di Gregg Araki
(USA, 2004)
Sinossi
Hutchinson, Kansas, estate del 1981. Brian Lackey, otto anni, dopo una partita di baseball non ha più memoria di cosa abbia vissuto nelle 5 ore successive, ma si risveglia in cantina con il naso sanguinante. Neil McCormick, otto anni, fa parte della stessa squadra e ha un’ammirazione per l’atletico coach, il quale ricambia morbosamente l’interesse arrivando ad abusare del bambino. Nell’ottobre 1983, durante la festa di Halloween, i due bambini si incontrano e Brian, alla vista di Neil sviene. Quattro anni dopo, nel 1987, i due hanno intrapreso strade diverse: mentre Neil si prostituisce, Brian comincia a sospettare che la causa del suo blackout mnemonico sia dovuta ad un rapimento da parte degli alieni, ragion per cui, quattro anni dopo, nel ’91, scrive ad Avalyn Friesen, che sostiene in televisione di essere stata anch’essa rapita, per confrontare le rispettive esperienze. Neil, intanto, si è trasferito a New York insieme alla sua amica Wendy e inizia a conoscere una serie di personaggi che lo fanno precipitare in una dimensione ancora più terrificante della prostituzione, fatta di possibile contagio da immunodeficienza e di violenza immotivata. In Kansas, Brian, sempre alla ricerca di una verità per quel buco di cinque ore che lo ossessiona, comincia a pensare che la chiave di tutto sia l’incontro avuto con Neil all’età dieci anni, durante la festa di Halloween, e si mette alla ricerca del suo vecchio compagno di squadra. Giunge a casa di Neil, ma vi trova solo la madre e l’amico Eric, di cui, a sua volta, diventa amico. Dopo essere stato violentato, Neil torna a Hutchinson e grazie alla mediazione di Eric incontra Brian, al quale rivela la verità circa le cinque ore di incoscienza: Brian, nel 1981, fu violentato dal coach in presenza di Neil e il suo blackout è, di conseguenza, la rimozione che la sua psiche ha adottato per eliminare il trauma patito.
Introduzione al Film
Il profeta Queer
Gregg Araki, nato a Los Angeles nel 1959 ma di origine giapponese, è uno dei registi per la cui attività era stato coniato il termine “New Queer Cinema”, nuovo cinema omosessuale. Della stessa generazione di registi gay quali Gus Van Sant e Todd Haynes, formatisi come indipendenti e successivamente approdati alle produzioni di più largo budget, pur sforzandosi di non farsi metabolizzare dal moloch di Hollywood, a differenza dei suoi illustri colleghi, Araki ha mantenuto la realtà omosessuale costantemente al centro delle sue pellicole, sforzandosi di rappresentare, attraverso uno stile perfettamente riconoscibile e personale, una sorta di perpetuo racconto apocalittico della realtà Queer ritratta al culmine della decadenza occidentale, con il virus dell’Aids in qualità di allegorico spauracchio di un mondo avviato al termine dei suoi giorni. Araki, fin dai suoi primissimi film, pressoché ignorati dal grande pubblico (Three Bewildered People in the Night del 1987 e Long Weekend - o' Despair del 1989), ha sempre mostrato un universo caleidoscopico in cui l’eccentricità della messa in scena entra in diretta relazione con l’organizzazione delle superfici e la distribuzione dei caldi cromatismi di ogni singola inquadratura. Ciò è ancora più evidente nei film che, anche in virtù di uno spiccato gusto per la provocazione, cominciano ad imporlo all’attenzione della critica, anche di quella più intransigente: pellicole come The Living End (Usa, 1992), Totally F***ed Up (corrosivo già dal titolo, Usa, 1993) e soprattutto Doom Generation (Usa/Francia, 1995) forniscono un’immediata dimostrazione di un modo estremamente personale di realizzare cinema e di narrare storie insolite, spesso bizzarre, contemporaneamente rabbiose e ironiche, disperate e iperboliche, pervase da un senso di ineluttabile fatalità ma anche da uno struggente e straniante romanticismo. Anche Mysterious Skin, tratto dal romanzo di Scott Heim, è a suo modo un ritratto eccentrico di una differente