Francia, 1967
Regia: Robert Bresson
Soggetto: Georges Bernanos, tratto da Nouvelle histoire de Mouchette
Sceneggiatura: Robert Bresson
Prodotto da: Mag Bodard
Fotografia (b/n): Ghislain Cloquet
Montaggio: Raymond Lamy Musiche: Claudio Monteverdi Scenografie: Pierre Guffroy
Intrepreti e personaggi: Nadine Nortier (Mouchette), Jean-Claude Guilbert (Arsène), Paul Hebert (il padre di Mouchette), Maria Cardinal (la madre di Mouchette), Jean Vimenet (Mathieu), Marie Susini (la moglie di Mathieu), Suzanne Huguenin (la vecchia), Raymonde Chabrun (il negoziante)
Durata: 80 minuti
Sinossi
Mouchette è una taciturna quattordicenne che vive in una famiglia con la madre ammalata, il padre irascibile e i fratelli, uno dei quali ancora in fasce. La vita di Mouchette è caratterizzata dalla sua esclusione dal giro delle coetanee, nei confronti delle quali ha un atteggiamento di ripulsa che viene evidenziato dal ripetuto atto del lanciare verso le altre ragazze manate di fango e dall’incapacità nel trovare l’intonazione giusta per cantare un canto nelle ore scolastiche. Non meno triste è la quotidianità all’interno della sua umile abitazione, nella quale deve assolvere alle faccende domestiche, accudire la madre, aiutare il padre e il fratello – che rientrano a sera puntualmente ubriachi nella catapecchia – a mettersi a letto, nonché preoccuparsi del piccolo fratello. In una notte di pioggia Mouchette viene coinvolta nel litigio tra il bracconiere Arsène e la guardia giurata Mathieu, avvenuto a causa della barista Louisa, della quale entrambi sono innamorati. Arsène, convinto di aver ucciso il rivale, trova Mouchette sotto la pioggia e la conduce con sé nella sua capanna affinché la ragazza possa fornirgli un alibi, ma una volta giunti nel rifugio l’uomo, ubriacatosi e dopo essere rimasto vittima di una crisi epilettica, approfitta sessualmente della giovane. Tornata a casa la mattina successiva, nonostante abbia voglia di parlarle, Mouchette assiste impotente alla morte della madre. Dopo aver risposto in malo modo ad una domanda del padre, Mouchette esce di casa per andare in paese, dove deve affrontare l’ipocrita dolore e il pregiudizio dei suoi concittadini. La lattaia, offrendole un caffè con l’intenzione di farla parlare e soddisfare così la sua curiosità, si accorge che la ragazza ha dei segni sul petto. Mouchette scopre che Mathieu è vivo e vegeto e gli comunica, ribaltando sensibilmente il senso del sopruso subito, che Arsène è il suo amante. Una lugubre vecchia invita invece la ragazza ad entrare in casa e le parla del culto dei morti. Mouchette allora decide di rifugiarsi nel bosco: indossa un vestito bianco che le ha regalato la vecchia e, quasi fosse la continuazione di un tragico gioco, dopo essersi rotolata in terra diverse volte, si lascia cadere in una pozza d’acqua per morire.
Analisi del film
Bresson descrive, in Mouchette, uno stato intermedio tra infanzia e adolescenza in cui il personaggio è assolutamente sballottato dalle brutture dell’esistenza e dall’egoismo degli adulti. E per fare questo, il regista francese decide di scegliere “la ragazzina più maldestra, la meno attrice”, per mostrarla, attraverso un’iconografia fatta di zoccoli scomodi, grembiuli sporchi e capelli in disordine, nel suo stato di diversità che si appresta al martirio da parte di un mondo cieco ed ostile. Robert Bresson è sempre stato un autore in grado di sublimare l’immagine reale in perfetta effigie mentale, segnando un percorso della visione che parte da un dato oggettivo fissato impressionisticamente in modo da essere restituito allo spettatore come emblema di una condizione che della realtà ha la dimensione, il respiro e l’oggettività, ma che viene rielaborato a livello simbolico, trasformandosi in sguardo morale, etico, ma mai moralistico. Quello del regista francese è, in sostanza, un cinema che crea l’immagine e non si limita a ‘riprodurre’ delle situazioni (a fare cioè del semplice teatro filmato, se si tiene giustamente conto della celebre distinzione operata dal regista stesso tra ‘cinema’ e ‘cinematografia’, dove nel primo caso si fa della mera riproduzione, mettendo in scena un canonico spettacolo di derivazione teatrale, mentre nel secondo si realizza un produttivo lavoro con la macchina da presa), che opera sulla sineddoche (soprattutto per quanto riguarda la ricostruzione degli ambienti, mai ricercati, ma semplicemente suggeriti sulla base di elementi fortemente connotati e riconoscibili) e sull’essenzialità (dialoghi ridottissimi, inquadrature di porzioni di corpo), che destruttura e simboleggia, in modo da creare concisione e frammentazione, per una narrazione che basa la sua forza sull’accenno e sull’ellissi. Cinema rigoroso e cristiano quello di Bresson, nel quale i piccoli cenni, le poche parole e i rari gesti acquistano un’importanza fondamentale