Stereotipi e luoghi comuni cinematografici di un luogo davvero “poco comune”
Introduzione. Sottrarsi al gioco
Regista: “Un ragazzo come te merita attenzione…”
Leonardo: “Perché sto in riformatorio!”
Regista: “Non ti consideriamo mica un fenomeno da circo. Ti abbiamo filmato e fatto l’intervista perché vogliamo che i tuoi problemi vengano risolti...”
Leonardo: “E dopo che mi avranno visto in televisione, dove mi portate? Cosa mi succederà? Mi porteranno via?”
Regista: “Ma no, non è questo il modo di aiutarti, non è che ti debbono portare via dal ‘collegio’. Dovrai uscirne da solo, un giorno...”
Leonardo: “Come, scappando?”
Regista: “Macché scappando… tu parli sempre del tuo istituto come fosse una prigione, ma non lo è. È un luogo dove ti viene data un’educazione, anche se un po’ particolare.”
[…]
Leonardo: “Quando siete venuto voi hanno imbellito le cose, come se fosse un istituto grande, bello… Dovreste vedere dopo che ve ne sarete andato voi cosa succederà… Perché quelli della televisione non possono fotografare dentro…”
Regista: “Io sono entrato dentro, ho visto tutto, ho ripreso tutto, credo almeno…”
Leonardo: “Avete fotografato anche la cella di rigore? Avete visto come viviamo, come
mangiamo? Se ci fa freddo, come dormiamo? Questo per la televisione non è importante…”
Questo dialogo, tratto da La fine del gioco (1970), il lungometraggio d’esordio di Gianni
Amelio, è ambientato su un treno che sta riportando a casa Leonardo (il giovane protagonista del film interpretato da Luigi Valentino), in compagnia di un regista televisivo che lo ha intervistato, eleggendolo a rappresentante ideale degli adolescenti rinchiusi in un correzionale sul quale ha appena terminato di girare un reportage. I due, accompagnati da un educatore, stanno raggiungendo il paese d’origine del ragazzo, per documentare la sua condizione familiare e il contesto sociale del luogo.
Quella che Leonardo rivolge al suo interlocutore è una critica spietata, un lucido atto di accusa rivolto ai media, incapaci di mettersi veramente al servizio della realtà, colpevoli di manipolarla (o, per lo meno, di ometterne una parte essenziale) per farne un uso strumentale, tanto più quando hanno la pretesa di documentare la condizione di chi vive in luoghi per definizione sottratti alla vista, alla visione, dunque di per sé votati ad una rappresentazione quasi mai scevra da pregiudizi e stereotipi.
La prima parte del film, del tutto priva di dialoghi, si era dipanata attraverso una serie di carrellate lungo i corridoi, i cortili, gli ambienti dell’istituto, con i ragazzini inquadrati in gruppo, una massa anonima di figure utili per ravvivare un quadro ambientale di per sé perfetto, almeno all’apparenza. Poi, dopo un breve dialogo tra il regista e Leonardo erano incominciate le riprese dell’intervista, con la macchina da presa in bella mostra, il ragazzo inquadrato di fronte e di tre quarti (anche qui tornavano le eleganti carrellate in avanti e indietro), quasi si trattasse di un aspirante attore impegnato nel provino di un film.
L’intervista, ovviamente, non ci viene mostrata: lo spettatore ha già intuito che il punto non è il “cosa” ma il “come” si rappresenta una condizione così particolare (carceraria e, per di più, minorile), che la questione non è nel merito quanto nel metodo adottato per documentare una realtà così particolare.
La seconda parte del film, interamente ambientata sul treno, costruita attraverso inquadrature per lo più utili a segnare la distanza tra Leonardo e il regista, tra la visione realistica e disillusa del primo e i paraocchi ideologici del secondo, contraddice totalmente non solo la prima impressione di confidenza e di quasi complicità tra l’uomo e il ragazzo, ma anche la filosofia che sembrava sottendere l’incipit del film (l’inchiesta giornalistica di stampo sociologico) e soprattutto i modi della rappresentazione utilizzati dal regista (Amelio, in questo caso) per riprendere il riformatorio attraverso belle inquadrature e formalismi che sembrano far “scivolare” le immagini sulla superficie di un luogo che invece, per Leonardo e per i suoi compagni è, anzitutto, un luogo vissuto.
L’elemento più importante che emerge dal frammento di dialogo poc’anzi citato è, al di là della superficialità con cui i media sembrano rappresentare la realtà del carcere (superficialità che si manifesta attraverso l’atteggiamento apparentemente ingenuo del giornalista: “Io sono entrato dentro, ho visto tutto, ho ripreso tutto, credo almeno…”), quello dei pregiudizi e degli stereotipi che inevitabilmente affliggono ogni rappresentazione e che, in modo particolare, sembrano gravare su quelle che hanno per protagonisti dei minori e per ambientazione dei
luoghi sottratti alla normale esperienza di tutti i giorni come il carcere. Questo luogo, in fondo, è per definizione fuori della quotidianità: gli spazi e il tempo non sono disponibili per chi è recluso e il cinema ha costruito su questi limiti alcune delle sue storie più appassionanti e riuscite. Raccontare una vicenda chiusa tra quattro mura invalicabili può essere di certo un’avventura avvincente soprattutto dal punto di vista dello stile (lavorare su situazioni e in condizioni limite è stimolante per cercare soluzioni formali inedite) ma anche perché, in questo modo, si porta allo scoperto una porzione di realtà quasi o del tutto sconosciuta.
Già, ma come? Per raccontare l’essenza di una condizione come quella di un minore in carcere a poco valgono lo stile e la capacità di sorprendere perché, per quanto si cerchi di essere onesti, probabilmente non esiste nulla di più lontano della realtà carceraria dalle convenzioni che ogni rappresentazione impone. I concetti di realismo e di verosimiglianza, per quanto rigorosamente applicati, come accade in diversi film ambientati in tutto o in parte all’interno di carceri minorili, difficilmente riescono a restituire la realtà di una vita relegata alle attese, prima fra tutte quella della fine della pena, alle relazioni con i coetanei improntate più spesso di quanto non si creda sulla solidarietà e sulla complicità e, soprattutto, al confronto/scontro con il mondo adulto che per molti dei protagonisti si propone per la prima volta nella sua veste più istituzionale, attraverso una serie di figure (poliziotti, giudici, guardie carcerarie, educatori) che si ritrovano ad assolvere una sorta di “patria potestà”.
