di Ken Loach
(Gran Bretagna, 2002)
Sinossi
Greenock, periferia di Glasgow, Scozia. La madre di Liam, Jean, è in prigione per una storia di droga. La donna sarà rilasciata il giorno prima del compimento del sedicesimo anno di vita del figlio. Liam sogna una vita differente una volta che la madre sarà uscita di prigione, lontana dal nonno violento e brutale e dal compagno di Jean, lo spacciatore Stan, per difendere il quale la donna si trova in prigione. Liam, che non conosce la tranquillità e l’affetto familiari, ha nella sorella maggiore Chantelle, una ragazza madre, e nell’amico Pinball, gli unici appoggi della sua triste esistenza. Liam, tuttavia, desidera ardentemente regalare a Jean una speranza di vita diversa, priva della tentazione della droga e dell’influenza nefasta di Stan: vede un prefabbricato costruito vicino al fiume Clyde Firth e decide di eleggerlo a nuova dimora della famiglia riunita. Ma per comprare il prefabbricato ci vuole denaro che Liam non possiede e che cerca di procurarsi vendendo una dose di droga sottratta al compagno della madre. Il suo traffico viene notato dal boss dello spaccio locale che gli propone di lavorare per lui: Liam passa così attraverso alcune prove di iniziazione alla malavita (la simulazione di un omicidio nella toilette di un locale) e deve sobbarcarsi, nonostante la sua contraria volontà, anche il tradimento dell’amico Pinball. Liam riesce così ad ottenere addirittura un’abitazione elegante nel quartiere benestante della città, ma la madre, una volta uscita di prigione, cede alle lusinghe di Stan e decide di tornare a vivere con lui. Liam, accecato dalla rabbia, uccide Stan e fugge braccato dalla polizia. Costretto a rifugiarsi in riva al fiume, Liam riceve la telefonata della sorella Chantelle: è il suo compleanno e la sorella lo chiama per fargli gli auguri.
Introduzione al Film
Dalla parte del più debole Ken Loach anche in questo caso illustra un ulteriore capitolo della sua filmografia sulle contraddizioni che animano e caratterizzano la società occidentale. Ponendosi sempre al fianco degli sconfitti per raccontare la società dalla loro prospettiva, Loach si propone nuovamente come cantore dei deboli, inserendoli in un ambiente grigio nell’estrema periferia industrializzata di Glasgow. Tralasciati per una volta gli operai, gli immigrati, i profughi, le madri vessate dai servizi di assistenza sociale (Ladybird Ladybird), le adolescenti ritenute schizofreniche (Family Life) o i minori che tentano di sottrarsi alla durezza dell’esistenza attraverso l’amore per gli animali (Kes), Loach si interessa di adolescenza allo sbando senza l’aiuto necessario della famiglia obbligata a perseguire il crimine per tentare di riconquistare l’amore e la salvezza materni. Sguardo sempre oggettivo sulla realtà fenomenica e ricerca di attori rigorosamente non professionisti per dotare la materia narrativa di quel realismo che solo chi vive pienamente all’interno delle contraddizioni della società d’appartenenza conosce perfettamente: per il ruolo di Liam, Loach, dopo lunghissimi e accurati provini, ha trovato l’attore giusto in Martin Compston, studente della scuola di Greenock e giocatore di calcio nel Morton Football Club, seconda divisione scozzese.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
La circolarità senza scampo Quello che colpisce di Sweet sixteen è l’inveterato pessimismo che una volta di più caratterizza l’opera del regista inglese. Già il titolo, ossimoricamente (e con una dichiarata ironia che, sulla base della tragedia raccontata, assume un tono ancora più beffardo), allude ad un’età adolescenziale che dovrebbe essere, perlomeno nelle intenzioni, dolce, gradevole e spensierata, e che invece, per il sedicenne Liam, è un periodo di patimento, dolore, rinunce e speranze pronte a frantumarsi inesorabilmente. Ed ancora una volta, sullo sfondo, ma attiva ben più dei personaggi che si barcamenano nella strenua speranza di trovare una soluzione ai loro problemi, si affaccia la società con il suo volto indifferente quando non addirittura ostile nei confronti delle aspirazioni degli individui più indifesi. Come sottrarsi, infatti, ad un destino che ha previsto la dissoluzione dell’istituto familiare causata dalla droga che schiavizza i personaggi e li rende