Una stagione compiuta
«Non è più tempo d’eroi», dicevano soltanto negli anni Settanta due numi tutelari di campi artistici differenti come il cinema (Robert Aldrich) e la musica (Gli Stranglers, artisti punk inglesi, genere musicale che estremizzava la protesta ormai in qualche modo integrata nel sistema del rock ‘n’ roll). E pare non essere più tempo d’eroi nemmeno nella produzione cinematografica contemporanea, in cui l’impegno politico, civile e solidale dei giovani sembra essersi esaurito sull’ondata del riflusso anni Ottanta e della disillusione che ne è conseguita. Meglio ancora, è l’impegno politico di massa a dare la netta sensazione di essersi ormai del tutto compiuto, sacrificato sull’altare di un sempre più solitario individualismo che, nella politica, nell’impegno civile e nella solidarietà verso gli altri cerca una dimensione a cui aggrapparsi: innanzitutto, per non perdere definitivamente un centro di gravità attorno ad un sistema di valori personale e poi, solo in seconda istanza, per ancorare la propria esperienza individuale a quella di una fetta abbastanza omogenea di generazione. Appaiono ormai irrimediabilmente lontani (di quasi quarant’anni) i tempi in cui il compito delle nuove generazioni era di prendere coscienza delle proprie responsabilità e liberare (e di far librare) “la fantasia al potere”. Poco importa se poi molti di quegli stessi giovani facevano parte della stessa classe borghese che attaccavano apertamente, un fenomeno stigmatizzato, con grande eco e scandalo – come sempre in quegli anni – da Pier Paolo Pasolini nei versi: «Quando ieri a ieri a Valle Giulia avete fatto a botte/coi poliziotti/io simpatizzavo coi poliziotti!/Perché i poliziotti sono figli di poveri (…)», ma anche, più prosaicamente, dal bidello del film di Gabriele Muccino Come te nessuno mai, il quale fa laconicamente notare agli studenti liceali che lo chiamano dalla loro parte durante un’occupazione scolastica perché d’estrazione proletaria, che sono proprio loro ad essere la variabile impazzita perché non proletari. Lo scopo, al di là delle derive materialistiche, idealistiche, empiriche, ipocritamente sovversive, ma calcolatamente nichilistiche, era motivare dalle fondamenta la morale dell’uomo che si sentiva (non sempre a ragione) veicolo portante nel raggiungimento di una reale libertà civile e ideologica, come se si trattasse di un categorico e inderogabile imperativo etico. Altrimenti sarebbe stata la fine. Sono passati quasi quarant’anni, molti dei rivoluzionari di allora occupano oggi posti di responsabilità – spesso dopo aver operato un autentico salto della quaglia che li ha portati più vicini al loro DNA d’origine (quello familiare) e li ha collocati in una posizione diametralmente opposta al credo di gioventù – e ci si è accorti inoltre che, nonostante i più o meno repentini cambiamenti di scenario, la fine non è giunta e le fondamenta dello Stato hanno subito solo alcuni (piccoli?) assestamenti successivi. Il cinema, specchio spesso fedele dei mutamenti di una società, ha registrato nel corso degli anni queste trasformazioni. Il passato è ormai alle spalle, e nel presente la tendenza è quella di stemperare l’impegno politico, la contestazione, attraverso una ricerca personale, formativa, che considera l’esperienza quotidiana in senso individuale, “utile” per raggiungere e superare (non sempre in tempi ridotti) la soglia che divide la giovinezza dall’età adulta. Paradigmatici, a proposito, sono due pellicole italiane di successo come Ora o mai più di Lucio Pellegrini (2003) e Come te nessuno mai di Gabriele Muccino (1999): qui l’engagement giovanile è filtro o corollario di un tragitto che è anche, se non addirittura soprattutto, sentimentale, laddove, invece, nel passato era essenzialmente contestatario e ribellistico, se non puramente umanitario (come nel caso languido e edulcorato di La città dei ragazzi di Norman Taurog, 1938). L’impegno politico e civile negli anni della contestazione passava quasi esclusivamente dalla ribellione al sistema: lavori comeSe… di Lindsay Anderson (1968) e Nel nome del padre di Marco Bellocchio (1972) rappresentano il punto più alto, rispettivamente in Europa e in Italia, di film in cui il sistema da abbattere, l’istituzione nemica, è la scuola, public school nel primo (le scuole di lusso destinate ai dirigenti del futuro) e scuola cattolica nel secondo, ognuno quindi pienamente