Per questo, la reazione di Leonardo ci pare del tutto legittima: dopo essersi confrontato con una non facile situazione carceraria, con le sue istituzioni, i suoi apparati, le sue regole, i suoi tempi, i suoi spazi, le sue sbarre, si ritrova a tu per tu con l’istituzione cinematografica (o televisiva, cambia poco), con i suoi apparati, le sue regole, i suoi tempi, i suoi spazi. Si vedano le raccomandazioni del regista (significativamente interpretato da un vero cineasta, Ugo Gregoretti) immediatamente precedenti l’intervista, quando suggerisce al ragazzino di non fare troppe pause perché l’inchiesta deve avere un bel ritmo “giornalistico”, come tiene a rimarcare. Alla fine del film Leonardo deciderà di sottrarsi al gioco innescato dall’entrata in scena della televisione fuggendo dal treno, in una delle sequenze di “evasione” più belle e soprattutto oneste mai viste al cinema (Amelio, come evidenziava Maurizio Ponzi in un suo articolo, non indugia sul volto del ragazzino, svuotando d’ogni retorica questo luogo comune
filmico).
È una scelta molto simile a quella di Colin, il protagonista di Gioventù, amore e rabbia (1962) di Tony Richardson che, scelto dal direttore del riformatorio nel quale è rinchiuso per partecipare a una prestigiosa gara podistica, malgrado abbia la vittoria in tasca, decide di farsi battere dagli altri concorrenti poco prima del traguardo, ribellandosi in questo modo tanto alle intimidazioni e ai ricatti subiti dai più quanto al paternalismo e alla “comprensione” dei pochi che hanno tentato di aiutarlo. Tuttavia, la rinuncia di Colin sembra volta soprattutto a sabotare lo stereotipo di redenzione e recupero nel quale vorrebbe costringerlo l’istituzione carceraria
(incarnata nell’ambigua figura del direttore) e a proclamare una propria vittoria interiore che non vuole integrarsi in alcuno schema sociale. Analogamente, la fuga di Leonardo è dettata più dal rifiuto di una griglia formale imposta dall’istituzione televisiva che dalla stessa realtà carceraria. Amelio, riprendendo Leonardo di spalle mentre si toglie le scarpe, scende dal treno e ritorna alla libertà, gli “tiene il gioco” e resta con l’altro regista – quello della finzione cinematografica – quasi ad ammettere la propria “colpa”, quella di appartenere a coloro che, più o meno onestamente, si cimentano con la realtà spesso fallendo nel rappresentarla.
Ma la contrapposizione fondamentale che emerge è quella tra il mondo adulto che, del tutto illusoriamente, pensa sia possibile “inquadrare” il giovane o giovanissimo che delinque e il mondo dell’adolescenza. Esso può avvenire attraverso l’inquadramento in un sistema di reclusione e rieducazione (una volta si chiamava “correzione”, quasi si trattasse semplicemente di apportare delle modifiche al – o di eliminare le imperfezioni dal – soggetto); oppure attraverso l’inquadratura della macchina da presa (o di una telecamera) volta a fornire a seconda dei momenti e delle convenienze un’immagine compassionevole o spietata ma comunque funzionale a un certo discorso. Quel che conta è che il rapporto tra questi due mondi si rivela comunque problematico. Ed è proprio di tale complessità, degli stereotipi sia narrativi sia formali, dei luoghi comuni della rappresentazione di un luogo davvero fuori del comune che tenteremo di tracciare un quadro sufficientemente esauriente, sia attraverso una serie di film di finzione, alcuni dei quali davvero celebri, sia attraverso l’analisi di alcuni documentari recenti. La fine del gioco ci sembra il testo ideale dal quale partire per questa ricerca, collocandosi a metà strada tra le due tipologie di documenti e ponendo, fin da subito, la questione della rappresentazione cinematografica di questo universo particolare e dell’adolescenza più in generale.
Carcere minorile: un universo da “inquadrare” correttamente
La contrapposizione tra mondo degli adulti (e delle istituzioni che rappresentano) e quello dei ragazzi è rappresentata in modo straordinario in uno dei capolavori del Neorealismo, Sciuscià di Vittorio De Sica. Qui, al mondo puro, incontaminato e disinteressato dei due protagonisti adolescenti si oppone quello disilluso, violento e materialista degli adulti e del contesto carcerario, istituzione non soltanto repressiva ma anche capace di corrompere il valore supremo proclamato dal racconto, ovvero la comunione di intenti dei due protagonisti. Non si finirà mai di sottolineare abbastanza come la formula vincente del Neorealismo consistesse nell’innesto su di uno schema narrativo molto forte dal punto di vista dell’invenzione (sia in termini figurativi, sia in termini di racconto) di elementi tratti direttamente dalla realtà del tempo (ambienti, personaggi, fatti di cronaca minuta). Tale schema trova una sua sintesi simbolica estrema proprio nel film di De Sica che ad esempio, se da un lato è ambientato
proprio all’interno della casa circondariale per minori del San Michele a Ripa di Roma, dall’altro è cosparso di una serie di elementi simbolico-fantastici fortissimi, primo fra tutti il cavallo Bersagliere, acquistato dai due ragazzi all’inizio del film e simbolo della loro indissolubile amicizia.
Uno schema, quello sommariamente illustrato, che di certo “funziona” ma che, alla lunga, mostra anche una buona dose di manicheismo che non riesce a coglie tutti gli aspetti del film.