incapaci di qualunque riscatto? Non bastano le intenzioni, ci dice da sempre Loach: Liam è soltanto l’ultimo, in ordine di tempo, degli sconfitti dall’indifferenza e dalla protervia della società mostratoci dal maestro del cinema politico inglese. Nonostante il suo sogno di normalizzazione, Liam è destinato all’ennesima battuta d’arresto in una vita condannata allo scacco esistenziale e al perenne stallo delle ambizioni. L’uomo raccontato da Loach, soprattutto se è un minore – perché porta con sé anche il peso non indifferente dell’esperienza mancante – non solo non può migliorare la sua condizione, ma ha perfino l’occasione nefasta di peggiorarla quando si dibatte nell’illusione di migliorare il proprio stato. Liam sogna una vita perfetta all’interno di una famiglia che di perfetto non ha nulla: padre assente, madre tossicodipendente, compagno della madre spacciatore senza scrupoli, nonno violento. L’unica persona dotata di un’umanità non compiacente ma sincera è la sorella Chantelle, ragazza madre che nutre per Liam un affetto vero, una sorta di figura vicaria della madre (si pensi alla scena in cui è Chantelle a curare con amore spontaneo le ferite e i lividi riportati da Liam; ed è sempre Chantelle ad augurare sulla riva del fiume, nell’ultima scena, il buon compleanno al fratello nella sua disperata fuga). Ma come può Liam ovviare alle gravi mancanze della sua famiglia? Come può recuperare al suo ruolo di madre una donna schiava della droga e dell’insana passione per il suo uomo? Come può riuscire, all’interno di una società che non consente rinascite e ipotesi di affermazione, ma soltanto risalite temporanee e apparenti (si pensi alla prima scena del film, allegoricamente occultata nel tessuto realistico del film, con Liam che raggranella spiccioli facendo vedere le stelle con un telescopio ad alcuni bambini)?. La crescita e la speranza di Liam, allora, possono soltanto transitare dal crimine, e precisamente da ciò che si cerca di debellare dalla propria vita: per allontanare la madre dalla schiavitù della tossicodipendenza, Liam entra negli ingranaggi della malavita, regolati e gestiti dal boss della zona, spacciando a sua volta la sostanza da cui intende allontanare la madre. La beffarda circolarità è così perfetta e Liam, perso negli egoismi umani, nella tenace volontà di salvezza verso una donna che non intende essere salvata, si trasforma in un piccolo Edipo moderno che uccide il padre (anche se patrigno e violento) per ottenere la presunta libertà della madre Ma se in Edipo era il fato a prescrivere l’azione, in Sweet sixteen è la società moderna a motivare il dramma, privando l’individuo delle sue possibilità di riscatto. Il risultato è la sconfitta definitiva nel giorno ipoteticamente più felice: l’augurio che raggiunge Liam sulle rive del fiume non è la speranza di un futuro migliore, ma solo il riconoscimento sardonico di una sconfitta ancora più drammatica.
Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici
Follie vere e presunte Qualche critico ha confrontato il finale di Sweet sixteen con quello, profondamente poetico e giustamente passato alla storia del cinema, de I quattrocento colpi di François Truffaut (1959): entrambi i protagonisti (Liam e Antoine Doinel) si ritrovano sulla riva di un’ampia distesa d’acqua, ma se per Antoine il mare dopo la fuga dal collegio è un’immagine di libertà cui non aveva mai avuto accesso in precedenza nella sua vita, per Liam il corso d’acqua sulla cui sponda si ritrova braccato dalla polizia è il riconoscimento dell’impasse definitiva, della sconfitta esistenziale acuita dall’augurio dei suoi ‘dolci’ sedici anni ricevuto telefonicamente dalla sorella. I simboli si invertono e si contrappongono, l’allegoria di libertà si trasforma in fallimento totalizzante di un ragazzo, immagine di una società che non tutela i suoi membri. Sweet sixteen si inserisce perfettamente, di conseguenza, in una riflessione sulla possibilità di successo delle proprie – anche minime – aspirazioni all’interno di un sistema chiuso che non offre ipotesi di riuscita con mezzi legali per gli individui meno attrezzati. Ma il film di Loach è anche un buon esempio per discutere sulla dissoluzione dell’istituto familiare, tema da sempre caro al regista di Nuneaton. Giampiero Frasca