presa di coscienza, un film scisso in due parti diametralmente opposte, diviso, parafrasando la frase di lancio del film stesso, tra “un personaggio che non riesce a ricordare e un altro che non può dimenticare”. Il trauma, l’abuso infantile, nel film di Araki perde i connotati terribili e inenarrabili per divergere anche nella struttura stessa e nei toni assunti dal film: un racconto realistico di cruda esperienza esistenziale, prima, e metropolitana, poi, per Neil; un’indagine che sconfina nell’impianto fantascientifico per Brian che, dopo la violenza patita all’età di otto anni, si trasforma in una precisa metafora di alienazione progressiva. Il ragazzo non è riuscito a conoscere completamente se stesso ed è vissuto costantemente all’ombra di quelle famose cinque ore in cui il dramma patito è stato cancellato e sublimato in un’esperienza incomprensibile e fantasiosa.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Storie parallele di una stessa identità sessuale
Un trauma infantile che condiziona una vita futura e due modi (opposti) per patirlo e introiettarlo. Due vite unite da un tenue filo che creano un parallelismo spurio, pronto ad unire i suoi fili e a riconnettersi a distanza di anni per colmare gli inspiegabili vuoti di un passato trasfigurato in altre immagini. È questa la storia narrata da Araki seguendo le vicende apparentemente antitetiche di Brian Lackey e Neil McCormick, entrambi bambini di otto anni nell’estate del 1981, quando subirono la medesima violazione capace di orientare la loro esistenza futura. Un episodio visto da due prospettive differenti, vissuto lungo due ottiche diversificate per giungere ad uno stesso esito: l’accettazione della propria omosessualità, vista come reiterata quotidianità per Neil, e come prolungato scavo e recupero del passato per Brian. Stessa età, ma disposizione verso l’omosessualità differente per i due fanciulli: Brian è ignaro di ciò che gli è accaduto e metabolizza tutto come un salto di cinque ore che in nessun modo riesce a ricordare. La voce narrante di Neil ammette candidamente di aver eiaculato per la prima volta all’età di otto anni dopo aver spiato l’occasionale fidanzato della madre fare del sesso con lei. Brian e Neil, nonostante la tenera età, incarnano i due poli dell’identità omosessuale, rispettivamente quella inconscia di Brian, bisognosa di un percorso di conoscenza di se stessi e di ciò che circonda la propria persona, perché gli indizi raccolti generano confusione e dispersione rispetto all’obiettivo principale; e quella di Neil, già predisposta all’attrazione verso il sesso maschile (l’amante della madre, il coach baffuto del baseball), vittima di un abuso che tuttavia viene incasellato non diversamente da uno dei tanti giochi possibili. Si noti, a tal proposito come le tonalità accese dei colori primari utilizzati dal direttore della fotografia Steve Gainer appaiano tutt’altro che opprimenti, come invece ci si aspetterebbe in una sequenza di sopraffazione su un minore: i cereali colorati che fanno da corona, sul pavimento, al corpo del piccolo Neil forniscono una straniante sensazione di paradosso tra l’atto appena subito e la serenità “quasi zuccherosa” delle immagini mostrate. L’unica inquadratura realmente disturbante è quella dell’untuoso coach in primissimo piano che si rivolge, con il suo look camp anni Ottanta, verso l’obiettivo della macchina da presa e quindi verso il piccolo Neil che lo osserva in soggettiva. La conseguenza in Neil, pur nel placido riconoscimento della propria inclinazione, è lo sprofondare in una deriva esistenziale che lo conduce, dapprima timoroso, poi addirittura bisognoso di continuare l’esperienza nelle forme della coazione a ripetere, a prostituirsi appena quindicenne con un intero campionario di personaggi discutibili, magari anche abitualmente rispettabili (come il commesso viaggiatore che nell’abitacolo dell’automobile, scenario dei suoi amplessi con il