parte del proprio retaggio culturale. In entrambi i casi il rifiuto si concentra sulla decisa negazione della liturgia di codici, convenzioni e vuote ripetizioni e va contro un sistema di ingiustizie e soprusi compiuti per affermare il potere di un istituto scolastico che è sempre espressione e metafora dell’intera società. Gli atti sono violenti ed estremi: in Se…, memore della medesima ribellione operata dagli studenti di Jean Vigo in 1081 (1933), che si elevano fin sopra il tetto del collegio in un impetuoso imbizzarrimento anarchico, gli allievi della scuola salgono sui medesimi simbolici tetti per l’estremizzazione di un atto che si può far risalire alla sovversione surrealista e che consiste nel sparare su insegnanti colpevoli della perpetuazione dell’esistente e su compagni disinteressati a prendere una posizione nette e decisa. Altrettanto complessa la situazione di Nel nome del padre, nel quale, dopo un gioco metalinguistico di allegoriche rappresentazioni (in una recita teatrale si stigmatizzano la cecità della morale cattolica e la tracotanza del potere rappresentato dai sacerdoti), gli studenti danno vita ad una rivolta violenta contro il falso paternalismo dei preti, contro la perpetuazione del retrivo sistema di valori inculcato in modo nozionistico e coercitivo e contro una cultura impartita in modo da risultare priva di qualunque aggancio con la realtà dei fatti. Nondimeno, nel film di Bellocchio la contraddizione si presenta sotto forma di contrasto tra le due nature del collegio, borghese e proletaria, pronte a farsi una ra intestina e, di conseguenza, a rendere vano il tentativo. Gli spari dal tetto sono sostituiti da un atto simbolico e iconoclasta, quello di tagliare un albero (chiamato “dei miracoli”) nei pressi del collegio sotto il quale si riunivano i fedeli convinti di vedere la Madonna. Se con tale azione si intendeva negare qualsiasi deriva illusoria delle masse per realizzare il trionfo forzato di una cultura scientifica, positivista e razionale, la stessa azione, rivista a distanza di anni, sottolinea una volta di più il carattere velleitario di una ribellione già contrassegnata dai germi del fallimento. Politica del sentimento Di tutt’altro segno e tono sono le pellicole contemporanee, che della celebre stagione del Sessantotto hanno assunto non soltanto riferimenti e mitologie, ma anche le figure dei genitori che hanno vissuto quel periodo da attivisti, come nel caso del personaggio di Silvio in Come te nessuno mai, il cui padre è un ex-sessantottino convinto che gli attuali adolescenti siano incapaci di pensare e quindi privi di qualunque motivazione nell’occupare la propria scuola. Il trait d’union di queste storie è il legame stretto, quasi indissolubile, tra impegno politico ed educazione sentimentale, quasi a determinare come solo l’unione dei due aspetti possa dotare l’adolescente di quella conoscenza pragmatica necessaria ad entrare con pieno diritto nell’età adulta. Come te nessuno mai getta sul tavolo alcuni problemi che si intrecciano tra loro per fornire il ritratto di un’adolescenza confusa, alla ricerca di una reale identità, in un contesto privo di agganci sicuri, dove impegno politico ed esperienze sentimentali rappresentano solo due degli aspetti che concorrono alla formazione completa di una persona. Le preoccupazioni del protagonista Silvio, esponente tipo della borghesia romana, riguardano il suo futuro (uno dei suoi pensieri ricorrenti è cosa penserà dei propri sedici anni quando avrà l’età del padre) e il concetto di amore, con tutte le ansie da prestazione conseguenti. Lo smarrimento dell’identità investe anche la problematica del look (quale vestito scegliere per andare in discoteca e al contempo distinguersi?) in un mondo che si coniuga per sottoculture urbane: alternativi o zecche, be-boys, punk, fasci, precisi o pariolini, normali. In qualche modo, i ragazzi cercano allo stesso tempo (e un po’ contraddittoriamente) sia la distinzione dalla massa, sia l’appartenenza ad un gruppo nel quale specchiare la propria unicità e renderla visibile all’interno della società. Fare politica acquista una dimensione affatto individuale, che investe anzitutto la capacità di spigliatezza con l’altro sesso, ancora considerato un continente da scoprire per affermarsi: l’occupazione della scuola è quasi un tumulto spontaneo, seguito per acquiescenza al flusso dal quale, tuttavia, si