di Vittorio Moroni
(Italia, 2004)
Sinossi
Valentina, marionettista italiana da anni emigrata in Portogallo, turbata e combattuta torna in Italia; sembra decisa a riprendere i contatti con l’ex fidanzato Carlo e con la figlia Valentina, abbandonata il giorno del parto e mai più rivista. Carlo e Vale non la stanno certo aspettando, in una Sondrio tranquilla in cui l’uno è diventato taxista e l’altra frequenta il liceo. Anzi, i due sono occupati nei loro piccoli grandi problemi quotidiani: l’incomunicabilità tipica dell’adolescenza, l’incompatibilità del loro rapporto esclusivo con la storia tra Carlo ed Elena, la resa dei conti scolastica con un fatidico compito di matematica, la linea di demarcazione tra l’amicizia sincera e la dinamica padre-figlia. In questo intricato e delicato equilibrio si inseriscono in maniera sempre più ingombrante le telefonate mute di Valentina e la sua presenza sempre più vicina. Così, mentre Vale progetta, con l’aiuto dell’amica Giò, una eclatante e dimostrativa fuga di casa, Valentina incontra Carlo in una sorta di tentativo di recupero degli anni e dei ricordi persi. Il tentativo è però caotico, disperato, infantile, impossibile. Valentina, placata dalla consapevolezza di non poter rientrare in possesso di ciò a cui ha rinunciato molti anni prima, riparte per il Portogallo, sullo stesso treno che dovrebbe portare Vale verso Genova nella sua fuga segreta. Il destino però decide che quell’incontro non avvenga: Vale ci ripensa all’ultimo momento e si avvia verso casa.
Presentazione critica
Le marionette del destino
Vittorio Moroni firma il suo esordio alla regia con Tu devi essere il lupo, una firma impegnativa che si estende anche al soggetto ed alla sceneggiatura. L’incipit del film gioca decisamente a spiazzare lo spettatore, con l’inquadratura fissa di un teatrino di marionette che, per di più, parlano portoghese. Il gioco della fascinazione funziona, e la favola, di quelle per bambini che hanno molto da insegnare anche ai grandi, racconta di un bosco, metaforico confine verso l’altrove, popolato da un lupo; chiunque si avventuri nel bosco, alla ricerca di scoprire l’aldilà, si dice venga mangiato dal lupo, tuttavia nessun animale è mai tornato per testimoniare la verità e per svelare il segreto di quel pericoloso ed affascinante confine. Moroni chiede allo spettatore di dotarsi di uno sguardo infantile e puro prima di assistere al suo spettacolo di marionette viventi, al suo complicato gioco di caso e destino. E di uno sguardo quasi infantile c’è certamente bisogno per apprezzare gli snodi narrativi della vicenda, per affezionarsi a questi personaggi chiusi in una ermetica incomunicabilità, fra loro ed anche nei confronti dello spettatore. Un teatrino semplice, a tratti ingenuo, appesantito dalle forti implicazioni psico-sociologiche della storia. Ambientato in un luogo quasi irreale ed inedito (non devono essere molti, a memoria, i film girati nella città di Sondrio), in cui la natura, in particolare le montagne, fanno da sfondo ideale alle lunghe passeggiate meditative o riconciliatorie, ed i panorami sconfinati si prestano ai voli della fantasia, ideali e reali come quello di Athos, fustigatore politico dannunziano, a bordo del suo parapendio. Tuttavia rimane percepibile la spessa patina della finzione, l’odore di cartapesta degli sfondi e dei personaggi. Gli insistiti ricorsi al flashback, con discutibili viraggi sui colori incerti e sporchi delle riprese home-video, diventano a lungo andare ripetitivi, sono quasi un sintomo della difficoltà nel raccontare la complessità e la profondità del rapporto padre-figlia, oppure una sfiducia nei confronti del potere dell’immagine e della sceneggiatura. È una sovrabbondanza di immagini, di visione, che percorre tutto il film e che caratterizza inevitabilmente anche i personaggi; così Carlo è sì taxista, ma con l’hobby ossessivo della fotografia, dello scatto rubato o preso in prestito agli occasionali passeggeri. E i suoi scatti si vanno ad aggiungere alla mole dei già citati flashback. Una galleria di facce e di avvenimenti ingombranti tanto da occupare fisicamente le pareti di un’intera soffitta e tutto il film. Questa voluta complicazione finisce per cozzare con la pretesa di semplicità suggerita dall’incipit e con la linearità della storia. In fondo, tutto è molto scorrevole nel film, ed i personaggi sono chiamati quasi esclusivamente a farsi trasportare dalla corrente del proprio destino collettivo. Il destino è il vero deus ex machina, colui che beffardamente tiene i fili delle tante marionette sulla scena. Poco o nessuno spazio rimane a ben guardare per le decisioni personali: proprio quando Carlo e Valentina sembrano sul punto di separarsi giunge un temporale improvviso che li costringe a riparare ed a rivedere le proprie posizioni; mentre Valentina fa il suo ingresso in casa per presentarsi alla figlia, il caso vuole che Vale sia altrove ad organizzare la fuga; infine è ancora una pura, prudente e saggia casualità che nega a madre e figlia l’ultima possibilità di incontro sul treno. Un espediente, quello del destino, grazie al quale il regista può sbizzarrirsi in citazioni e omaggi e dare un saggio della propria abilità di narratore. In proposito è emblematica proprio la sequenza del treno, giocata sul montaggio alternato e sul filo del suspense, zeppo di falsi indizi e di mistificazioni. Si tende sempre ad essere troppo magnanimi o troppo critici nei confronti delle opere prime. Il film, che si è avvalso dei contributi ministeriali, ha goduto di una accoglienza piuttosto favorevole da parte del pubblico e della critica, tanto da meritare una candidatura come miglior opera prima sia al Festival di Berlino che ai David di Donatello.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Una persona a metà