A ben vedere, infatti, il tentativo del mondo adulto di inquadrare i due giovani protagonisti colpisce più che per la sua viltà, soprattutto per mancanza di coerenza, e questo è un dato che emerge tra le righe di una scrittura filmica di rara chiarezza ed esemplarità. A tal proposito è utile notare come, i criminali che coinvolgono Pasquale e Giuseppe nel furto che li porterà in riformatorio, dopo aver tradito i due ragazzi provocandone l’arresto, pretenderanno da loro fedeltà, aspettandosi che non rivelino i loro nomi alla polizia. Seguendo uno schema speculare, i poliziotti, dopo aver invitato i due ragazzi a confessare (e quindi a mettersi dalla parte della legge), useranno l’inganno per costringere il più grande dei due a rivelare i nomi dei complici adulti, facendogli credere che l’amico sia stato preso a cinghiate. Ancora una volta è esemplare un brano tratto dai dialoghi del film: a Pasquale, che è stato appena messo in cella con altri quattro ragazzi, uno di questi chiede se per caso abbia una sigaretta e, alla domanda del protagonista “Perché, se pò fumà?”, risponde “No, è proibito, ma siccome è proibito qui fumano tutti”. Il carcere minorile nel quale vengono rinchiusi poco dopo l’inizio del film (e che costituisce l’ambientazione delle vicende per larghissima parte di esso), prima ancora d’essere il luogo dove si compiono una serie di ingiustizie, si costituisce, dunque, in quanto scena di una partita truccata dove, chi vi è rinchiuso poiché considerato criminale, è in realtà portatore di una coerenza interiore certamente ben più forte di coloro che dovrebbero lavorare per ri-formarne l’indole e l’atteggiamento ma che, al contrario, contribuiscono in maniera consistente a de-formarne la personalità e la condotta.
Anche in altri film, come in Sciuscià, i ragazzi si fanno portatori di una purezza originaria che le dinamiche violente della strada hanno incominciato a corrodere. In fondo, l’Italia rappresentata nei film del primo Neorealismo era un Paese le cui condizioni di vita non erano molto dissimili da quelle dei paesi in via di sviluppo nei quali sono ambientati alcuni dei film più interessanti sulla carcerazione minorile. Questa si pone come tappa finale (o di semplice transito, per un ritorno al punto di partenza, quasi si tratti di una versione perversa del“Monopoli”) di un percorso che ha già parzialmente convertito i giovani ai meccanismi del mondo adulto. Tuttavia, proprio in questi casi, il carcere si profila più che come risposta all’adesione dei protagonisti verso una cultura delinquenziale, più semplicisticamente, in quanto soluzione a un generico clima di allarme sociale. Krishna, il piccolo accattone indiano protagonista del film di Mira Nair Salaam Bombay!, il ladruncolo senzatetto Pixote nel lungometraggio del brasiliano Hector Babenco Pixote, la legge del più debole e i molti protagonisti del corale Le Mur, film di produzione francese ma diretto dal regista esule curdo Yilmaz Güney (il titolo turco è Duvar) e ambientato nel carcere di Ankara, si ritrovano in riformatorio spesso senza accuse precise. Krishna viene sorpreso dai poliziotti nottetempo, mentre vaga per le strade di Bombay, e da questi derubato; Pixote si ritrova coinvolto in una
retata della polizia di San Paolo effettuata in seguito a un omicidio e trattenuto in carcere senza specifiche accuse; i ragazzi del quarto dormitorio del carcere di Ankara (dove è ambientato gran parte del film di Güney) sono più che altro vittime del clima di violenta repressione poliziesca scoppiato in Turchia alla fine degli anni Settanta, obiettivo della denuncia del regista, anch’egli imprigionato in quel periodo per ragioni politiche. Il carcere minorile è, in tutti questi casi, più un contenitore nel quale rinchiudere i (futuri) rifiuti della società, gli elementi più problematici e violenti, spesso semplicemente vittime della marginalizzazione prodotta dalla povertà, dal degrado, dalle tensioni sociali più diverse, che un luogo di recupero e rieducazione.
Anche in questi film di denuncia ci viene mostrato come, in fondo, i giovani protagonisti siano vittime di una “falsa rappresentazione” prodotta dalla società: a fronte di una serie di problemi sociali che dovrebbero far scattare risposte politiche sensate si preferisce una visione semplicistica della marginalità in quanto allarme sociale da fronteggiare attraverso una politica emergenziale che vede nel carcere la soluzione più sbrigativa. In particolare, nel film turco Le Mur, il regista attua un vero e proprio ribaltamento di tale prospettiva, focalizzando la propria attenzione sulla sezione minorile di un carcere diviso in quattro settori: donne, detenuti comuni, detenuti politici e minori. Decidendo di incentrare la rappresentazione quasi esclusivamente su quest’ultimo settore del carcere e sui suoi “ospiti” (anziché concentrarsi sul settore politico, nel quale aveva trascorso gran parte della sua decennale prigionia) il regista muove il suo atto d’accusa verso un sistema che priva della libertà d’opinione, d’espressione, d’esistenza proprio i più deboli tra tutti i cittadini, quelli più impreparati a fronteggiare l’avanzare di un regime. Più rassegnata appare la posizione di Babenco in Pixote che, se da un lato non rinuncia a raffigurare impietosamente il sistema carcerario brasiliano, denunciando la violenza della polizia, la corruzione delle guardie carcerarie (e l’ingenuità dei giudici), dall’altro sembra quasi compiacersi della violenza perpetrata da questi e dagli stessi minori protagonisti, un po’ come accade in un altro film brasiliano più recente, City of God di Fernando Meirelles e Katia Lund, ambientato tra le bande minorili che imperversavano nelle favelas di Rio de Janeiro a cavallo tra gli anni Sessanta e Ottanta. Ostentazione e spettacolarizzazione della violenza e del degrado che colpiscono anche perché, ad essere impiegati come attori nei due film, sono stati giovani e giovanissimi presi dalle strade delle favelas che fanno da sfondo alle vicende. Ma il fatalismo del film di Babenco emerge anzitutto dal titolo del suo film: “la legge del più debole” allude alla legislazione brasiliana che dichiarava fino a poco tempo fa “non punibili” i minori, compresi coloro che si erano macchiati dei reati più cruenti, anche se sul concetto di non punibilità verrebbe da interrogarsi, viste le condizioni di vita e l’uso sistematico del sopruso e della violenza esposti
in questo film così come, ad esempio, nel documentario di Maria Augusta Ramos Juízo, percorso attraverso la giustizia minorile in Brasile.