proprio in virtù della loro mancanza, del vuoto esistenziale che circoscrive ed opprime quelli che il regista stesso considera ‘modelli’ invece che attori, quasi fossero delle semplici sagome pronte a mostrare la sofferenza e il dolore dell’uomo moderno (non a caso sono rarissimi gli attori professionisti nel suo cinema – anche la Nadine Nortier che interpreta la ‘sgraziata’ Mouchette è una dilettante –, a conferma dell’importanza del ‘corpo’ più che della recitazione). Anche in Mouchette, ciò che viene mostrato è la sostanza emblematica del dolore, considerato come strumento pessimista di analisi e di conoscenza, di verifica della propria condizione esistenziale. La ragazza, così come gli altri personaggi bressoniani, è un’innocente che suo malgrado lotta contro le soperchierie di un mondo nel quale è destinata a soccombere. Compie un percorso, una specie di ‘passione cristologica’ che la condurrà all’inevitabile sconfitta, quando la sopraffazione ottiene l’ineluttabile vittoria finale. La pellicola, infatti, divide la personale via crucis della bistrattata quattordicenne secondo tre fasi del suo cammino distinte ed incalzanti, sintomatiche e via via più insopportabili e dolorosamente insopprimibili, nonostante l’apparente imperturbabilità espressiva che caratterizza i personaggi di Bresson. La prima fase della scarna narrazione è, infatti, caratterizzata dal tema dell’esclusione della giovane dal consorzio sociale nelle sue varie manifestazioni. Le inquadrature di Bresson isolano Mouchette in ambienti dei quali fa parte come sola presenza, ma che non condivide perché radicalmente esclusa da essi: così a scuola, dove non esiste un rapporto con le sue compagne di classe a causa della diversità espressa dal fastidioso rumore di zoccoli che segna il suo ingresso in classe; così con i coetanei di sesso maschile, con i quali si limita a scherzare (si veda la sequenza dell’autoscontro durante la festa paesana), facendo supporre una sorta di simpatia sentimentale che viene inesorabilmente frustrata prima dalla mancanza di comunicazione (i due ragazzi si ignorano dopo il giro sulla giostra), poi dall’intervento violento dell’autorità paterna, atta a riportare la ragazza a quelle che vengono reputate le sue responsabilità principali ed esclusive, ossia la cura delle faccende domestiche e della madre malata. La seconda fase del film, preannunciata dall’intervento paterno, prevede il tema della violenza, inaugurato a scuola, dove la maestra costringe Mouchette con la forza a cantare la canzone che le sue compagne stanno cantando in coro, e sviluppatosi pienamente nel momento in cui la ragazza subisce lo stupro da parte di Arsène, a sua volta protagonista di un’azione aggressiva nei confronti della guardia Mathieu. Il terzo segmento del film completa e sostanzia il significato della pellicola e rende palese la finalità dell’esclusione da parte della ragazza: Mouchette si avvia verso un’inevitabile morte, unica chiusa possibile ad un’esistenza segnata dal dolore per ciò che ha subito, per la perdita della madre (avvenuta, non a caso, subito dopo lo stupro), per la vergogna causata dalla malignità della gente, pronta ad affibbiare lo stigma del diverso e del colpevole a chi non si conforma ai canoni comunemente intesi della moralità. La protagonista torna propriamente bambina soltanto per un tristissimo attimo: giusto il tempo di rotolarsi ludicamente nel bosco per poi scomparire improvvisamente in una pozza d’acqua che la inghiottirà per sempre. La macchina da presa del regista lascia defluire il corpo della ragazza fuoricampo senza inseguirlo: il campo rimane vuoto, ci sono solo cerchi d’acqua che ritornano tristemente in superficie e che segnalano una sorta di pudore sacro nel rappresentare la morte della fanciulla, quasi fosse una sorta di annullamento assoluto ed inevitabile. Bresson commenta la scena con il Magnificat di Monteverdi: è questo il modo che Mouchette ha adottato per rendersi al Signore, per mostrare tutta la propria desolazione nel dolore di una vita condotta in relazione alle attese altrui e non in funzione della propria età. Mouchette, adulta quando deve accudire la madre malata, il piccolo fratello piangente (in modo costante, quasi a negare la possibilità di una speranza futura), il padre e il fratello maggiore abitualmente ubriachi, adulta quando deve mantenere il segreto di Arsène o nel momento in cui subisce lo stupro. Bambina quando, in modo apparentemente ludico, si lascia morire dopo una serie di capriole che ricordano i giochi dell’infanzia. Ma la fanciulleza di Mouchette è negata: se il padre l’aveva schiaffeggiata violentemente dopo il divertente giro sugli autoscontri, la serie di capitomboli conduce inesorabilmente a quella morte che è l’unica in grado di ridonare la purezza che la ragazza aveva ormai inevitabilmente perso.
