di Davide Ferrario
(Italia, 2008)
Davide Ferrario, autore di Tutta colpa di Giuda in questi giorni nelle sale, aveva dichiarato che si sentiva un regista con il “vizio del carcere” durante la tavola rotonda nell’ambito della rassegna Ora d’aria, un evento organizzato dal progetto CAMeRA nel dicembre 2008, all’interno del Sottodiciotto Filmfestival per conto del Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza. A differenza della maggior parte delle persone che di fronte a quella realtà nascosta da alte mura e cancellate di ferro scelgono di chiudere gli occhi, Ferrario ha da sempre preferito aprirli per confrontarsi con essa e mettere in discussione se stesso e il sistema di valori che regge la nostra società.
Tutta colpa di Giuda appare dunque come il punto d’arrivo di un percorso che ha visto il regista approfondire il suo rapporto con luoghi e personaggi di solito sottratti non solo alla visione ma anche alla riflessione da parte della collettività, per giungere a girare, come ha affermato in conferenza stampa, «non un film sul carcere ma un film nel carcere». In occasione della tavola rotonda alla quale intervenne durante il Sottodiciotto, tenuto per contratto a un rigoroso riserbo sul film (all’epoca ancora in postproduzione), Ferrario portò la sua testimonianza soprattutto umana, quella di chi per anni ha svolto con grande discrezione attività in favore dei detenuti, mettendo la propria esperienza e professionalità a loro disposizione.
Guardando il film comprendiamo bene perché il regista accolse con entusiasmo l’invito degli organizzatori di Ora d’aria: la rassegna, incentrata sulle forme di rappresentazione cinematografica della realtà carceraria minorile, coinvolgeva non solo alcuni dei registi italiani che hanno documentato la vita in carcere attraverso la macchina da presa (Enrico Pau, autore di Jimmy della Collina, Lara Rastelli, regista di Nisida, grandir en prison, Piergiorgio Gay, autore di Falsa testimonianza) ma anche numerose associazioni teatrali che operano in ambito carcerario organizzando corsi di recitazione e spettacoli per i giovani detenuti come, per esempio, il Teatro Kismet di Bari, il Teatro del Pratello di Bologna, il Teatro Puntozero di Milano. Tutta colpa di Giuda a sua volta, narra con ironia le vicende di Irena (Kasia Smutniak), una giovane regista teatrale che prova a mettere in scena con un gruppo di detenuti uno spettacolo ispirato alla Passione di Gesù e che, proprio venendo in contatto con la realtà dei reclusi comprende come persino un testo apparentemente intoccabile come il Vangelo, se viene messo in scena “dietro le sbarre” deve essere sottoposto alle opportune “correzioni”. La trovata che dà il titolo al film (nessuno dei detenuti vuole, com’è ovvio, interpretare la parte di “quell’infame di Giuda”) è solo il tassello più divertente di un mosaico di considerazioni che, partendo dal problema della messa in scena di uno dei testi fondativi della nostra cultura e della nostra società, riesce ad allargare l’orizzonte della riflessione a concetti come quelli di “salvezza”, “redenzione”, “espiazione”. Il tentativo di mettere in scena una Passione senza Giuda (e magari anche senza croce), risponde – in maniera forse semplicistica ma al tempo stesso provocatoria – all’esigenza di immaginare una realtà dalla quale la sofferenza, l’isolamento, l’alienazione da se stessi e dagli altri non costituiscano il necessario viatico alla ben più laica idea di “recupero” del cittadino detenuto alla vita sociale. Sotto le spoglie scanzonate del musical – il sottotitolo del film è Una commedia con musica – Ferrario gira una pellicola sincera e sentita, risultato del lavoro collettivo dei detenuti della sezione VI blocco A della casa circondariale Lo Russo e Cutugno di Torino: una bella sfida, se si considerano non soltanto le difficoltà cui va necessariamente incontro la lavorazione di un film all’interno di un carcere, ma anche lo scarsissimo interesse dei media nei confronti di questa realtà. E considerato, soprattutto, che l’idea di espiazione in un Paese come il nostro – permeato dalla cultura cattolica – troppo spesso fa rima con pena, castigo e sacrificio e, solo raramente, con riscatto, recupero e riabilitazione. A scanso di equivoci il film di Ferrario dimostra come le attività (teatrali o cinematografiche che siano) svolte nelle carceri non sono banali momenti di ricreazione, palliativi per la noia di chi è detenuto e non sa come passare il tempo, bensì un vero e proprio lavoro attraverso il quale conquistare un passo per volta la libertà (quella dell’interprete, capace di “uscire da se stesso” per impersonare qualcun altro), proprio come dovrebbe avvenire attraverso un rigoroso percorso carcerario.
Fabrizio Colamartino
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