Spazi
Gli spazi della rappresentazione nei film sul carcere minorile costituiscono un elemento tutt’altro che secondario dell’analisi, essendo la carcerazione incentrata proprio su una logica di isolamento innanzitutto fisico degli individui da correggere dal resto della società (per non renderli dannosi agli altri e per meglio rieducarli nel chiuso di una dimensione “raccolta”) e di segregazione degli stessi (essenzialmente per punirli, privandoli del valore più alto per
l’individuo, ovvero la libertà). Il riformatorio, a seconda delle epoche e delle latitudini, è un luogo ora simile a una caserma, laddove si individui nella disciplina la principale forma di conformazione a un modello sociale predefinito, ora a un convento, se si privilegi una riflessione individuale che conduca a un pentimento “spirituale”. La camerata e la cella sono, dunque, gli spazi privilegiati per tali processi: se da un lato il dormitorio si propone come luogo non già di socializzazione ma di standardizzazione degli individui – spesso attraverso l’umiliazione pubblica volta a sortire un effetto maggiore sia sul soggetto punito, sia sui compagni – dall’altro la cella di isolamento si pone, oltre che come veicolo di punizione, essenzialmente in quanto luogo dove potersi raccogliere per pensare agli errori passati e presenti. Magdalene di Peter Mullan si propone in quanto esempio speculare di questa tesi: se nel film la dimensione carceraria è quella di un vero e proprio convento (una delle Magdalene Houses attive in Irlanda fino agli anni Settanta, riformatori-lavanderie gestiti da suore dove ad essere recluse a tempo indeterminato erano ragazze macchiatesi di “colpe” come l’essere troppo avvenenti, appena civettuole o addirittura vittime di abusi da parte dei maschi che poi le portavano ad affrontare gravidanze indesiderate), le detenute non occupano celle singole (così come potrebbe avvenire in un monastero) e la condivisione coatta degli spazi comuni risulta totalmente funzionale all’umiliazione delle singole detenute di fronte a tutte le altre.
Al di là della dicotomia caserma/convento, lo spazio carcerario si offre spesso come una sorta di grande palcoscenico sul quale mettere in scena i giochi delle gerarchie interne ai gruppi (si pensi alla scena dell’arrivo nella camerata del personaggio di Claudio in Mery per sempre di Marco Risi o ancora a quello di Giuseppe nella cella dei grandi in Sciuscià) attraverso la pratica sistematica della violenza, funzionale a rappresentazioni di genere estremamente codificate che, tuttavia, a volte si dimostrano non prive di spunti interessanti. In Bad Boys di
Rick Rosenthal il correzionale è scenograficamente concepito alla stregua di un’enorme cavea al centro della quale si affrontano i detenuti più determinati per il predominio sugli altri; le guardie e i poliziotti occupano uno spazio neutrale, all’interno di gabbie isolate rispetto all’area occupata dai detenuti. Mettendo da parte il significato metaforico di questo ribaltamento, è significativo come il film riesca a cogliere un aspetto estremamente
interessante nella spazializzazione dell’universo carcerario minorile: gli spazi comuni del carcere, che dovrebbero essere sottoposti alla tutela istituzionalizzante degli adulti, sono spesso quelli in cui si esplica maggiormente la prevaricazione del più forte sul più debole e si pratica la violenza. È in particolare lo spazio comune della mensa (vero e proprio topos del genere carcerario in generale) a diventare luogo deputato dello scontro tra i giovani detenuti, con il cibo che quasi mai riesce ad assolvere alla funzione di mezzo di incontro e comunione e che, anzi diviene pretesto per discussioni, litigi, soprusi e risse (ancora in Bad Boys e in Pixote, la legge del più debole, ma anche in La piccola ladra di Claude Miller).
Ovviamente è lo spazio della cella, sottratto al controllo degli adulti, a rappresentare una dimensione che, finalmente libera dalle dinamiche collettive – spesso troppo legate a meccanismi di potere e prevaricazione che impongono a ognuno dei soggetti di indossare delle vere e proprie maschere – si apre alla socialità, all’amicizia, alla complicità tra pari.
Anche in questo caso è il classico Sciuscià a fornire uno schema esemplare offerto dal contrasto tra l’enorme spazio del cortile coperto e le celle che su di esso si affacciano, disposte su più file sovrapposte. Alla vastità dello spazio comune si oppone l’angustia delle stanzette nelle quali si stringono i giovani detenuti in numero di quattro o cinque, alla dispersività del cortile – che per i due amici, Pasquale e Giuseppe, si trasforma da luogo d’incontro in spazio di separazione – si contrappongono le celle dove prendono corpo da un lato il legame affettuoso tra Pasquale e il piccolo Raffaele e dall’altro quello menzognero tra Giuseppe e l’infido Arcangeli.
Tempi
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Krishna: “Ma io non ho fatto niente, non mi possono tenere qui.”
Ragazzino: “Neanche io ho fatto niente e, se l’ho fatto, l’ho scordato. Sai, dopo cinque anni la memoria se ne va…”
Questo dialogo, tratto da Salaam Bombay!, esprime bene l’idea di un’esperienza del carcere dove la percezione del tempo è un fattore assolutamente interiore, vissuto in maniera del tutto personale da ognuno e, allo stesso tempo, come elemento di spersonalizzazione, di perdita della memoria e dell’identità. Quella che abbiamo individuato come una logica adulta, istituzionale e carceraria, infatti, non tocca solo gli aspetti sociali rivelati dall’analisi dei film finora individuati. La rappresentazione della carcerazione minorile fa emergere anche una
serie di elementi psicologici riguardanti il singolo e la sua consustanziale irriducibilità agli schemi sociali consolidati. All’interno di una dimensione come quella carceraria, basata soprattutto sull’isolamento del soggetto rispetto al resto della società, una possibile via di fuga, sia pure illusoria, sia pur momentanea, può esistere (ed essere rappresentata) anche e soprattutto all’interno di una dimensione totalmente altra come quella del ricordo,
dell’immaginazione o del sogno. Dimensioni, queste, che sottraendosi alla tutela adulta, costituiscono un’astrazione potente rispetto al tempo eternamente presente, o meglio, continuamente proiettato nel futuro della fine della pena.