Vale, la ragazza co-protagonista del film, porta già nel soprannome il segno della propria incompiutezza. Il nome, lo stesso della madre che non l’ha voluta riconoscere ed accogliere al momento del parto, le è stato dato dal padre, adottivo e presumibilmente non naturale, per creare una sorta di surrogato, un simulacro, un duraturo ricordo del grande amore della sua gioventù. Il diminutivo con cui tutti si riferiscono alla ragazza non è solo un comodo espediente drammaturgico per non confondere madre e figlia, ma un preciso segno del suo ruolo familiare e sociale. Vale ha effettivamente preso il posto della madre per tutta una serie di mansioni e di valori. Il suo rapporto con il padre Carlo è molto intimo ed aperto, molto esclusivo. Questa esclusività è stata creata e cercata da Carlo che ha voluto replicare un rapporto di coppia, senza nessuna implicazione sessuale, beninteso, quasi per proteggersi dalle sofferenze del mondo esterno. Del resto egli ne è un acuto osservatore, limitandosi, protetto dall’obiettivo della macchina fotografica, ad osservare senza essere visto. I numerosi flash-back del film ci mostrano decine di ricordi felici di padre e figlia, giochi e scherzi nei quali sembra non esserci spazio per la presenza di una terza persona. Questa esclusività del rapporto viene però messa in crisi nel momento dell’adolescenza: da un lato Carlo, non avendo più a che fare con una bambina ma con una quasi-donna, comincia a distaccarsi dalla figlia e ad approfondire il rapporto con Elena, una fidanzata con cui ha un rapporto saltuario; dall’altra Vale cerca apparentemente di mantenere immutate le dinamiche che la legano al padre, ma in realtà è forte in lei il bisogno di ampliare il suo universo affettivo e sociale. Per Vale il rapporto col padre diventa un rifugio molto rassicurante ma altrettanto stretto. Citando la favola metaforica che fa da cornice a tutto il film, si potrebbe dire che Vale si trova combattuta tra la paura di addentrarsi nel bosco e l’irresistibile curiosità di scoprire cosa si celi al di là del confine. Lo scontro diventa inevitabile. Carlo comincia a non rispettare più orari e programmi decisi con la figlia e lei si sente tradita e gelosa di Elena. È una gelosia tipica di certe fasi dell’infanzia, che Vale manifesta tardivamente, in cui la bambina vuole sposare il padre ed entra in competizione con la madre. Vale però sente contemporaneamente anche la pulsione ad uscire con i suoi coetanei, la curiosità di innamorarsi e di sperimentare sentimenti nuovi. Questo mondo esterno è rappresentato nel film dall’amica Giò, compagna di classe che cerca di svegliarla dal suo torpore infantile invogliandola ad uscire e a conoscere dei ragazzi. Vale si rifugia in casa, mostrandosi dispiaciuta per dover passare l’ennesima serata a casa con Carlo a vedere l’ennesimo film d’autore, in realtà ben contenta e rassicurata dalla sua quotidianità. L’arrivo della madre, Valentina, evento che non viene percepito se non per interposta persona da Vale, porta ad un precipitare della situazione, ad una salutare crisi da cui ripartire con nuove, più adeguate, regole. Carlo, che cerca di tenere nascosta la presenza di Valentina per proteggere la figlia da uno shock, protrae le assenze e comincia a non rispettare i patti, nemmeno la promessa di aiutarla per preparare l’ultimo decisivo compito in classe di matematica. Vale decide allora, con l’aiuto di Giò, di compiere un atto dimostrativo e punitivo. La fuga che organizza, una due giorni a Genova pagata con i soldi rubati a Carlo, rappresenta un tentativo di rottura ed un modo per far sentire forte la propria voce e la propria presenza. Vale vuol cercare di distogliere l’attenzione di Carlo da Elena (lei pensa che Carlo stia passando il suo tempo con lei) e riportarlo sull’intimità della loro famiglia; allo stesso tempo intende dimostrare al padre che la presenza della figlia non è né scontata né gratuita; e infine rappresenta un modo per mettere alla prova la propria autonomia e sperimentare la propria libertà. Il fallimento della fuga non è però un fallimento personale, ma anzi una rinuncia consapevole, il preciso indizio di una maturazione sana, una scelta, finalmente, adulta. Al contrario della madre, che ha fallito il suo tentativo di riconciliazione con il proprio passato ed ha capito di non poter tornare in possesso del tempo perso, Vale decide di rimanere e di crescere in maniera graduale. L’incontro tra le due “Valentine” non avviene e non può avvenire proprio perché l’una non ha più bisogno dell’altra. Vale è diventata Valentina, una figura nuova ed autonoma, diversa dalla madre. Ormai anche l’equivoco del nome non ha più motivo di essere. Ludovico Bonora