimitero degli aviatori osservato da Pagot, le gallerie che percorrono Mei, Sophie e Chihiro, ma anche le basse distese di acqua che separano la città incantata dalla casa della strega Zeniba, le risaie de Il mio vicino Totoro, i campi di grano sognati da Sheeta, le chiome degli alberi (Principessa Mononoke) o i campi di erba alta percossi dal vento (Il mio vicino Totoro, Howl), rappresentano, infatti, dei “non” territori, almeno da un punto di vista toponomastico. Sono soglie che i personaggi attraversano quasi senza accorgersene. Non può essere, infatti, casuale il loro stato emotivo innanzi a tali epifanie. Ashitaka è privo di conoscenza quando il Dio Cervo lo guarisce, Pagot è spossato da una battaglia aerea quando osserva il cimitero degli aerei, Nausicaä è gravemente ferita quando viene salvata dagli Ohmu, sognano un sogno reale Mei e Satsuki quando assistono alla repentina crescita dell’albero in giardino. Insomma, Miyazaki si rivela l’artefice di una poetica che potremmo definire del “dormiveglia”. Proprio com’è impercettibile, temporaneo, apparentemente reale o tangibilmente fantastico quello stadio intermedio della coscienza che separa il mondo empirico da quello onirico, così il cinema del grande animatore gravita in una terra di mezzo, dove regna la fragilità e, insieme, la finitezza di ciò che è passeggero, dove tutto fiorisce e sfiorisce in un breve lasso di tempo come dimostrano le impronte che il Dio della Foresta lascia al suo passaggio.
Stati di passaggio
Osservate con quest’ottica, una serie di ossessioni e ricorrenze miyazakiane acquistano nuovi e più intensi significati. Come ad esempio la scelta di rendere paladine dei suoi film brillanti preadolescenti che vivono con leggerezza e responsabilità un tempo della vita destinato a lasciare poche tracce visive nel loro corpo, ma molti segni nella loro coscienza e nella loro memoria: Satsuki, Kiki, Chihiro, Sheeta, Sophie, Fio, senza genitori e senza disperarsene, sono ragazzine a tutto tondo, che affrontano con allegria, affidabilità e maturità le sfide piccole e grandi che ogni nuovo giorno riserva. Accanto a loro, non sarà un caso, si stagliano amici o innamorati dal profilo mutante o ibrido: Haku de La città incantata e Howl che assumono sembianze di drago, Marco Pagot aviatore nel corpo di un enorme maiale, animali frutto di incroci razziali improbabili come Teto, il compagno fidato di Nausicaä, un po’ volpino, un po’ scoiattolo, un po’ fennec o i Totoro, mezzo gufi e mezzo orsi. Queste storie d’amore e di amicizia – è scritto nel destino – sono destinate a scemare con il passare del tempo senza mai essere tristi o nostalgiche. Si cristallizza, in buona fine, anche grazie a questi leitmotiv, l’esigenza del regista di ricreare mondi aerei e di rincorrere, senza tregua, l’idea del volo come vera e propria condizione esistenziale di passaggio, fisica e metaforica al tempo stesso. Se dal cielo possono giungere le minacce più perniciose (la guerra in Porco Rosso, Howl e Laputa si statuisce nei bombardamenti aerei), in cielo si possono vivere le gioie più travolgenti (si pensi a quando Chihiro ricorda ad Haku il suo vero nome o a quando Tombo vola con la sua bicicletta). Se tutte le tracce del radicamento, della pesantezza e della stabilità vengono, per qualche ragione, distrutte o abbandonate (cfr. i castelli distrutti in Lupin III, Laputa, Nausicaä e Howl, o i traslochi di Kiki e de La città incantata), non resta altro che l’aria come unico elemento tangibile per confrontarsi con il sé e con l’altro. Ancora una volta ci troviamo in uno stadio impalpabile dell’essere che tiene insieme realtà e fantastico come fossero una cosa sola. A ben vedere è quanto ha fatto il cinema, anzi, il cinematografo, dal 1895 ad oggi.