Il già citato Gioventù, amore e rabbia è illuminante da questo punto di vista: Colin Smith, il protagonista, spinto dal direttore del riformatorio ad allenarsi nella corsa campestre, durante le sue corse nella campagna inglese ripercorre con la memoria il proprio passato, ricordando gli avvenimenti che hanno costellato la sua infanzia e la sua adolescenza. Al movimento in avanti nello spazio del giovane detenuto corrisponde, dunque, uno spostamento indietro nel tempo; alla corsa cieca verso un futuro programmato da altri, si contrappone una progressiva presa di
coscienza della propria identità (soprattutto sociale ma anche psicologica) e della sua irriducibilità alle dinamiche istituzionali.
Il protagonista del recente Jimmy della Collina di Enrico Pau, al contrario, vorrebbe sottrarsi ad un’esistenza adulta che legge come alienante: un lavoro in fabbrica che lo costringerebbe ad una vita appena dignitosa come quella condotta dai suoi familiari non gli basta e, così, sceglie l’avventura, il rischio, una scorciatoia per arricchirsi, avvicinandosi pericolosamente a un mondo di cui non fa parte, quello della malavita, fatto di frequentazioni pericolose ma affascinanti (la bella prostituta che lo blandisce con complimenti sul suo aspetto fisico, il vecchio rapinatore che lo esalta con i racconti delle sue imprese). Fallita la rapina che avrebbe dovuto cambiare la sua vita, si ritrova in carcere, schiacciato da regole ovviamente dettate dal mondo adulto rispetto alle quali, per tutta la prima parte del racconto egli risponde attraverso fughe oniriche in quel mondo “dorato” cui sognava di appartenere. Il film punta molta della sua forza espressiva sul contrasto tra i due ambiti (realtà oppressiva del carcere e sogno come dimensione liberatoria o, comunque, di fuga) cui ne contrappone una terza al cui interno si affaccia un’idea diversa, di responsabilità, di crescita consapevole attraverso il recupero.
In questo caso, l’astrazione in forma di sogno, lungi dal costituire una dimensione liberatoria, sembra divenire un ulteriore elemento di alienazione del soggetto rispetto alla realtà che lo circonda, proprio come avviene in Vito e gli altri di Antonio Capuano. Qui il sogno notturno del protagonista eponimo, rinchiuso nel carcere di Nisida perché sorpreso a spacciare, combacia con l’universo dei videogame (speso violenti) ai quali lo si vede giocare spesso nel corso del film. Durante il sonno, proprio come in un videogioco il cui scopo sia evadere da una cella, Vito esce dalla camerata e percorre i corridoi e le scale del carcere aprendo via via le porte e le inferriate. L’intera sequenza è girata in soggettiva, un procedimento ambiguo che in questo caso si pone a metà strada tra l’identificazione con la visione del protagonista e la sua completa spersonalizzazione, attraverso l’adesione alla logica e all’estetica del videogame. Nella realtà il ragazzino riuscirà effettivamente a uscire dal carcere, ma solo grazie a un avvocato che mobiliterà la stampa sul suo caso e farà leva su una serie di vizi formali dell’arresto. Ancora una volta saranno logiche adulte e istituzionali a determinare la sua vita che, a dispetto di un’apparente assenza di regole e modelli (Vito vive per strada, ruba, spaccia, si prostituisce, si droga), in realtà si rivela costretta all’interno di schemi rigidi e prestabiliti: fin troppo lineare il percorso che lo conduce dal piccolo spaccio, passando per l’esperienza carceraria, a diventare un killer della camorra. Un medesimo legame tra gioco, immaginazione e tentativo di astrarsi rispetto alla reclusione è presente anche in Pixote, la legge del più debole, nella sequenza in cui vediamo i bambini giocare durante l’ora d’aria, dividendosi in aguzzini e prigionieri. In questo caso la necessità di coltivare un immaginario infantile, espressa attraverso il gioco, sembra irreversibilmente contaminata da dinamiche di sopraffazione e violenza tipiche del mondo adulto.
Per chiudere il capitolo dedicato alla rappresentazione cinematografica del tempo all’interno delle carceri minorili (inevitabilmente incentrato sulle possibilità di sfuggire a un tempo pressoché immobile e ripetitivo), è positivo ricordare I cinghiali di Portici di Diego Olivares, un film italiano indipendente, ambientato non già in un istituto di pena, bensì in una struttura di recupero per giovani a rischio, alcuni dei quali reduci dall’esperienza della detenzione minorile e in condizione di messa alla prova. Il film racconta, in particolar modo, la storia di Ciro, operatore sociale con un passato da rugbista che decide di iscrivere gli ospiti della comunità al campionato semiprofessionistico di rugby, scoprendo in loro delle capacità sportive notevoli. A colpire è soprattutto la lezione sulla palla ovale che l’allenatore impartisce alla squadra: una chiara allusione alla “banalità” dei giochi con la palla rotonda “la cui traiettoria è prevedibile, scontata”, simile alla banalità delle vite normali, alle grigie esistenze di tanti giovani che sognano invano un successo che magari ricalchi quello delle star del calcio. Un elogio della fantasia, dell’immaginazione e della creatività, una metafora delle vite imprevedibili e “spericolate”, come quelle dei giovani ospiti del centro, che nel rugby non troveranno banalmente un mezzo di riscatto o di realizzazione dei loro sogni, ma la consapevolezza del proprio potenziale.
Fughe
Ogni storia di reclusione che si rispetti non può non prevedere il sogno, l’ipotesi, il tentativo, l’organizzazione di un’evasione, e questo tanto più se i protagonisti sono adolescenti che, molto spesso, a fuggire (dalla famiglia, dalla legge, dalle istituzioni in generale) hanno dovuto imparare molto presto. Tuttavia, quasi mai la fuga riesce a diventare occasione di reale riscatto, come nel caso di Leonardo in La fine del gioco (il cui valore simbolico è evidente ma il cui esito resta ignoto allo spettatore), anzi semmai è solo il primo passo di un percorso ancor più negativo: in Sciuscià, Pixote,la legge del più debole, Salaam Bombay!, Le Mur, Mery per sempre, la fuga ha un esito tragico che quasi sempre porta a un’escalation di violenza o alla morte di uno dei protagonisti, trasformandosi quasi automaticamente nella corsa verso un destino peggiore di quello che ci si è lasciati alle spalle.