intende rendersi differenti, e si risolve in uno spurio rapporto con il passato come quando Silvio e Valentina, due dei protagonisti del film, si ritrovano per caso nell’archivio e sfogliano i registri scolastici del ‘66-‘67 . Coerenti con l’indissolubilità del binomio politica e sentimento, i due adolescenti si baciano, ma il momento intimo è interrotto improvvisamente (e indicativamente) dall’assemblea di autogestione: la politica si frappone al tentativo di bruciare le tappe dell’educazione sentimentale. La stessa occupazione, sbandierata come un autentico ritorno al clima degli anni Sessanta, conosce una fine squallida, da mesto ritorno nei ranghi familiari, come se la ricreazione fosse finita lasciando strascichi pesanti da smaltire: tutti gli studenti portati nel commissariato chiamano casa e si rifugiano nella famiglia, vero e proprio “nido”, come già diceva <strong>Pascoli</strong>, al di là delle supposte incomprensioni generazionali e del ribellismo di facciata. Il parallelismo tra amore e politica è evidente anche nel successivo film Ora o mai più del regista Lucio Pellegrini, prima pellicola a mostrare nel tessuto della fiction i dolorosi fatti del luglio 2001 a Genova durante le manifestazioni contro il G8. David, studente modello della facoltà di Fisica alla Normale di Pisa, ha la ventura di entrare in contatto con la confusionaria e vitale esistenza di un centro sociale, chiamato salgarianamente Mompracem, dopo aver ricevuto un semplice volantino con un suadente e pudico sorriso da una coetanea di nome Viola. L’impegno politico nasce da uno sguardo ammiccante e non da una presa di posizione ferma e risoluta: tutto ciò che ne consegue (sgomberi, assemblee politiche, azioni dimostrative, vita comunitaria, la manifestazione di Genova e l’incubo della deportazione nella tristemente celebre caserma Bolzaneto) rappresentano le varie tappe che contribuiranno a segnare per sempre il ragazzo, facendogli acquisire esperienza, ma anche la consapevolezza dell’odio che si può celare dietro la contrapposizione politica, non più dialettica, ma tribale, violenta e annichilente soprattutto sul piano delle aspirazioni personali. Anche nel film di Pellegrini si sottolinea il problema della ricerca di una precisa identità cui far riferimento (lo slogan del centro sociale Mompracem è eloquentemente «se non io, chi?»), ma la specificità politica rischia la cancellazione di ogni altro tipo di interesse: David, ex studente modello e individuo estremamente disciplinato, comincia a contraddistinguersi per gli esami non dati, per gli appuntamenti mancati, per la difficoltà nei rapporti intimi spesso declinati o rimandati, per la preoccupazione su cosa gli riserverà il futuro. Tutta la vicenda ruota intorno al concetto dell’unicità dell’esperienza: così come l’impegno politico rende possibile l’acquisizione del dato sensibile utile alla crescita e alla formazione, così anche la soddisfazione del sentimento con Viola si limiterà all’unicità di un isola to momento indimenticabile, per un legame che una volta di più si fa inscindibile, ribadendo contemporaneamente l’importanza di tali avvenimenti in un completo percorso di crescita. Altrettanto recente e significativo dal punto di vista di una visione dell’impegno politico come fase di passaggio da un’età all’altra è Caterina va in città di Paolo Virzì. In questo caso la partecipazione è ancor più marginale e transitoria che nei film or ora analizzati, dato che la protagonista ha la funzione di osservatrice un po’ perplessa, intimorita e sostanzialmente estranea al “mondo dorato” nel quale, improvvisamente, è piombata. La storia della quattordicenne Caterina, giunta a Roma dalla provincia con la famiglia (il padre è insegnante, la madre casalinga) è emblematica di una fase di passaggio (quella dalla preadolescenza all’adolescenza) in cui la politica o l’impegno sono solo due tra le tante opzioni che una personalità ancora tutta da formare può sperimentare prima di operare delle vere e proprie scelte. Tanto più che le realtà opposte in cui si cala la giovanissima protagonista, “contesa” tra un gruppo di ragazzine di sinistra figlie di intellettuali radical-chic impegnate politicamente e un altro cui appartengono le figlie della Roma bene, di orientamento conservatore ma sostanzialmente disinteressate nei confronti della politica, sono quelle elencate nell’ironico catalogo delle tendenze giovanili (“zecche”, “pariolini”, eccetera) del film di Muccino, qui tracciate volutamente con i connotati della superficialità e della frivolezza attraverso personaggi che sono metafore viventi al servizio di una critica feroce verso quella che è stata definita come l’Italia della “seconda repubblica” e la visione politica da essa prodotta, all’interno della quale il cittadino comune è costretto a scegliere da che parte stare al di là della propria reale maturità intellettuale. La partecipazione individualista Sul versante americano la situazione è (ovviamente) differente. L’impegno è esclusivamente individuale e non per normale progressione di un singolo percorso di crescita, ma più probabilmente perché, tradizionalmente e culturalmente, l’individualismo è il credo fondante su cui è stata edificata la Nazione. Ma l’individualismo Stars and Stripes nella sua rappresentazione cinematografica conduce a strade antitetiche: da una parte l’arrivismo, dall’altra, più umanamente, la solidarietà utopistica. Poli opposti di questi assunti sono il caustico Election di Alxander Payne (1999) e il melodrammatico Un sogno per domani di Mimi Leder (2000). Da un lato, l’impegno politico (in senso allegorico, visto che il liceo teatro della campagna elettorale è un’America in nuce) della sgradevolissima Tracy Flick è finalizzato all’affermazione personale, al successo, da perseguire saltando, abbattendo ed eludendo anche truffaldinamente gli ostacoli che si frappongono alla meta (il titolo di rappresentante degli studenti della scuola); dall’altro, il sogno di un bambino di compiere tre azioni di generosa e spassionata solidarietà nei confronti di altrettante persone bisognose del suo intervento, con la speranza che queste, a loro volta, operino nell’identica maniera, in modo da inaugurare una catena di virtù capace di cambiare il mondo. Entrambi i tentativi, seppur di valenze opposte, sono condotti con grande impegno e con un credo fermo nella realizzazione. Ma questo non è sufficiente a restituire un ritratto rassicurante della società: Tracy Flick, mascherando da impegno civile la propria smodata ambizione, nonostante la sua estrema scorrettezza (anzi proprio grazie ad essa) arriverà al suo obiettivo e andrà anche oltre, frequentando i potenti di Washington, per un’escalation che non pare conoscere battute d’arresto (distruggendo contemporaneamente la vita e la carriera del professor Jim McAllister, insegnante molto amato dagli studenti, il quale si è posto come obiettivo quello di opporsi alla smodata ambizione della ragazza per una sorta di autoinvestitura a paladino dell’etica), mentre il piccolo Trevor, il bambino utopista, sarà ucciso preterintenzionalmente con una coltellata nel tentativo di effettuare il suo terzo intervento caritatevole, lasciando comunque una commovente eredità di ideali affetti e un esempio da seguire con partecipata convinzione. Tracy Flick, a ben vedere, è una self-made- woman tipicamente statunitense, desiderosa di riscattarsi delle proprie umili origini (più volte Tracy ribadisce la propria estraneità all’ambiente alto-borghese della scuola frequentata), che lavora duramente alla costruzione del proprio successo individuale. Se da un lato la protagonista potrebbe, proprio a partire da tali caratteristiche, rappresentare il classico esempio positivo di un Paese che dà a tutti i suoi cittadini, a prescindere dal loro censo, uguali possibilità di successo, tale immagine in questo caso è incrinata, tuttavia, dall’egoismo e dalla prepotenza che connotano l’agire della ragazza. Ne è una conferma l’irresistibile ascesa sociale della stessa che va ulteriormente a confermare la tesi del regista, ovvero che i rappresentanti della società non siano animati da spirito altruistico o dalla vocazione verso la politica, bensì da un egocentrismo alimentato dallo stesso sistema sociale. Da un lato abbiamo, dunque, l’immagine concretamente pessimista di una società che, proprio nelle proprie presunte certezze scopre di avere dei punti deboli, dall’altro (Un sogno per domani), invece, quella ottimista e utopica di un Paese fondato, malgrado tutto, su forti ideali comunitari che, tuttavia, sono affidati fideisticamente più che alla regolamentazione delle leggi, all’iniziativa di singoli cittadini ispirati da virtù di origine evangelica più che di derivazione civica.
di Giampiero Frasca (Cittadini in crescita n. 3, 2004, pp. 233-250)