Sinossi
David è un grande appassionato della sit-com intitolata Pleasantville, una fiction che mostra un mondo perfetto, ritratto in un bianco e nero laccato, nel quale la temperatura è sempre di 25 gradi, le persone sono inappuntabili e niente, se non il piccolo inconveniente di un gatto rimasto sui rami di un albero, pare turbare l’invidiabile equilibrio regnante. Dopo aver rotto il telecomando a seguito di un litigio con l’inquieta sorella Jennifer, David riceve la visita di uno strano tecnico televisivo che lo dota di un particolare telecomando in grado di catapultare il ragazzo e la sorella all’interno della fiction. Trovatisi improvvisamente all’interno della città di Pleasantville nelle sembianze di due personaggi, Bud e Mary Sue Parker, David e Jennifer cominciano a vivere la loro nuova vita in bianco e nero. Ma l’intraprendenza sessuale di Jennifer provoca un trauma nel mondo ripetitivo e immobile di Pleasantville: il perfetto equilibrio viene turbato, la reiterazione esasperata di azioni, sensazioni e giornate sempre uguali a se stesse rende possibile un’alterazione decisiva che provoca un mutamento nella stessa composizione cromatica della città. A Pleasantville compaiono, infatti, i colori. Dapprima sui fiori, poi sugli oggetti, infine anche sulle persone, provocando una sorta di razzismo da parte degli uomini in bianco e nero nei confronti degli individui che progressivamente mostrano la compiutezza del loro cromatismo umano e non più virtuale. Accusato insieme al signor Johnson, pittore dilettante, di essersi servito di colori proibiti per dipingere un grosso murales, David viene processato dal sindaco della città, ma durante la sua difesa il giovane riesce a far ammettere la propria umanità anche ai pochi abitanti della città ancora rimasti in bianco e nero, trasformando così Pleasantville in un ambiente scintillante di una gamma vastissima di colori differenti.
Presentazione critica
Un adolescente (due, se si tiene conto della sorella Jennifer, la quale funge da scardinatrice dell’equilibrio iniziale) viene catapultato in un’epoca differente e deve necessariamente confrontarsi ed adeguarsi all’esistenza quotidiana della nuova realtà. Detta così, quella enunciata sembra la trama molto succinta di Ritorno al futuro di Robert Zemeckis, ma Pleasantville, esordio dietro la macchina da presa di Gary Ross, aggiunge un elemento fondamentale allo spaesamento cronologico del buon Marty/Michael J. Fox, il fatto, cioè, che la città di Pleasantville, oltre a rappresentare un paese della provincia americana degli anni Cinquanta, è una comunità virtuale che esiste soltanto all’interno di un televisore con le sue tonalità in bianco e nero ormai démodé, e con quei modi che appaiono così inattuali e inconsueti (magistrale l’idea di Ross di inserire nella stessa inquadratura l’ideale e plastificata vita familiare della famiglia Parker, che si evidenzia dallo schermo televisivo, e la tensione cui è sottoposta la disfatta madre di David mentre parla al telefono con il fidanzato più giovane di nove anni). David, grazie ad un telecomando e ad uno strambo tecnico televisivo, si trova così in una realtà due volte differente, per i tempi e per la sua virtualità. Ma Ross, nel tentativo di allontanarsi il più possibile dal pericoloso solco scavato da Zemeckis, non lavora sui tempi, bensì sulla limitatezza di una realtà differente, non vera perché televisiva, non falsa perché in piena realizzazione davanti agli occhi di David e Jennifer. Ed il racconto, di conseguenza, si trasforma in allegoria. La Pleasantville televisiva non è altro che l’immagine dell’America all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, proposta con l’intenzione di mostrare il migliore dei mondi possibili, nel quale tutto si svolge in modo prevedibile e conforme, dove tutti vivono felici senza alcun tipo di tensione non solo sociale, ma nemmeno sensuale o anche contingente (non esiste il concetto di pioggia e nemmeno quello di incendio, visto che i pompieri accorrono soltanto nel caso un gattino rimanga intrappolato su un albero). Vista così, nella sua perfezione smaltata in modo monocromatico, priva di qualunque tipo di conflittualità ed esente da qualsiasi scarto alla reiterazione esasperata e perfettamente riconoscibile, Pleasantville pare molto più simile alla Seaheaven di Truman Burbank in The Truman Show (Peter Weir, 1998) che alla Hill Valley di Ritorno al fututo: sia nel film di Weir, sia in quello di Ross è presente, infatti, la componente fittizia data dall’imposizione dell’apparire, dal proporre ad un ipotetico pubblico (e quindi alla grande massa) un mondo perfetto in cui tutto resti uguale a se stesso e che in qualche modo rassicuri il resto della società. Ma se nel primo caso la resa della perfezione era mirata al controllo di un’unica persona (Truman), in Pleasantville l’idealizzazione della società è fornita come immagine di quel mondo che negli anni Cinquanta era in preda all’isteria della presunta invasione comunista. E sempre metaforica, quindi, risulta la prima rottura dell’equilibrio interno alla comunità: David dice allo spasimante di Jennifer che sarebbe meglio se lasciasse perdere il tentativo di seduzione nei confronti della sorella. La volontà di David è lodevole, egli vuole impedire che il mondo chiuso di Pleasantville possa deteriorarsi, ma lo spasimante non è abituato alla contraddizione: il suo è un misto di delusione scorata e rabbia implosiva, ed il suo tiro a canestro per la prima volta non va a segno, scardinando di fatto il procedere a-temporale della cittadina che non conosce il significato del divenire e non contempla l’esterno (e quindi il diverso),. È la prima rottura dell’equilibrio: qualcosa si è spezzato e da questo momento in avanti le cose non saranno più come prima. Due adolescenti, uno con il raziocinio (David), l’altra con una carica inusitata di vitalità (Jennifer), cambiano il modo di intendere e di essere di una comunità. Ma il pericolo del diverso negli States (ma non solo, purtroppo) è sempre in agguato: quella messa in atto dagli abitanti di Pleasantville rimasti nel loro grigiore cromatico è un’autentica ‘caccia alla streghe’ di mccarthyana memoria (ma potrebbe anche ricordare un fenomeno non meno atroce, quello della ‘segregazione’ della popolazione di colore, al punto che in un negozio della cittadina compare un cartello con su scritto “No Colored”). È David il personaggio che riesce a far guardare ogni individuo al di là delle apparenze e scoprire il lato ‘a colori’ dentro di sé. È un adolescente che riesce a mostrare agli altri la vera umanità. Non è il più vecchio, ma è il più vero. Forse più vero e concreto anche della madre alla quale fornisce una parola di saggio conforto una volta ritornato nel mondo reale. Giampiero Frasca