Esistono altri esempi di fughe cinematografiche capaci di aprire i relativi film ad un senso diverso, più metaforico ma anche più problematico, certamente meno legato a una rappresentazione drammaticamente realistica degli sfortunati destini dei propri protagonisti.
Un esempio recente potrebbe essere quello di Jimmy della Collina, nel quale la fuga del protagonista è più dettata da un’incapacità di gestire le proprie emozioni, i propri sentimenti, le proprie ambizioni che da un reale desiderio di libertà dovuto alla prigionia. Al momento della sua fuga, del resto, Jimmy non si trova in una condizione di vera e propria reclusione, essendo ospite di una comunità nella quale potrebbe inserirsi facilmente. La sua è piuttosto
una fuga dalle certezze emotive che potrebbero offrirgli il rapporto affettivo con una delle volontarie della comunità o l’amicizia degli altri ospiti. Si tratta, dunque, del desiderio di sottrarsi alle scelte che la vita (adulta o meno) impone a ciascuno, e che rivela l’assenza di un orizzonte caratterizzato da punti di riferimento certi. Nell’ultima inquadratura del film, significativamente ritroviamo Jimmy ad una sorta di capolinea della sua fuga (tra l’altro, miseramente fallita dopo che ha tentato di procurarsi dei documenti falsi ma è stato imbrogliato da un malvivente) in piedi sull’orlo di una scogliera a picco sul mare, quasi in preda a un’estasi mistica, di fronte a un orizzonte virtualmente aperto a qualsiasi possibilità, eppure privo di reali prospettive.
Anche la corsa del protagonista del film di François Truffaut l’Antoine Doinel de I quattrocento colpi – una delle fughe più belle e più celebri del cinema di tutti i tempi, anche se tra le meno spettacolari in senso proprio – termina in riva al mare. Nella lunga sequenza dell’evasione dal riformatorio dove è stato rinchiuso per un furtarello – anche e soprattutto grazie all’insistenza dei genitori ansiosi di liberarsi di lui – Antoine fugge verso un improbabile orizzonte di libertà e la macchina da presa ne segue la corsa a perdifiato per le campagne, quasi accompagnandolo con meravigliose carrellate laterali. Antoine non è un adolescente a rischio: è di estrazione piccolo borghese e la situazione nella quale si ritrova più che nel degrado o in un vero e proprio disagio ha origine nel clima di incomprensione che lo ha circondato fin dall’inizio del film. I quattrocento colpi si dipana su un doppio registro stilistico: agli interni stretti e angusti, luoghi istituzionali rispetto ai quali il ragazzo si sente estraneo e fuori posto (casa, scuola, commissariato, riformatorio), si alternano gli esterni, ripresi attraverso una macchina da presa mobilissima, in omaggio al sentimento di libertà e felicità che il ragazzo riesce a vivere soltanto in questa dimensione. L’ultima sequenza, quella della fuga, costitisce il tentativo da parte del protagonista di rimpossessarsi di quella libertà, anche soltanto per poco tempo, probabilmente accompagnato dalla consapevolezza che sarà riacciuffato e ricondotto nel riformatorio, proprio come era capitato a un altro ragazzo, riportato poco prima in istituto con il volto malconcio a causa delle percosse dei sorveglianti, eppure convinto di dover ritentare la fuga alla prima occasione utile. La corsa di Antoine si arresta, così, di fronte al mare, che fino ad allora non aveva mai visto, con un senso di sgomento che lo coglie, solo, di fronte a qualcosa di vastissimo, mobile, incerto, metafora della sua vita priva di riferimenti affettivi certi. L’ultima inquadratura lo vede girarsi verso la macchina da presa che ne blocca l’espressione disorientata in uno stop-frame sul quale incominciano a scorrere i titoli di coda: la cesura netta di questo finale segnala la necessità di interrompere un corso delle vicende che il regista riterrebbe meritevole di essere seguito ancora e che, per quanto disperato, si apre a una possibilità per il futuro del ragazzino, seguito con complicità dal regista nel corso del film.
Ma ci sono anche evasioni che riescono a costituire realmente un’occasione di riscatto, ed è bello che la protagonista dell’ultima di queste fughe sia una ragazza, in un universo dominato da personaggi maschili. Stiamo parlando della sedicenne Janine Castang, protagonista del film di Claude Miller La piccola ladra finita in riformatorio a causa della passione per il furto, considerato più espressione della sua personalità ribelle che non risposta a una reale necessità.
Simbolo di una femminilità precoce e ingenua allo stesso tempo, Janine brucia le tappe di un’adolescenza vissuta istintivamente, fuori dalle regole della società adulta e borghese che rifiuta perché distante dalla sua condizione: non conosce il padre, la madre è stata sempre assente dalla sua vita e gli zii con i quali vive le fanno pesare la sua presenza in casa. Il furto, per lei, costituisce un modo come un altro per compensare un vuoto affettivo, attraverso una vera e propria appropriazione simbolica. L’esperienza del riformatorio permette a Janine di
stringere, forse per la prima volta, un’amicizia sincera con la compagna Mauricette che le insegna a fotografare. Quando, poco dopo essere fuggita, scopre di essere incinta e decide di abortire, l’amica le regala una macchina fotografica: non un bene di consumo ma uno strumento per trattenere immagini, per crearsi una memoria. Dopo la corsa a perdifiato, la disperata tensione verso il futuro che ha animato la sua fuga, vediamo per la prima volta Janine riflettere, guardarsi indietro. L’ultimo furto, per recuperare la macchina fotografica, impegnata per pagarsi l’aborto, e la decisione di tenere il bambino, sono il risultato della sua maturazione emotiva, il segnale di un positivo cambiamento.
Come documentare la reclusione?
Tutavia, al di là degli stereotipi, dei luoghi comuni, delle rappresentazioni più o meno aderenti non tanto alla realtà ma a un immaginario collettivo sulla devianza minorile e sul carcere, come documentare la carcerazione minorile?
È possibile partire dai limiti imposti alla rappresentazione dei minori in carcere, perché anche nel caso del documentario, ancora di una rappresentazione si tratta, anche se di un grado diverso (che, tuttavia, non può essere mai considerato pari a zero). Limiti spaziali e temporali, come abbiamo visto nei precedenti capitoli, ma anche di altra natura: molte legislazioni, ad esempio, proteggono l’immagine del minore imputato o condannato che, dunque, non può essere ripreso in volto. È un limite forte ma, proprio su questo limite hanno basato buona
parte del loro lavoro due registe che hanno deciso di documentare la condizione dei minori reclusi.