giovane, espone in bella mostra i ritratti dei suoi figli). Quello di Neil è un autentico viaggio negli abissi della perdizione della sessualità che, in modo assolutamente non casuale, nel film di Araki si dispone a cavallo tra il decennio Ottanta e Novanta del secolo scorso, quando più evidenti diventavano i dati statistici sui contagiati dell’Aids: nel trasferimento dalla provincia del Kansas alla New York del 1991, Neil scopre dapprima i preservativi che pongono un filtro di preoccupazione alle sue prestazioni, successivamente i clienti sieropositivi che mostrano i segni della malattia ed infine la violenza brutale e sadica, quella che nemmeno in tenera età aveva conosciuto, ma che, in qualche modo, aveva inesorabilmente anticipato. Diversa e più immaginifica la situazione di Brian, il cui cruccio è fin dall’infanzia quello di aver subito, immediatamente dopo una partita di baseball, un blackout di cinque ore a seguito del quale si è risvegliato in cantina con un rivolo di sangue da una narice. Il trauma e la successiva accettazione di ciò che è accaduto in Brian assume un volto fantasioso e tortuoso che nella sua fervida fantasia di bambino gli fa pensare di essere stato rapito dagli alieni, analizzato accuratamente ed esplorato (secondo Avalyn, la ragazza che lo incoraggia a credere a questa eventualità, il sangue dal naso sarebbe la prova di una sonda inserita per controllare i suoi movimenti). Brian trascorre infanzia, adolescenza e prima giovinezza a ricavare indizi per risolvere un mistero che lo tiene costantemente sospeso tra la immaginazione fantascientifica (e il mito suburbano) e l’insondabilità del sogno, nelle spire del quale pensa di aver visto, due anni dopo il primo blackout, durante la festa di Halloween, il coetaneo Neil, subito percepito come la chiave del profondo mistero che lo attanaglia. Ma l’enigma di Brian non è nient’altro che la sua personale difesa nei confronti del trauma vissuto a casa del coach con la complicità di Neil, il suo individuale buco nero di una memoria che ha eliminato il dramma grazie alle indulgenti possibilità di una rimozione che, se da un lato, pietosamente, ha evitato la rovinosa caduta negli inferi di un’esistenza perduta, ha tuttavia privato il ragazzo di una completa rivelazione di se stesso e di una conoscenza approfondita delle proprie reali caratteristiche. Un’altra esistenza impropria, anche se, forse, meno traumatica e dannata.
Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici
Il filone del cinema con tematiche omosessuali è tangibilmente fiorente, al punto da aver originato anche alcuni importanti festival ad esso dedicato (San Francisco e Torino, per citare solo i più vecchi in America e in Europa). Altrettanto cospicua è la produzione di pellicole che abbiano come punto centrale della loro narrazione la presa di coscienza di una precisa identità sessuale gay e lesbica: una lista di film che si limitasse soltanto ai principali per riflettere sulla specificità individuale e sulle modalità di rappresentazione con cui tale identità è stata mostrata al cinema non dovrebbe prescindere da film come Beautiful Thing di Hettie MacDonald (id., Gran Bretagna, 1996), Krámpack di Cesc Gay (id., Spagna, 2000), L’età acerba di André Téchiné (Les roseaux sauvages, Francia, 1994), La mia vita in rosa di Alain Berliner (Ma vie en Rose, Belgio/Francia, 1997), Fucking Ǻmål – Il coraggio di amare di Lucas Moodysson (Fucking Ǻmål, Svezia/Danimarca, 1998), Quasi niente di Sébastien Lifshitz (Presque rien, Francia/Belgio, 2000) e il sorprendente Breakfast on Pluto di Neil Jordan (id., Irlanda/Gran Bretagna, 2005), pur ricordando che molte di queste pellicole (e lo stesso Mysterious Skin, in particolare) presentano situazioni e scene adatte esclusivamente ad un pubblico adulto, per cui se ne consiglia la visione preventiva all’educatore e una successiva estrapolazione delle sequenze ritenute più adatte alla discussione. Giampiero Frasca