Pillole di regia
Mouchette è un perfetto esempio dello stile cinematografico di Robert Bresson, caratterizzato da piani che si concentrano su dettagli significativi e simbolicamente determinanti e non, come da consuetudine nella narrazione cinematografica, sull’evidenza chiarificatrice dell’immagine: nella sequenza del film in cui il personaggio di Mouchette giunge a scuola, soltanto per fare un esempio, il regista non presenta il solito piano allargato che permette allo spettatore di abitare la scena rendendo conto dell’ambiente e delle varie figure che lo popolano, ma limita le sue inquadrature dapprima a mostrare i piedi – e soltanto quelli – delle ragazze che si apprestano ad entrare nella costruzione, poi, sopraggiunta Mouchette, la inquadra di schiena mentre si avvia verso l’ingresso seguendola con un sensibile movimento della macchina da presa fino a fermarsi davanti al cancello della scuola, pur continuando a riprendere la ragazza di spalle. Come sostengono David Bordwell e Kristin Thompson (Storia del cinema e dei film, vol.2, Il Castoro, Milano 1998): “L’effetto è di staccare i personaggi dall’ambiente che li circonda per un breve momento, sospendendo la nostra coscienza del luogo in cui essi si trovano per farci concentrare sul loro comportamento fisico”. Bresson, in questo caso, ha la possibilità di operare una scelta del genere perché alla visione d’insieme della scuola ha sostituito il richiamo acustico dato dall’evocazione del suono della campanella e del rumore delle parole confuse proferite dagli studenti, sottolineando, contemporaneamente, l’importanza dell’universo sonoro all’interno del suo cinema, nel quale i pochi dialoghi e gli scarni ma sintomatici suoni forniscono una determinazione significativa di gran lunga superiore rispetto ad altre pellicole in cui la dimensione sonora è caratterizzata con modalità più realistiche.
Curiosità
Bresson ha instaurato un’affinità elettiva con Bernanos. Infatti Mouchette non è il solo film tratto da un libro del noto romanziere francese: anche Diario di un curato di campagna appartiene alla ampia produzione di Bernanos. Tra i due c’è identità di vedute sulla società, un tocco esistenzialista e passionale nel tratteggiare i personaggi (senza cadere nel sociologico o nello psicologismo), un approccio cristiano al sublime e il suo contrario il degrado individuale che spesso coabitano nella stessa persona. Si noti, inoltre, come Mouchette, sia, insieme alla sua opera seconda Perfidia (1944), il film che ha avuto un minore tempo di gestazione creativa. A questa sorta di “frenesia produttiva”, rarissima per un cineasta meticoloso che impiegava diversi anni per “entrare” dentro ogni suo lavoro, si deve un linguaggio e una costruzione dell’architettura narrativa più tradizionali, meno rarefatti e più denotativi. Ad una maggiore chiarezza dell’intreccio, corrisponde un senso meno acuto della validità universale dell’esperienza mouchettiana. Da questo punto di vista il film può essere considerato una sorta di replica – più didascalica e più affrettata – di Au hasard Balthazar, da cui per un’analisi completa non dovrebbe essere scisso.
Giampiero Frasca
Bibliografia essenziale
Adelio Ferrero, Robert Bresson, Il Castoro, Milano, 1979
Sergio Arecco, Robert Bresson, Le Mani, Recco-Genova, 1998
Réné Predal, Tutto il cinema di Bresson, Baldini & Castoldi, Milano, 1998
Giovanni Spagnoletti, Sergio Toffetti (a cura di), Il caso e la necessità. Il cinema di Robert Bresson, Lindau, Torino, 1998
Giorgio Tinazzi, Il cinema di Robert Bresson, Marsilio, Venezia, 1979
Robert Bresson, Note sul cinematografo, Marsilio, Venezia, 1992
Michel Estève, Da Bernanos a Bresson, “Cineforum”, n°67, settembre 1967