In Nisida. Grandir en prison (Nisida. Crescere in prigione) Lara Rastelli fa disegnare, costruire e poi indossare delle maschere ai tre ragazzi protagonisti del documentario: si tratta di un compromesso necessario, insieme a molti altri (ad esempio, è possibile girare solo negli spazi comuni e non nelle celle o nelle camerate, cui hanno accesso soltanto gli agenti di custodia), per poter documentare la vita nel carcere. Il laboratorio organizzato per permettere ai ragazzi di costruire le maschere (insieme ad un altro durante il quale prendono dimestichezza con i mezzi tecnici utilizzati) è il primo passo verso la lavorazione del film che, ovviamente, non coincide con i tempi e i modi della produzione cinematografica e, forse, neanche con quelli del documentario classico. “Simbolicamente la maschera è il proseguimento di una privazione di identità dovuta al carcere […] partecipa pienamente al tentativo di raccontare i ragazzi durante l’esperienza della loro incarcerazione” afferma la regista nell’intervista che ci ha rilasciato. Forse, proprio grazie alle maschere, Enzo, Samir e Rosario sono riusciti a dire più di quanto non avrebbero fatto a volto scoperto, certamente lo spettatore, dopo il primo impatto, si sente sollevato nel non dover guardare in faccia una realtà difficile da accettare. Nisida. Grandir en prison segue i ritmi lenti del luogo in cui è stato girato (l’isola di Nisida, letteralmente un altro mondo, dove il tempo scorre ad un ritmo diverso dall’esterno), accetta e incorpora nella sua struttura gli stop e i piccoli grandi inconvenienti che costellano i mesi della lavorazione (due dei ragazzi inizialmente scelti vengono trasferiti) e, lungi dall’aderire passivamente ai fatti, fa tesoro degli eventi fortuiti, si mette al servizio della realtà e cerca il modo migliore per testimoniarla all’esterno. Più o meno nello stesso periodo, Maria Augusta Ramos, per girare Juìzo (Giudizio), un documentario che segue i procedimenti a carico di alcuni minorenni di Rio de Janeiro dai momenti immediatamente successivi all’arresto fino alla reclusione, decide di sostituire in alcune inquadrature i veri protagonisti con degli altri ragazzi: anche in Brasile, infatti, è vietato riprendere in volto i minori coinvolti in procedimenti giudiziari o condannati. Per
trovare i suoi interpreti la Ramos coinvolge, allora, alcune comunità delle favelas di Rio e sceglie dei ragazzi che non hanno mai avuto problemi con la giustizia ma che vivono circondati dallo stesso degrado e a contatto con la microcriminalità dei quartieri più poveri della città. Il film, lungi dal risultare meno efficace e meno reale di quanto non sarebbe avvenuto se fosse stato possibile girare con i protagonisti reali, risulta, proprio grazie a questa “rielaborazione”, decisamente rafforzato, almeno nella sua relazione con lo spettatore, sottratto alla passività del semplice guardare. Il procedimento utilizzato è esposto a chiare lettere fin dai titoli di testa, e non è un caso: la regista vuole che il pubblico sappia che il documentario consta di parti reali e parti ricostruite affinché durante la visione i materiali di provenienza diversa reagiscano e producano una maggiore consapevolezza. Un dato molto
interessante e che, forse, emerge a fatica dalla visione è dato dalla assoluta coincidenza delle reazioni perplesse, quasi indifferenti, dei protagonisti reali dei procedimenti e quelle degli interpreti di fronte al linguaggio formale ma distante dalla loro esperienza quotidiana. In questo modo il documentario accresce il suo potere di testimonianza, proiettandosi all’esterno delle quattro mura dell’aula di giustizia e di quelle del carcere minorile, testimoniando come il problema della devianza e della delinquenza minorile risieda soprattutto nella percezione diffusa tra i giovani delle favelas che esiste una distanza, forse incolmabile, tra le istituzioni e la vita reale di tutti i giorni.
Ciò che emerge con forza da questi due esempi è che l’atto del documentare non può consistere in una fredda cronaca della realtà e che il dispositivo di ripresa non possa calare dall’alto aggredendo i protagonisti, specie se decide di confrontarsi con una realtà tanto delicata quanto quella del carcere minorile. Il documentario è il terreno di incontro e di necessario compromesso tra l’autore e la realtà documentata (ed è proprio in questo che
differisce dalla semplice cronaca), consiste nella reazione tra un’idea di partenza, spesso costruita a partire proprio dagli stereotipi e i luoghi comuni che chiunque nutre nei confronti di una realtà sconosciuta e un’esperienza che, lungi dal voler scoprire una qualche verità, consiste anche e soprattutto nel liberarsi dai pregiudizi di partenza. Tanto Nisida quanto Juìzo operano in quest’ottica, sia pur attraverso procedimenti molto diversi. Nel primo caso l’opzione è quella della vicinanza con il soggetto: Lara Rastelli entra in campo, pone domande, segue le dinamiche niente affatto lineari del carcere e dei suoi ospiti tentando un approccio umanistico, volto a comprendere soprattutto quali siano gli effetti della carcerazione sul singolo; la Ramos, al contrario, tenta di descrivere l’aspetto più formale della giustizia, il suo funzionamento e quello dell’istituzione carceraria, l’alienazione della vita nel penitenziario attraverso una netta presa di distanza dal contesto: il film è privo di commenti, le immagini parlano da sole, i fatti sono esposti dagli stessi protagonisti, siamo nel territorio della pura osservazione.
Anche altri due documentari molto diversi dai precedenti, di fattura decisamente più classica, più costruiti soprattutto a livello formale (la ricerca della “bella inquadratura”, comune a entrambi, contrasta fortemente con il contesto carcerario) cercano di creare un legame tra la stretta attinenza della realtà affrontata e il contesto sociale nel quale è inserita, tra ciò che resta tra le “quattro mura” del penitenziario e l’esterno. Nel caso di Allein in vier Wänden (Solo tra quattro mura), ambientato in una prigione minorile negli urali per detenuti tra i dieci e i
quattordici anni, la regista Alexandra Westmeier non si limita a registrare le testimonianze (di per sé sconvolgenti per ingenuità e crudezza) dei giovani detenuti, a documentare le loro dignitose condizioni di vita, ad alludere all’impostazione sostanzialmente paternalistica data all’istituzione carceraria, ma allarga la focale del suo obiettivo all’esterno, per incontrare i genitori di alcuni dei ragazzi o quelli delle vittime dei loro crimini. A emergere è l’immagine di una popolazione che vive in condizioni di estrema povertà, non solo materiale ma anche e soprattutto umana e morale, un panorama desolante che contrasta con quanto è stato mostrato all’interno del carcere, contraddicendo il vecchio adagio che vorrebbe fosse possibile valutare il grado di civiltà di un Paese dalle condizioni delle sue prigioni. In Love Letters from a Children’s Prison (Lettere d’amore da una prigione di bambini) David Kinsella segue la corrispondenza amorosa tra Vadim, un giovane detenuto, e la sua fidanzata Ira: dalle lettere del ragazzo emerge un’immagine della reclusione ben diversa dalla realtà che il regista documenta girando per il carcere in un bianco e nero che contrasta fortemente con le immagini solari girate all’esterno. Soprattutto, quando Vadim è amnistiato, le promesse d’amore fatte a Ira sono svanite: il carcere ha cambiato il giovane che, solo grazie al documentario, sorta di diario intimo della sua relazione con Ira, forse riuscirà a riconoscere l’importanza di questo legame.
Il documentario, quindi, più che “trattenere” il reale, deve semmai “liberarlo” e, soprattutto, lasciare qualcosa sul terreno: che documentare l’esistente non consista nel tentativo illusorio di cogliere la realtà senza modificarla, è chiaro da tempo, meno scontato è riconoscere che la sua forza debba risiedere non tanto nel catturare l’immagine di una determinata realtà per portarla altrove o nel tentativo di comunicare con il soggetto ripreso, quanto piuttosto in una vera e propria esperienza capace di arricchire chi sta al di qua e (soprattutto) chi si trova al di
là della macchina da presa. Senza poter rinunciare ad un paziente lavoro di ricostruzione dell’identità degli attori in campo e fuoricampo.
Del resto, il confine che abbiamo tracciato in maniera abbastanza arbitraria tra documentario e fiction ad uno sguardo più attento è molto più permeabile e indistinto di quanto non si pensi: molti dei film citati nei primi capitoli poggiano su un substrato di esperienze, realtà, contatti con il vero mondo della devianza, della povertà e della carcerazione: Pixote, la legge del più debole nasce come “elaborazione drammatica” di un documentario sull’abbandono dei minori girato dallo stesso Babenco nelle favelas di San Paolo attraverso la collaborazione degli tessi protagonisti-interpreti; Diego Olivares ha girato I cinghiali di Portici grazie al contributo di giovani attori cresciuti in quartieri difficili di Napoli, di giocatori di una locale squadra di rugby, di ragazzi “a rischio” approdati alla comunità di recupero “Il Pioppo” di Somma Vesuviana che ha offerto le location principali del film e un aiuto concreto alla realizzazione; Jimmy della Collina di Enrico Pau, è stato girato tra il carcere minorile di Quartucciu e la comunità d’accoglienza La Collina, avvalendosi della collaborazione di veri detenuti e ragazzi messi alla prova. Pau, a tal proposito, ci ricorda: “Siamo nel territorio della finzione, ma lo spazio non è stato ricostruito […] gli attori partecipavano osservando la realtà che avevano attorno come se vivessero una sorta di privilegio. C’era l’emozione dell’incontro con i ragazzi, il desiderio d’essere fedeli a quello che loro vivono, l’unicità di un’esperienza: solitamente il cinema entra negli ambienti e li cambia. In questo caso è successo il contrario. Sono i luoghi che hanno cambiato i cinematografari”.
Ciò è ancor più vero nel caso di un documentario che testimoni un’attività svolta all’interno di un carcere minorile e, in particolare, se tale attività consiste nel mettere in scena il gioco delle identità negate dalla carcerazione attraverso il teatro. Falsa testimonianza di Piergiorgio Gay è il risultato di un lavoro sul campo pluriennale svolto presso l’istituto penale minorile “Fornelli” di Bari dal Teatro Kismet OperA, una delle realtà di ricerca teatrale più interessanti del nostro Paese. Tale attività si struttura fin dal 1997 come un vero e proprio laboratorio permanente che trova la sua sede nella Sala Prove, allestita in alcuni locali dello stesso istituto “Fornelli” con il contributo degli ospiti della struttura e grazie alla collaborazione delle istituzioni (prime fra tutte lo stesso IPM di Bari, il Dipartimento di Giustizia minorile e l’Ente Teatrale Italiano). Falsa testimonianza, una scrittura originale di Lello Tedeschi per la regia di Enzo Toma, è uno degli spettacoli-laboratorio nati tra le quattro mura del “Fornelli”,
all’interno della Sala Prove, uno spazio protetto ma di scambio, che si nutre proficuamente della contraddizione di essere un territorio aperto (anche verso altre associazioni teatrali che vogliano utilizzare la struttura per provare e mettere in scena i loro spettacoli coinvolgendo i giovani detenuti) all’interno di un luogo per definizione chiuso e isolato rispetto all’esterno. Il video di Gay si propone come ulteriore dimensione transitoria tra l’esperienza della
messinscena, i ragazzi coinvolti nella lavorazione e lo spettatore, con il preciso obiettivo di restituire ai protagonisti quell’identità spesso negata dalla carcerazione. Montando insieme le riprese delle prove, i brani tratti dello spettacolo e le testimonianze di alcuni dei ragazzi, mostrando per quasi tutta la sua durata la serietà del loro impegno, il duro lavoro sulla scena e gli straordinari risultati raggiunti e rivelando solo nel finale la loro identità di reclusi, il video è realmente una “falsa testimonianza”, questa volta, tuttavia, fondamentale per smontare facili
stereotipi, luoghi comuni e inutili pregiudizi.
Fabrizio Colamartino - Roma, 30 novembre 2008
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